Autocrazia contro democrazia. Nazional-populismo contro Europa federale. Ma anche la sinistra fighetta, declamatoria, contro la sinistra dell’uguaglianza e della giustizia sociale. Javier Cercas, amatissimo scrittore spagnolo, non si ritiene un intellettuale: «Per molto tempo mi ha fatto orrore la semplice idea che qualcuno potesse spingersi a farlo». Ma da molti anni ha accettato di intervenire nel dibattito pubblico europeo, con articoli e discorsi raccolti ora in Colpi alla cieca (Guanda). Il 18 gennaio El País ha pubblicato il testo di una sua lunga conversazione all’Eliseo con il presidente francese Emmanuel Macron, un incontro tra «il più intellettuale dei leader europei e lo scrittore che ha sviscerato come pochi i meccanismi del potere», l’ha presentato il quotidiano spagnolo. Nel nostro dialogo Cercas riparte dalla questione che più lo interessa, la crisi della democrazia. 

«La crisi della democrazia è il tema del nostro tempo, non designa un cliché vuoto, ma una realtà tangibile», hai scritto.

L’ottimismo tipico della fine del secolo scorso è finito. È terminata l’idea che la democrazia fosse, almeno in alcuni paesi e in certe circostanze, the only game in town, l’unico gioco nella città. La democrazia è in pericolo oggi anche nell’Unione europea, in alcuni stati, in Ungheria, in Polonia. Si è visto dopo il 2008. La crisi economica del 2008 è paragonabile a quella del 1929. La crisi del 1929, lo sappiamo molto bene, ha portato alla ascesa o al consolidamento dei fascismi e dei totalitarismi e alla seconda guerra mondiale. La crisi del 2008 ha portato alla ascesa o al consolidamento di quello che definisco nazional-populismo. Nel Novecento il fascismo non era il nazismo, che a sua volta non era il falangismo. Così il nazional-populismo cambia volto da paese a paese: Donald Trump e la Brexit, la Catalogna e Bolsonaro in Brasile. In comune ci sono il nazionalismo radicale e lo scetticismo verso la democrazia, in modo certo molto diverso rispetto a un secolo fa.

Per me questo è il problema principale. E lo vedi con la guerra in Ucraina. L’invasione ha cause interne alla Russia, c’è una crisi esistenziale della Russia, Putin ha dato una risposta imperiale a questa domanda, ma questa guerra va collocata in questo contesto più ampio. È la prima grande manifestazione bellica su grande scala del nazional-populismo. Putin è stato importante per Trump, ha sostenuto la Brexit e il separatismo catalano, ha finanziato alcuni partiti nazionalisti europei, è stato molto determinato nel rendere più deboli e fragili le democrazie. Questa è oggi la grande sfida, tra democrazia e autocrazia.

Questa lotta è stata al centro della tua conversazione con il presidente Macron. Ti sei chiesto: la guerra in Ucraina potrebbe essere il prologo. Sì, ma il prologo di cosa?

Con Macron ho provato a fare un parallelismo storico, con mille cautele, tra quanto è successo in Spagna negli anni Trenta e quanto sta succedendo oggi in Ucraina. In Spagna si è combatteva la lotta tra democrazia e totalitarismi e la Spagna fu abbandonata dai sistemi democratici europei. L’ho detto al presidente francese, all’Eliseo. Hitler e Mussolini hanno appoggiato Franco e il risultato per la Spagna è stato non tre anni di guerra, ma quaranta, perché il franchismo è stato il proseguimento della guerra con altri mezzi.

Oggi, per fortuna, l’Europa democratica fa sostiene l’Ucraina, fa quello che non fece con la Spagna negli anni Trenta del Novecento. Gli ucraini lottano per i nostri valori, so bene che in questa lotta non tutti credono nella democrazia, ma anche questo successe in Spagna.

A Macron ho detto che la guerra di Spagna è stato il prologo della guerra mondiale. E mi sono chiesto con lui se la guerra in Ucraina possa essere l’inizio di qualcosa di peggio. Macron ha risposto che la sua principale preoccupazione, condivisa con l’Europa e con gli americani, è stata di appoggiare l’Ucraina e di evitare al tempo stesso l’estensione della guerra che si trasformerebbe in un conflitto mondiale. Questo equilibrio è fragile e pericoloso. Appartengo alla prima generazione di europei che non ha conosciuto una guerra tra grandi poteri in Europa, a parte quella nella ex Jugoslavia.

Abbiamo pensato che l’Europa unita ci avrebbe preservato dalla guerra e invece vediamo che non è così. Il pericolo della guerra grande esiste. Non possiamo escludere che la guerra sia possibile. Stefan Zweig nel 1913-14 scriveva che per gli europei del suo tempo parlare di guerra era come parlare di fantasmi, una cosa irreale, fantastica. E invece tutto è finito. Per questo io non sono tranquillo.

Nessuno può esserlo. Aggiungo che in molti vedono un’Europa assente, pesantemente condizionata dagli interessi delle singole nazioni, in particolare le più forti. L’Europa unita è ancora una buona idea?

Mi sento un europeista estremista, ho fatto mia questa espressione di Erri De Luca. L’Europa è l’unica utopia ragionevole che abbiamo inventato noi europei, nel senso ideale del termine. L’Europa è stata per secoli il luogo dove si scannavano, il nostro nel dopoguerra è stato il periodo più lungo di pace dalla guerra di Troia. Abbiamo inventato nel Novecento utopie atroci, assassine, questa è l’unica capace al contrario di preservare la pace. Per questo è un progetto rivoluzionario: diversi paesi, con diverse lingue e culture, si uniscono dopo essersi combattuti per secoli. Se dovessi dirlo con uno slogan sceglierei “e pluribus unum”: dai molti uno. È il grande progetto del nostro secolo. Ma non so se gli europei siano all’altezza.

Su questo punto ho avuto un dissenso con il presidente Macron. Penso che il progetto europeo ha il problema di essere elitista. Dopo il conflitto mondiale alcuni uomini politici italiani, tedeschi, francesi hanno ipotizzato l’Europa unita. Ma non è ancora diventata un progetto popolare. Macron dice che non è vero, che è popolare, che la gente considera l’euro importante, che durante la pandemia l’Europa c’è stata. Però gli italiani all’inizio si sono sentiti abbandonati, così come avviene nelle crisi migratorie. Ed è vero che la gente è cosciente dell’Europa, ma non la sente così importante. Manca un’adesione popolare, sentimentale. Per arrivarci bisogna compiere una rivoluzione, finirla con l’isolamento, serve abbandonare una visione del mondo nazionalista fatta di identità escludenti e arrivare al federalismo, a sovranità che si condividono, a identità complesse. Una rivoluzione necessaria.

L’Europa unita è la principale eredità politica nata dall’orrore del Novecento, i totalitarismi e l’Olocausto. In Italia Liliana Segre ha denunciato che questa memoria va svanendo, che la testimonianza sta diventando noiosa, che nei libri di storia ci sarà al massimo una riga. Tu hai parlato invece di tirannia della memoria. Quanto è fragile la memoria, come si difende dall’impostura?

Viviamo un tempo paradossale. Da un lato c’è una sorta di sacralizzazione della memoria, con i sopravvissuti delle grandi stragi del Novecento che ne sono testimoni, dall’altro dimentichiamo tutto rapidamente, la memoria è più fragile che mai. Ho scritto L’Impostore per raccontare come la memoria possa servire a volte per nascondere il passato. Bisogna essere onesti, il passato va affrontato in tutta la sua complessità. Da giovane pensavo che la Spagna fosse l’unico paese che aveva problemi con il suo passato, con la sua memoria, lo aveva nascosto, non lo aveva riconosciuto.

Oggi so che è un problema generale, vale per tutti i paesi e per tutte le persone. Tutti abbiamo una eredità buona e una eredità cattiva, di sangue, di guerra, la vera domanda è: cosa facciamo di questa terribile eredità del secolo scorso, di guerre, sterminio, olocausto? Una possibilità è non parlarne. Un’altra è nasconderla. Un’altra ancora è fare come Eric Marco, il protagonista reale del mio libro, inventarsi un passato più bello. Il suo era un passato bellissimo, di resistente al franchismo, di vittima dell’Olocausto, ma nascondeva la verità, lui non era niente di questo, ma aveva un grande successo.

Una possibilità, infine, è andare a vedere la verità. Non c’è memoria senza verità. La verità libera, la memoria senza verità schiavizza. Per il nostro presente è essenziale riguardare il passato. Conoscerlo in tutta la sua complessità, senza manipolazioni. Il potere politico vuole sempre manipolare il passato perché sa che da lì passa il controllo del presente e del futuro. Il passato può essere molto duro. Noi spagnoli abbiamo accettato una dittatura durata quarant’anni e non possiamo inventarci che eravamo tutti resistenti perché non è vero, e questo non è facile da accettare.

E poi capire: capire non vuol dire giustificare. Significa darsi strumenti per non ripetere gli stessi errori. Io ho voluto capire perché giovani della mia famiglia sono diventati fascisti. La letteratura in generale, il romanzo in particolare, sono essenziali. Sono un piacere, ma sono anche una forma insostituibile di conoscenza dell’essere umano. E quindi un modo di combattere contro il male.

Nel 2019 ti sei scagliato contro chi bloccava una nave nel Mediterraneo, all’epoca era il ministro dell’Interno italiano Matteo Salvini con la Open Arms. Oggi di nuovo si combattono lotte politiche attorno ai migranti. E intanto, ancora qualche giorno fa, ci sono stati altri morti durante la navigazione.

Io capisco molto bene che l’immigrazione non sia un problema facile, che bisogna fare una politica seria in Africa. Non è un problema dell’Italia e della Spagna, è un problema di tutta l’Europa. Ma non si può ammettere che ci siano persone in mare, donne, bambini, uomini e che i governi si chiedano cosa fare.

Questa non è una questione politica, è una questione che viene prima della politica, è morale, etica. Prima di tutto si salvano queste persone, poi si discute. Mi indigna pensare che ci sono persone condannate a morire in mare perché vogliono arrivare in Europa.

Ti scagli contro la sinistra «fighetta, cinica, gesticolatoria, telegenica e ornamentale, il peggior nemico della sinistra».

Questa sinistra non è davvero sinistra. C’è bisogno di una sinistra democratica, non c’è sinistra senza democrazia, lo abbiamo imparato nel secolo scorso, la sinistra senza democrazia è dittatura. Una sinistra seria lavora per l’equilibrio tra giustizia sociale, uguaglianza e libertà, per un progetto di società che sia pensata per i più deboli. I più forti hanno già il loro luogo, ma io non posso vivere bene in una società che è pensata solo per i più forti. Dobbiamo avere tutte le stesse possibilità, soprattutto quelle persone che non avrebbero lo stesso punto di partenza. Io non voglio una sinistra ornamentale, fatta di gesti, non porta a nulla, serve solo a distruggere la sinistra.

Io sono di sinistra per un motivo: tanti anni di socialdemocrazia, l’unica sinistra possibile, hanno prodotto le società più ricche e giuste della storia, nel nord dell’Europa. L’Europa è una storia di successo per la socialdemocrazia. E una sinistra così non è possibile fuori dall’Europa unita.

Vorrei concludere la nostra conversazione con una speranza di cambiamento. Affermi che il nostro non è il tempo della guerra, né della democrazia, ma è il tempo delle donne. Perché?

Perché la grande rivoluzione di questo tempo è la rivoluzione delle donne. Basta pensare che dall’inizio della storia la metà dell’umanità è stata al servizio dell’altra metà, perfino Aristotele ha scritto che le donne sono esseri inferiori, stiamo parlando del punto più alto della civiltà occidentale.

In Spagna fino a venti anni fa le donne uccise dagli uomini neppure si contavano. Avere gli stessi diritti tra uomini e donne è una rivoluzione totale che non spetta solo alle donne, senza gli uomini questa rivoluzione è impossibile. È una questione di dignità, di giustizia, ma non solo. È una questione politica, intellettuale.

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