In oltre un anno di conflitto, il massacro di Gaza ha raggiunto oltre 44mila morti, le truppe israeliane hanno invaso il sud del Libano e ne hanno causati più di altri tremila, prima di raggiungere una tregua precaria con Hezbollah. I soldati dello stato ebraico hanno attaccato più volte le basi di Unifil e contro il premier Benjamin Netanyahu e l’ex ministro della Difesa, Yoav Gallant, sono stati emessi due mandati di arresto per crimini di guerra dalla Corte penale internazionale.

Il Medio Oriente è in una fase storica molto diversa rispetto a quella precedente al 7 ottobre 2023. E in questo contesto mutato, gli stati arabi dell’area hanno assunto una posizione unitaria tra loro: hanno richiesto il riconoscimento di uno stato palestinese, hanno condannato la guerra a Gaza e hanno accolto con favore l’accordo di tregua firmato in settimana.

Al di là di una postura pubblica equiparabile a quella di altri stati europei, non hanno mai interrotto i loro rapporti diplomatici ed economici con lo stato ebraico.

La questione è complessa e non può ridursi alla mera considerazione che sia stata abbandonata per strada la causa palestinese. Di mezzo ci sono troppi fattori: dalle divisioni all’interno alle questioni economiche, fino alle relazioni storiche con Israele. Su alcuni stati influisce il rinsaldarsi dei rapporti con Tel Aviv, suggellato dagli accordi di Abramo firmati da Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Marocco e Sudan. Prima del 7 ottobre, era previsto anche un avvicinamento storico con il Regno saudita, ma il progetto – solo per ora – è stato congelato. E molto probabilmente con l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca, quel dossier ritornerà attuale visto anche il duro colpo subito da Hamas, che nel manifesto dell’attacco terroristico del 7 ottobre aveva accusato gli stati arabi di aver più che normalizzato i rapporti con Israele.

Oltre a Egitto e Qatar, chi conosce gli ambienti diplomatici afferma che gli altri stati hanno comunque eseguito pressioni ufficiose nei confronti di Israele, ma non hanno interrotto le relazioni.

«La popolazione araba ha ancora forti sentimenti filopalestinesi, la leadership invece è molto più pragmatica», spiega Giuseppe Dentice, responsabile desk Africa e Medio Oriente per il Centro studi internazionali. «I leader sono consci che la causa palestinese è identitaria, ma anche che il futuro è la cooperazione arabo-israeliana. La causa palestinese è un peso difficile da gestire, ma non può essere abbandonata». Mostrare cautela è l’approccio dell’ultimo anno: «Il fatto di non esporsi o assumere posizioni ambigue maschera un mix di interessi interni ed esterni che dominano le scelte».

Egitto

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Gli egiziani in questo ultimo anno si sono intestati, anche per motivi storici, il ruolo di mediatori insieme al Qatar. Tutto ciò che riguarda Gaza viene trattato in prima persona dai servizi di intelligence e l’obiettivo dell’Egitto è quello di evitare di ritrovarsi con oltre 1.5 milioni di profughi palestinesi nel suo territorio.

Tra le delegazioni di Doha, il Cairo e Washington si sono tenuti incontri proficui nella prima fase del conflitto con un cospicuo scambio di prigionieri e ostaggi. Ora i canali di comunicazione sono stati riaperti, anche perché Hamas ha detto più volte negli ultimi giorni di voler arrivare a un accordo per il cessate il fuoco.

Anche per l’Egitto la guerra deve finire il prima possibile, troppo alto il conto economico pagato finora. Gli attacchi nel Mar Rosso degli Houthi, i ribelli yemeniti sostenuti dall’Iran, hanno fatto perdere in un anno almeno 6 miliardi di dollari al Canale di Suez. Cifre non indifferenti per un’economia che soffre da tempo. Prendere una posizione netta contro Israele rischierebbe di far chiudere il tavolo delle trattative a data da destinarsi.

Oltretutto, il Cairo non può permettersi in questo momento di alzare le tensioni militari con Israele, perché significherebbe farlo anche con un alleato prezioso come gli Stati Uniti. Per ultimo, Israele è un importante partner energetico. L’Egitto sta consumando il gas che produce, tanto che è stato costretto a importarne grandi quantità da Israele, per venderlo poi all’Europa con la quale ha preso impegni energetici. Quando Israele ha tagliato momentaneamente le esportazioni, dopo lo scoppio del conflitto, l’Egitto ha dovuto raddoppiare i blackout a rotazione a due ore al giorno.

La Giordania

Amman e Tel Aviv vantano relazioni diplomatiche e storiche da oltre trent’anni. Questo ha permesso di stringere accordi vitali per la Giordania, che dal campo israeliano di Leviathan importa grandi quantità di gas (per il paese arabo rappresenta il 70 per cento dell’elettricità interna prodotta), ma anche acqua potabile.

La Giordania è uno dei paesi che genera meno acqua al mondo: 950 milioni di metri cubi l’anno su un fabbisogno di oltre 1.4 miliardi. La restante parte è coperta anche da Israele, che ha pure fornito la tecnologia ad Amman per desalinizzare l’acqua marina.

Qatar

Il Qatar da sempre a confronto con il potente Regno Saudita ha cercato di costruire la sua credibilità internazionale investendo molto sull’industria bellica occidentale e assumendo il ruolo da mediatore in diversi conflitti. E così ha fatto anche nell’ultimo anno, benché sia accusato di ambiguità perché fornisce sul suo territorio ospitalità ai leader di Hamas (a Doha alloggiava Ismail Haniyeh prima di essere assassinato a Teheran). Ma ora il quadro sta cambiando. Qualche giorno fa una fonte diplomatica qatarina aveva annunciato ai media che il paese si sarebbe ritirato dalle trattative perché era venuta meno la volontà delle parti di trovare un accordo. La stessa fonte aveva affermato che l’ufficio di Hamas a Doha «non serve più a nessuno scopo», mettendo in allarme l’organizzazione che sta pensando a un suo trasferimento in Turchia.

Washington ha sempre puntato molto sul piccolo emirato, trovando un alleato affidabile. Inoltre, il Qatar nonostante non sia parte degli accordi di Abramo è uno dei paesi dell’informale alleanza di difesa aerea (Mead) messa in piedi da Israele con diversi stati arabi. L’alleanza è entrata in funzione durante gli attacchi iraniani contro lo stato ebraico dando tutti i suoi frutti. Della Mead ne fanno parte anche Giordania, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e lo stesso Qatar.

EAU e Arabia Saudita

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Al di là di qualche dichiarazione di contesto, il regno saudita attende e osserva cosa sta accadendo intorno. Gli obiettivi del principe Mohammed bin Salman sono due: avere l’egemonia sull’Iran nella regione (nonostante le distensioni recenti) e portare a termine il suo ambiziosissimo piano Saudi Vision 2030. Una guerra allargata nella regione minerebbe l’intero progetto o una sua parte, come la costruzione dell’ipertecnologica città di Neom nel nord del paese che si trova a pochi chilometri dal Negev israeliano. Qualsiasi ostacolo al Saudi Vision 2030 rischia di minare la credibilità internazionale che bin Salman ha costruito con fatica dopo l’uccisione del giornalista Jamal Khashoggi.

Inoltre per Riad gli Houthi sono stati un annoso problema nel vicino Yemen e la coalizione occidentale Prosperity Guardian nata per difendere le navi nel Mar Rosso ha depotenziato – a loro vantaggio – le capacità belliche del gruppo sostenuto dall’Iran. Diverso è il discorso per gli Emirati Arabi Uniti, un paese giovane rispetto ad altri che non ha fatto fatica a firmare gli accordi di Abramo con Israele e a legarsi allo stato ebraico con investimenti in vari settori da quello energetico a quello tecnologico. Dagli accordi del 2020, Abu Dhabi è diventato un grande acquirente per l’industria bellica israeliana e il commercio bilaterale tra i due paesi ha superato i tre miliardi di dollari rispetto ai precedenti 190 milioni di dollari. «A differenza dell’Arabia Saudita, gli Eau non hanno avuto guerra con Israele. Questo significa stringere accordi di natura economica con meno peso», spiega Dentice.

Hamas e Hezbollah

Osservatori imputano parte del silenzio dei paesi arabi alle divisioni interne al mondo musulmano tra sciiti e sunniti. «È una divisione da non sopravvalutare. La religione è solo lo strumento con la quale si esplicitano le tensioni, ma in realtà sono dovute ad altro come ad esempio l’egemonia nella regione», spiega Dentice.

«Che la leadership araba sia contenta di indebolire Hamas ed Hezbollah non è un segreto. Ma a differenza di Hezbollah, Hamas è più connaturata all’interno dei meccanismi mediorientali. Vorrebbero farne a meno, ma non possono. Hamas è stata capace di tessere importanti relazioni negli anni, è vista come contrappeso a qualsiasi iniziativa di altri paesi nell’area. Verso Hamas c’è molta più difficoltà a prendere posizione rispetto a Hezbollah», aggiunge il ricercatore. Ma ora, con l’organizzazione palestinese che ha perso il sostegno militare del Partito di Dio, le carte sul tavolo sono cambiate un’altra volta.

C’è quindi incertezza, ma è dettata anche dal fatto che Israele ha intrecciato parte del suo futuro economico con quello dei suoi paesi vicini, e ora interrompere quel rapporto è più complicato.

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