La prima necessaria premessa è il racconto di Massimo Mantovani, ex capo dei servizi legali dell’Eni, oggi imputato di calunnia e intralcio alla giustizia. Secondo la procura della Repubblica di Milano avrebbe organizzato con l’avvocato Piero Amara il cosiddetto “falso complotto” per sabotare il processo per corruzione internazionale al numero uno dell’Eni, Claudio Descalzi.

Mantovani viene interrogato nell’ambito dell’inchiesta sui rapporti di presunta corruzione tra Ilva e procura di Taranto che ha visto l’arresto, circa sei mesi fa, dell’ex commissario del colosso siderurgico Enrico Laghi e dell’ex procuratore capo Carlo Maria Capristo.

Mantovani descrive i suoi rapporti con Laghi: «In tre occasioni (i nostri rapporti) hanno avuto sviluppi anche in un contesto privato. La prima volta (ho incontrato) il professor Laghi a casa della professoressa Severino, ex ministra della Giustizia, nella sua casa romana, eravamo circa una decina di coppie (ricordo bene la giornata perché vidi per la prima volta da vicino il presidente Giorgio Napolitano e l’onorevole Enrico Letta) e si fece una pizzata». 

Pizzata tra amici

La Prof. Avv. Grand Uff. Paola Severino, una delle avvocate più affermate e ricche d’Italia, organizza la pizzata tra amici nella sua villa romana da 10 milioni di euro e invita Laghi, il commissario dell’Ilva che l’ha ingaggiata o la sta per ingaggiare come legale, ma anche Mantovani, che è membro del comitato di sorveglianza dell’Ilva, nominato dal governo per controllare l’operato di Laghi. Così almeno dice la legge.

Ma la pizzata è un’istituzione parallela, appositamente creata per spostare i rapporti formali nell’ultramondo dell’amicizia che scioglie i ruoli nel solvente del rapporto personale: E rende tutti uguali, giudici e imputati, guardie e ladri, onesti e disonesti, presidenti della Repubblica e faccendieri.

Solo amici, a casa di amici, nel mondo fatato, e sempre innocente, delle relazioni. L’Italia è una repubblica fondata sulla pizzata, un sistema in cui i singoli membri della classe dirigente, prima della coscienza dei doveri, dei ruoli e dei limiti che competono loro, sentono di essere parte di un gruppo di amici, di una squadra, una confraternita.

I rapporti formali e anche di doverosa contrapposizione istituzionale si sfarinano in un senso dell’amicizia che lubrifica tutto, aiuta a risolvere i problemi. Rimanendo sottinteso che si tratta di una classe dirigente sempre meno capace di distinguere gli interessi personali da quelli generali.

Seconda necessaria premessa. Visto che ogni tanto ne arrestano qualcuno e il fatto che se ne parli li fa diventare permalosissimi, chiariamo che qui non si discute l’onestà personale di nessuno.

Al contrario, se le sorti personali dell’Italia fossero affidate alle qualità morali della sua classe dirigente le cose andrebbero meglio. Purtroppo invece comandano dei meccanismi impazziti che la classe dirigente subisce e asseconda, non per disonestà ma per qualcosa di peggio: conformismo, vigliaccheria, pavidità, paura di uscire dal giro: la convinzione che chi finge di non vedere campa cent’anni e pure bene.

Fatte le due necessarie premesse, possiamo arrivare al punto. Non l’auspicio che Paola Severino sia eletta presidente della Repubblica, ma proprio l’idea stessa che la cosa sia pensabile illumina la crisi in cui si è avvitata la politica italiana.

E non perché la 73enne avvocata napoletana non disponga di ogni qualità. Ma perché ormai la politica italiana si è talmente intrappolata nei suoi giochi di specchi e di parole da aver perso i contatti con la realtà.

Non se ne parla

Discutono dell’ipotesi di eleggere al Quirinale Silvio Berlusconi fingendo di non sapere che la cosa renderebbe definitiva l’appartenenza dell’Italia alla categoria dei paesi burletta e, soprattutto, minerebbe la stabilità del sistema: quale giurista potrebbe argomentare l’obbligo morale di obbedire a leggi promulgate dal profeta del Bunga Bunga?

Sono argomenti ovviamente discutibili. La cosa grave, appunto, è che nessuno ne parla.

Il caso Severino è forse ancora più grave. Si parla con naturalezza dell’ipotesi di mandare al Quirinale, e quindi a presiedere il Consiglio superiore della magistratura (Csm), una penalista impegnata in prima linea nei più importanti e controversi processi in corso in Italia.

Al momento stesso dell’elezione il sistema giudiziario italiano, già minato da una crisi gravissima, andrebbe definitivamente in tilt. Ma tutti fanno finta di non sapere, di non vedere, di non capire. La corsa al Quirinale ci restituisce l’immagine di una classe politica ormai in preda a deliri onirici, a potentissimi allucinogeni.

Vi sembra un’esagerazione? Vediamo allora chi sono i clienti di Paola Severino. Il primo è Claudio Descalzi, amministratore delegato dell’Eni. Severino l’ha aiutato a conquistare l’assoluzione nel processo per corruzione internazionale legato alla vicenda del giacimento petrolifero Opl 245 in Nigeria.

Adesso arriva il processo di appello, e i giudici di secondo grado sarebbero chiamati a decidere sulla colpevolezza di un manager la cui innocenza è stata autorevolmente proclamata dalla scienza giuridica di una donna diventata nel frattempo presidente della Repubblica e del Csm, l’organismo che decide sulla futura carriera dei giudici di Descalzi. Mettetevi nei loro panni.

Nel frattempo al Csm potrebbe arrivare il giudizio su Fabio De Pasquale, il magistrato milaese che ha sostenuto l’accusa contro Descalzi e che alla fine si è trovato indagato per “rifiuto di atti d’ufficio” e con un procedimento disciplinare aperto al Csm, sempre per la stessa ragione: è stato accusato di aver giocato sporco contro gli imputati facendo giochi di prestigio sull'apparizione e sparizione delle prove a loro carico o discarico.

A decidere se De Pasquale ha giocato sporco (o sporchissimo, visto che si ipotizzano reati) contro Descalzi sarebbe un organismo presieduto dall’avvocato di Descalzi (anzi, ovviamente dall’ex avvocato, ma non cambia molto). E in altra sede magistrati la cui carriera dipende da un organismo presieduto per i prossimi sette anni dall’avvocato di Descalzi.

Non si può dimenticare che il prossimo presidente della Repubblica dovrà affrontare la profonda crisi della magistratura, in gran parte dovuta, come insegna il caso Palamara, al potere delle correnti e del Csm non solo sulle carriere dei magistrati ma anche, come si è visto, sulle loro stesse inchieste e sentenze. 

L’ex ad di Autostrade

Passiamo al numero due nella lista dei clienti di Severino. Si tratta di Giovanni Castellucci, ex amministratore delegato di Autostrade per l’Italia (Aspi) e Atlantia. Deve rispondere alla giustizia dei 43 morti del ponte Morandi e lo difende Severino.

La quale peraltro, e qui la cosa si fa intricata, esattamente sul modello Descalzi, lo ha già difeso con successo ad Avellino dove Castellucci è stato assolto nel processo per 40 morti, i pellegrini di Padre Pio caduti con il loro pullman dal viadotto autostradale Acqualonga. Adesso è in corso un complicato processo di appello.

In primo grado Severino è riuscita a convincere i giudici che Castellucci, come capo dell’azienda, non poteva avere visibilità e responsabilità diretta sullo stato di manutenzione di ogni tratto di guardrail.

Spinta verso il basso la responsabilità, esattamente due anni fa la condanna più severa è stata per Paolo Berti, all’epoca dell’incidente (2013) direttore di tronco della zona in cui ricadeva il viadotto Acqualonga.

Solo che Berti, dopo la tragedia di Avellino, ha fatto una carriera folgorante in Aspi, arrivando al vertice (un gradino sotto Castellucci, praticamente) con uno stipendio triplicato in pochi mesi. Ed è per questo che si è trovato a rispondere davanti ai magistrati di Genova anche del crollo del ponte Morandi.

Così l’hanno intercettato e, pochi mesi dopo la disgrazia di Genova, hanno ascoltato i suoi sfoghi con moglie e colleghi vari il giorno della condanna a cinque anni presa ad Avellino.

Secondo i magistrati genovesi quelle intercettazioni fanno quantomeno ipotizzare che Berti al processo di Avellino abbia mentito per proteggere qualcuno più in alto di lui, perciò hanno preso l'incartamento e l’hanno spedito ai magistrati irpini.

Le intercettazioni di Berti potrebbero rendere problematica per Castellucci (e per i suoi avvocati) la conquista dell’assoluzione anche in appello. Ma, se nel frattempo l’avvocata di Castellucci diventasse presidente della Repubblica e del Csm, il vero problema l’avrebbero i giudici, chiamati a decidere sull’innocenza o colpevolezza di un imputato sulla cui innocenza si è spesa la capacità e la dottrina della nuova presidente del Csm, l’organismo che valuta anche le sentenze dei magistrati per dare luce verde alla loro carriera.

Maria Elena Boschi

Terza nella lista dei clienti eccellenti di Severino c’è una collega avvocata, Maria Elena Boschi, che insieme allo stato maggiore del renzismo storico (con Matteo Renzi stesso, Luca Lotti e Marco Carrai) è indagata per finanziamento illecito nell’inchiesta sui flussi di denaro della fondazione Open.

Uno dei pm di Firenze che indaga su Open è una vecchia conoscenza di Severino, si chiama Antonino Nastasi e in una vita precedente stava alla procura di Siena. E Severino ha tra i suoi clienti, da sempre, il Monte dei Paschi di Siena. E un precedente specifico con Nastasi.

Quando ancora era potente Giuseppe Mussari, oltre dieci anni fa, ci fu un’inchiesta su un’operazione riguardante il nascente (e mai nato) aeroporto senese di Ampugnano.

Nastasi a un certo punto notò e scrisse che Mussari, da vero dominus, prima ancora di sapere di essere indagato lui stesso, si preoccupò di coordinare la difesa degli indagati incaricando informalmente Severino di dare una mano ai colleghi senesi e convocandola a Siena per una riunione con gli avvocati “ufficiali” Fabio Pisillo e Enrico De Martino.

Nastasi scrisse allora che la convocazione di Severino (Mussari era allora uno degli uomini più potenti d’Italia) sembrava rispondere alla volontà di dotarsi di un’arma totale per regolare i conti con la procura di Siena.

Dieci anni dopo il magistrato si ritrova davanti l’avvocato Severino con un problema in più: se diventa presidente della Repubblica (e del Csm), ci sarà un giudice abbastanza coraggioso da dare ragione a Nastasi?

Insomma, Paola Severino non è un avvocato qualsiasi, è la penalista di riferimento di tutti quelli che contano in Italia. Per questo eleggerla presidente della Repubblica equivarrebbe a dare uno schiaffone a tutti i magistrati, i poliziotti, i carabinieri e i finanziari: il parlamento farebbe una scelta di campo e il Quirinale non sarebbe più un’istituzione sopra le parti. Possibile che nessuno ci pensi prima di far circolare la sua candidatura?

A titolo gratuito?

Guardiamo la lista. Sono clienti dello studio Severino: Eni, Enel, Telecom Italia, Intesa Sanpaolo, Monte dei Paschi, Rete Ferroviaria Italiana, Ilva (a titolo gratuito), Anas, Sole 24 Ore, Confindustria, Unipol e, tanto per non farci mancare niente, lo stato Città del Vaticano (a titolo gratuito).

Gli incarichi gratuiti sono quelli che destano maggiore curiosità, visto che non è volontariato per imputati poveri. A quale tipo di amicizia o solidarietà alludono gli incarichi gratuiti? E fin qui siamo alle persone giuridiche.

Veniamo alle persone fisiche. Il primo posto spetta a Filippo Patroni Griffi, presidente del Consiglio di stato. Quando il Csm fa una nomina scegliendo il magistrato Tizio anziché il magistrato Caio, Caio può fare ricorso al Tar e poi al Consiglio di stato, che può annullare la nomina di Tizio.

Sul punto è in corso da anni tra le due istituzioni una guerra di potere neppure tanto sotterranea. A chi spetta in ultima istanza la scelta dei capi delle procure? Se Severino venisse eletta al Quirinale, Patroni Griffi potrebbe trovarsi nella condizione di dover sfidare sul punto la sua penalista, quella che l’ha appena tirato fuori dai guai per un’inchiesta in cui era indagato in seguito all’esposto di un ex collega.

Il fatto è che Severino ha talmente tanti clienti da far intravedere un solo modo di essere presidente super partes, quello di essere non “avvocato del popolo”, come Giuseppe Conte, ma “penalista di tutti gli italiani”, presi uno per uno.

Ha difeso Romano Prodi sul caso Sme (con successo) e Cesare Geronzi (con meno fortuna) sul caso Cirio. Ha difeso Roberto Formigoni e Lorenzo Cesa, la magistrata Augusta Iannini (moglie di Bruno Vespa) e l’avvocato della Fininvest Giovanni Acampora.

È la penalista di riferimento di Francesco Gaetano Caltagirone, proprietario del Messaggero, quotidiano romano inesausto cantore della gloria di Severino. E ha lavorato per Antonello Montante, naturalmente prima che si beccasse in rapida successione l’arresto e una condanna a 14 anni, quando l’imprenditore siciliano spadroneggiava in Confindustria ed era omaggiato (o usato, questo è ancora da capire) dai più delicati gangli del potere statale, ai quali Severino è da sempre intimamente collegata.

La natura di “avvocato di tutti (quelli che contano)” fa di lei, da sempre, una figura detta “bipartisan”. Nella politica malata italiana è considerato sinonimo di “sopra le parti”, in realtà bipartisan spesso significa “servo di due padroni”.

Un nome per tutte le stagioni

Fatto sta che il nome di Severino da almeno vent’anni spunta fuori per qualsiasi evenienza. Nel 2002 è stata a un passo da diventare vicepresidente del Csm, ma in parlamento non saltarono fuori i voti, nonostante l’impegno in suo favore del centrosinistra (per voce di Luciano Violante) e del centrodestra, per voce del presidente della Camera Pierferdinando Casini, genero di Caltagirone. Come diceva Leo Longanesi, «la rivoluzione in Italia non si può fare perché ci conosciamo tutti».

La delusione è parzialmente ricompensata, l’anno seguente, dalla decisione del governo Berlusconi di nominare suo marito Paolo Di Benedetto commissario Consob. Da lì la cavalcata non si è mai fermata: clienti, relazioni, prestigio, candidature per lei, poltrone nei più prestigiosi cda per lui.

Severino, che pure è andata in cattedra a 47 anni suonati e nessuno ha mai notato come ragazza prodigio delle materie giuridiche, si afferma come fine giurista e prolifica editorialista.

Diventa preside della facoltà di Giurisprudenza alla Luiss (l’università della Confindustria), ma anche docente per la formazione dei Carabinieri e poi a capo della Scuola di formazione dei magistrati.

La sua reputazione di donna “super partes” è così forte da generare una forma di ipnosi che cancella ogni confine, o differenza, tra pubblico e privato. Nel 2011 diventa ministro della Giustizia nel governo Monti e si porta dalla Confindustria, come capo della segreteria, Marcella Panucci.

La quale pochi mesi dopo torna in Confindustria, sponsorizzata dal solito Montante come direttore generale. Fatta fuori dal nuovo presidente di viale dell’Astronomia Carlo Bonomi, oggi Panucci è capo di gabinetto di Renato Brunetta al ministero della Funzione pubblica.

Nel frattempo il nome di Severino viene fatto come presidente della Repubblica (sia nel 2013 che ne 2015) ma anche come presidente dell’Eni (nel 2014, poi la spunta la sua amica Emma Marcegaglia), come presidente di Tim (nel 2018) ma anche come commissario Ue (nel 2019).

Fino a che nel settembre scorso Brunetta e Panucci le affidano la direzione della Sna, la scuola dove si formano i dirigenti pubblici. E tutti applaudono, perché giustamente sembra che per formare un dirigente pubblico la cosa più sana è affidarlo alle cure di un grande penalista, l’unica figura in grado di insegnare, forse, come fare il manager statale senza cadere in tentazione o senza finire in galera, magari per sbaglio.

Il confine fra pubblico e privato

C’è un episodio chiave per capire la perdita del senso dei confini tra pubblico e privato e tra ruoli e persone, nonché la portata simbolica della figura di Paola Severino.

Nel 2014 il presidente della Scuola superiore della magistratura Valerio Onida, non uno qualsiasi, ex presidente della Corte costituzionale, pensò bene di affrontare un problema diffuso, la difficoltà dei magistrati di capire e perseguire correttamente il reato di usura quando commesso dalle banche.

E organizzò un corso di formazione per magistrati affidato all’Associazione bancaria italiana (Abi): le banche insegnavano ai magistrati come punire i reati delle banche. Tra i relatori fu chiamata Severino, che proprio in quel periodo difendeva Intesa Sanpaolo da accuse sulla gestione dei derivati, una fattispecie al confine tra la truffa e l’usura.

Un avvocato difensore che guadagna (come nel caso Severino) almeno 250mila euro al mese è dunque considerato l’unico in grado di insegnare il mestiere al giudice che deve decidere sulla colpevolezza del suo cliente per uno stipendio che arriva se va bene a 6-7 mila euro. Questa è la perversione incarnata dalla figura dell’avvocato Severino.

Ecco, metterla al Quirinale significherebbe comunicare agli italiani che è finita l’era della separazione dei poteri. Che è che è giunto il momento del Potere e basta, unico e inseparabile, che trova al suo interno il giusto equilibrio tra le varie istanze rappresentate da un gruppo di amici, naturalmente perbene. Magari ufficializzando la pizzata al Quirinale come momento di sintesi istituzionale. 

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