A febbraio scorso, anniversario dell’incoronazione della regina Elisabetta II, circolava una battuta nei circoli accademici turchi: «Anche noi festeggiamo il nostro giubileo di platino!». Infatti, nel febbraio di settant’anni fa, mentre una giovane Elisabetta prendeva le redini del potere britannico, Ankara entrava nella Nato. Certo, le celebrazioni nel caso turco sono state molto più di basso profilo e meno festose rispetto a quelle nel Regno Unito. Questo non sorprende: negli ultimi anni, c’è stato un deterioramento delle relazioni tra Turchia e diversi altri membri Nato, che si è ripercosso negativamente sull’Alleanza. Da Washington a Berlino, molte capitali Nato hanno espresso sempre maggiore preoccupazione per l’allontanamento della Turchia dall’occidente e, parallelamente, per il suo avvicinamento alla Russia.

Si è detto molto su questo tema, e il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan viene frequentemente descritto dalla stampa occidentale come un autocrate assetato di potere che ha abbandonato l’orientamento filoccidentale a favore di ambizioni neo-ottomane e legami più forti con Mosca. Quanto c’è di vero in quest’immagine? Ci troviamo di fronte a una sfida nuova o, semplicemente, si tratta di un déjà-vu di passate crisi? E, soprattutto, qual è il futuro di Ankara nella Nato a pochi giorni dal Summit di Madrid?

L’identificazione con gli Usa

A giudicare sia dalla retorica usata da Ankara sia da alcune delle sue politiche più o meno recenti, non c’è dubbio che le relazioni della Turchia con l’occidente non godano di ottima salute. È vero che, il più delle volte, si tratta di problemi con singoli membri, più che con la Nato in sé. Eppure, problemi con i membri Nato non possono non essere percepiti in tutta l’Alleanza. Questo vale soprattutto per gli Stati Uniti.

Secondo una fonte interna al parlamento, i turchi tendono a identificare la Nato con gli Stati Uniti e, di conseguenza, nella maggior parte dei casi i problemi con gli Usa sono considerati problemi con la Nato, o che questa dovrebbe risolvere. Questo si riflette anche nella lettura che molti analisti fanno delle crisi Nato più disparate, dalla recente riluttanza turca ad ammettere Svezia e Finlandia nell’Alleanza alle crisi connesse all’invasione turca di Cipro nel 1974 e a quella statunitense dell’Iraq nel 2003: al di là delle crisi bilaterali con Nicosia o Helsinki, la difficile relazione con Washington rimane il vero elefante nella stanza.

L’esempio lampante di questa dinamica è la controversia relativa all’acquisto da parte della Turchia del sistema russo di difesa missilistica terra-aria S-400. Questo caso dimostra come una disputa bilaterale Usa-Turchia circa il prezzo del sistema missilistico Patriot abbia, in realtà, chiare ricadute per le relazioni Turchia-Nato, sia in termini di orientamento strategico a lungo termine sia in termini di interoperabilità dei sistemi.

Addirittura, gli Usa temevano che gli S-400 potessero agire da spie, raccogliendo dati sui membri Nato (ipotesi smentita dalla Turchia). Inoltre, in seguito all’acquisto del sistema russo, gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni all’industria della difesa turca, rimuovendo la Turchia dal programma dei caccia F-35, al cui sviluppo la stessa Ankara aveva partecipato.

Risentimento profondo

Il caso degli S-400 rappresenta uno dei principali motivi d’attrito tra Nato e Turchia, ovvero il crescente avvicinamento di quest’ultima al paese che ha motivato la stessa fondazione dell’Alleanza e che resta il suo principale avversario ancora oggi: la Russia.

La relazione tra Ankara e Mosca, segnata da cicli di cooperazione e competizione in essere fin dai tempi degli imperi russo e ottomano, è oggi particolarmente solida sul piano economico, energetico e politico, nonostante permangano divergenze, asimmetrie e una diffidenza di fondo. Ciò che permette ai due paesi e ai loro leader di collaborare superando le proprie differenze è il fatto di utilizzare lo stesso linguaggio politico e di condividere una frustrazione simile nei confronti dell’occidente.

Il culmine della frustrazione turca, maturata in seguito a episodi come l’entrata di Cipro nell’Ue o alle posizioni di molti membri europei e degli Usa sul genocidio armeno o sulla questione curda, si è raggiunto dopo il tentato golpe del 2016. Quest’ultimo episodio, usato da Erdoğan per continuare a “epurare” ulteriormente l’opposizione politica, rappresenta agli occhi del governo l’esempio perfetto della mancanza di solidarietà occidentale, in contrasto col “supporto incondizionato” offerto dal presidente russo Vladimir Putin.

Inoltre, il fatto che gli Stati Uniti si siano finora rifiutati di estradare l’imam Fethullah Gülen, accusato da Ankara di aver organizzato il golpe, e che non riconoscano “FETÖ” come organizzazione terroristica, non fa che alimentare la sfiducia e un risentimento profondo verso tutta l’Alleanza. Un sentimento che, nell’opinione pubblica, acuisce la cosiddetta sindrome di Sèvres (dal trattato con cui dopo la Grande guerra si propose la spartizione dell’impero ottomano), una teoria diffusa in Turchia secondo cui pericolosi nemici interni ed esterni, in primis l’occidente, cospirano per indebolire e spartirsi la Repubblica turca. Una teoria che ricorda molto un’altra sindrome: quella d’accerchiamento denunciata dalla Russia di Putin.

Relazioni variabili

Turchia e Russia capiscono le vulnerabilità dell’altro, assecondandole o sfruttandole a proprio favore a seconda della situazione. Oltre al complicato rapporto con l’occidente, la principale minaccia interna alla sicurezza nazionale vista da Ankara è il movimento curdo. Mentre il sostegno statunitense all’organizzazione indipendentista curdo siriana Unità di protezione popolare (Ypg) continua in funzione della lotta contro Daesh, la Russia ha saputo sfruttare le sue secolari relazioni con i curdi in maniera più cinica, sacrificandole in Siria come moneta di scambio politica con la Turchia.

L’esempio siriano dimostra come Turchia e Russia, inizialmente agli antipodi nel conflitto, abbiano saputo appianare divergenze per collaborare pragmaticamente e instaurare legami più profondi, anche con un altro nemico degli Stati Uniti e della Nato nella regione: l’Iran. La guerra in Siria dimostra anche il relativo scollamento tra le percezioni di sicurezza turche, da un lato, e statunitensi e Nato, dall’altro. Questo non può che essere un problema per un’alleanza che si basa proprio sulla sicurezza.

Ma quella tra Russia e Turchia non è propriamente un’alleanza. Il fatto che la Russia sia stata in grado di intensificare le politiche di ritorsione nei confronti della Turchia così rapidamente dopo la crisi del jet russo abbattuto nel 2015 conferma la lettura per cui le relazioni, nonostante le fanfare, non sono né simmetriche né strutturalmente profonde.

Inoltre, l’adesione alla Nato rimane per Ankara la migliore forma di difesa contro l’aggressione di Mosca nella regione del mar Nero ed è una garanzia di sicurezza collettiva che il governo turco probabilmente non sarà mai disposto a sacrificare.

D’altronde, non si può escludere che in futuro possano emergere nuovi fronti regionali tra Russia e Turchia. Non solo alla luce della storia dei conflitti turco-russi, ma anche considerando le attuali divergenze circa l’invasione russa dell’Ucraina, i diversi “conflitti congelati” nel loro “vicinato”, tensioni residue in Siria e Libia e possibili scontri per accrescere l’influenza in Africa subsahariana.

Approccio transazionale

La relazione tra Nato e Turchia è storicamente caratterizzata da divergenze e crisi, e da un approccio “transazionale” della Turchia, oggi dimostrato dall’opposizione di Ankara all’adesione svedese e finlandese, che mira anche a sollevare l’embargo sulle armi contro il paese. In passato, la Turchia ha bloccato la cooperazione Nato-Ue come ritorsione per l’ingresso della Repubblica greca di Cipro nell’Unione europea, rendendo praticamente nullo l’accordo Berlin plus del 2002 che avrebbe appunto approfondito la collaborazione con Bruxelles.

Ma la relazione è segnata anche dalla cosiddetta “alliance dependency”, ovvero dalla consapevolezza da entrambe le parti di essere troppo dipendenti dall’alleanza per recidere i legami. L’alternativa è semplicemente considerata peggiore. Per la Nato (e l’Unione), inimicarsi la Turchia nell’attuale situazione di scontro con la Russia non sarebbe razionale. Quindi, anche se la guerra in Ucraina sembra voler rafforzare la dimensione valoriale nell’Alleanza, permarrà probabilmente anche una buona dose di pragmatismo. Lo stesso pragmatismo pervade le scelte turche, visto che l’equilibrio tra il contenimento della Russia nel mar Nero e il mantenimento di buone relazioni con Mosca, anche alla luce della questione curda, deve essere preservato.

Le contraddizioni della relazione della Turchia con la Nato sono riassunte nei risultati di un sondaggio realizzato qualche anno fa, nel 2017, dal German Marshall fund con l’università Bilgi: nonostante solo il 13 per cento degli intervistati avesse un’opinione positiva della Nato, la maggior parte di essi dichiarava di volerci rimanere.

Alla luce di questi elementi, possiamo azzardare una risposta alla più cruciale delle domande fatte in apertura: qual è il futuro della Turchia nella Nato? Il futuro di Ankara è nell’Alleanza, per ora. Ma attenzione a non darlo troppo per scontato.

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