«Circa cinquanta minuti». Secondo il consigliere del presidente russo Ushakov, Putin e Trump sono rimasti al telefono per quasi un’ora: hanno parlato poco della crisi ucraina – i cui negoziati, dice il Cremlino, possono riprendere dopo il 22 giugno – e molto di quella in corso tra Israele e Iran. Il leader russo, uomo di guerra in Ucraina e uomo di pace in Medio Oriente, condanna le azioni di Israele e teme l’escalation: propone la via del negoziato, un accordo «reciprocamente accettabile» tra Teheran e Tel Aviv, nel quale proprio la Russia si proporrebbe come mediatore. Putin infatti non vuole inimicarsi Trump, schierato senza se e senza ma con Tel Aviv: il voltafaccia americano nei confronti dell’Ucraina è fondamentale per il huon esito del conflitto con Kiev.

Per ironia della sorte, della storia, o forse solo dei suoi presidenti, Putin è in contatto con entrambe le controparti. Al presidente iraniano Masoud Pezeshkian ha detto che condanna le azioni israeliane «intraprese in violazione della Carta delle Nazioni Unite», durante la telefonata intercorsa con il primo ministro israeliano ha consigliato di usare «mezzi politici e diplomatici».

Il ruolo del Cremlino

Mosca si era già offerta come mediatrice in passato: aveva proposto di convertire l’uranio arricchito iraniano in combustibile, ha poi provato a fare da ponte tra Washington e Teheran, con cui ha recentemente firmato un patto di partenariato strategico ventennale. Un accordo che, astutamente, non prevede difesa reciproca in caso di attacco. Come Mosca, sabato anche Pechino: la condanna agli attacchi israeliani è arrivata dalla bocca del ministro degli Esteri Wang Yi.

Il sesto round di negoziati tra la delegazione iraniana e quella statunitense sarebbe dovuto iniziare oggi in Oman, a Mascate. Oggetto dell’ennesimo e difficoltoso incontro: il programma nucleare di Teheran. Lo aveva già annunciato, dando per certo il tavolo dei colloqui – in cui, secondo indiscrezioni, era atteso anche l’inviato speciale Usa Steve Witkoff – Badr al-Busaidi, ministro degli Esteri del sultanato.

Ma scie di fuoco dei missili balistici e boati delle esplosioni hanno squarciato i terreni mediorientali ed eliminato ogni possibilità di una trattativa. Lo ha dichiarato il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi: è la fine del dialogo. È stato chiaro durante il colloquio telefonico che ha avuto sabato con l’Alta rappresentante dell’Unione, Kaja Kallas, quando ha puntato l’indice contro Washington: le operazioni militari israeliane sono «il risultato» del supporto diretto degli americani, dunque «la continuazione dei colloqui indiretti tra Iran e Stati Uniti è ingiustificabile in una situazione in cui permane la violenza del regime sionista».

Per Esalmaeil Baqaei, portavoce del dicastero, ora la missione è cambiata: «La priorità è rispondere agli attacchi di Israele», non sedersi al tavolo con «lo sponsor e alleato chiave» di Tel Aviv. Non la pensano così al Pentagono. Per Pete Hegseth, segretario alla difesa Usa, l’Iran può ancora tornare al tavolo: «Prendano la decisione giusta, possono scegliere la pace». Ma, per il presidente Pezeshkian, il sostegno Usa a Israele – proprio nel bel mezzo dei colloqui – testimonia la loro natura «disonesta».

Gli appelli europei

Che il perimetro della mappa di guerra possa allargarsi velocemente e pericolosamente non è solo un’ipotesi remota di qualche analista angosciato. Il rischio di escalation nella regione è «pericolosamente alto», ma «la diplomazia deve prevalere», ha detto Kallas, ribadendo però la «chiara» posizione dell’Ue: l’Iran non deve possedere il nucleare. La situazione rimane estremamente «instabile», il pericolo di escalation è reale, ha detto sabato da parte sua il ministro degli Esteri tedesco Johann Wadephul in visita in Arabia Saudita, mentre attacchi continuavano in entrambe le direzioni: l’armamento nucleare sciita costituisce una «reale minaccia» non solo per Israele, ma per tutta la regione.

Nel coro dell’Unione che invita alla riduzione immediata delle tensioni, Mark Rutte, segretario generale Nato, pronto a lavorare con gli alleati, «Stati Uniti compresi, per ridurre l’escalation».

L’invito assomiglia al monito e ritorno alla «moderazione» chiesto dalla presidente della Commissione Ue Ursula Von der Leyen, che ha ribadito – come hanno fatto anche il presidente francese Macron e il cancelliere tedesco Merz – «il diritto di Israele a difendersi e difendere il suo popolo».

La ripetizione di appelli, simili e laconici, per il ritorno al dialogo tra iraniani e israeliani difficilmente metterà un freno al premier Netanyahu che rimane sordo a soluzioni politiche e promette ancora un futuro di fuoco e fiamme a Teheran. Quella mediorientale sembra, dopo quella ucraina, la seconda icona dell’insuccesso della diplomazia europea, che ora viene sconfitta un po’ più in là di Kiev, nella polveriera mediorientale, che rischia di spalancare un nuovo abisso di caos e conseguenze imprevedibili.

I leader occidentali rimangono unanimemente allineati a fianco di Israele, ma Teheran avvisa: basi e navi, non solo quelle a stelle e strisce, ma anche quelle di Londra e Parigi nella regione, sono a rischio attacco. E non solo quelle. Teheran valuta la chiusura dello stretto di Hormuz, la via del greggio che scorre tra Oman e Iran, la strada liquida che trasporta petrolio, già alle stelle per la crisi ucraina e quella scatenata dai dazi di Trump, il presidente che prometteva pace in poche ore in Ucraina e stabilità in Medio Oriente e festeggia oggi non solo il suo compleanno, ma anche un nuovo insuccesso.

Tra le conseguenze di questo conflitto potrebbe già nascondersi una vittoria russa: mentre le borse mondiali crollano, quella di Mosca sale per l’aumento del prezzo dell’oro nero.

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