Quali siano i principali limiti della blockchain è noto da tempo. Prima di tutto, il consumo energetico: il registro digitale che regola il funzionamento dei bitcoin, per esempio, richiede la stessa quantità di elettricità necessaria ad alimentare una nazione come l’Egitto (circa 140 terawattora).

Il secondo grande limite ne impedisce invece l’adozione su larga scala: sempre la blockchain utilizzata per i bitcoin può gestire al massimo sette transazioni al secondo (nello stesso lasso di tempo, un circuito come Visa è in grado di gestirne decine di migliaia). Questa lentezza causa la congestione del sistema ogni volta che c’è un picco nello scambio di bitcoin, facendo salire a livelli insostenibili le commissioni pagate ai miner (ovvero coloro i quali si occupano di validare le transazioni).

Questi due sono senz’altro i limiti più noti e complessi che, nei suoi oltre dieci anni di vita, la blockchain ha mostrato di possedere. Ma se i difetti del registro inventato dalla persona nota con lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto venissero corretti (come sembra sia sul punto di fare Ethereum, che ha da poco annunciato il passaggio a un nuovo sistema estremamente più rapido e sostenibile) potremmo finalmente veder realizzate le potenzialità trasformative della blockchain?

Scetticismi 

Tra i tanti a essere estremamente scettici c’è Bruce Schneier, editorialista, docente e membro del consiglio d’amministrazione della Electronic Frontier Foundation. In un recente articolo sul suo blog, Schneier scrive: «Non riesco a trovare una sola applicazione della blockchain il cui valore abbia qualcosa a che fare con questa tecnologia e che non sarebbe più sicura, affidabile e semplicemente migliore rimuovendo proprio l’elemento blockchain».

Schneier conclude la sua invettiva «postulando» (è la parola da lui usata) che nessuno ha mai individuato nella blockchain la soluzione a un problema esistente, ma sia sempre stata applicata in contesti che potevano essere risolti più semplicemente attraverso altri strumenti.

Questo postulato vale in effetti anche per la più classica applicazione della blockchain. Nella definizione del loro stesso inventore, i bitcoin avrebbero infatti dovuto essere un “electronic cash system”: vero e proprio denaro elettronico usato per le compravendite quotidiane e in grado di eliminare intermediari che (soprattutto negli anni della Grande Recessione, quando i bitcoin sono stati concepiti) godevano di scarsa fiducia: istituzioni finanziarie, banche, governi, ecc.

A causa dei limiti già segnalati e del valore volatile (che rende impossibile utilizzare i bitcoin come moneta), i bitcoin si sono dovuti reinventare come “oro digitale”: un bene rifugio in cui investire nella speranza che il valore continui a salire.

Strumenti alternativi

This Tuesday, Oct. 8, 2019, photo shows the Apple Pay app on an iPhone in New York. Experts warn that digital wallet services like Apple Cash and Venmo are prime targets for scammers. (AP Photo/Jenny Kane)

Nel frattempo, con buona pace di Satoshi, ovunque nel mondo si sono diffusi tantissimi strumenti elettronici che permettono di inviare denaro istantaneamente a chiunque senza alcun bisogno di impiegare la blockchain: Satispay, Venmo e Stripe in occidente, Wechat in Cina, M-Pesa in Africa e tantissimi altri ancora (per non parlare dell’avvento delle monete digitali di stato, a partire da quella cinese).

Ovviamente, nessuno di questi strumenti taglia fuori le tradizionali istituzioni finanziarie (come auspicato dai fautori della blockchain), ma ciò sembra interessare solo una ristrettissima cerchia di cripto-entusiasti, mentre la massa degli utenti appare ben disposta a sacrificare la disintermediazione in cambio di una migliore esperienza d’uso.

Lo dimostra, proprio nell’ambito delle criptovalute, il successo delle grandi piattaforme di exchange (come Coinbase, Binance, Gemini e altre ancora), che consentono non solo di acquistare monete digitali, ma si comportano come vere e proprie banche, conservando i nostri beni sui loro server e liberandoci così dalla necessità di scaricare sul computer un portafoglio elettronico direttamente collegato alla blockchain (con il rischio di perdere irrimediabilmente i nostri averi qualora ci dimenticassimo le credenziali d'accesso o i codici di sicurezza).

Gli Nft

Un discorso molto simile vale per gli Nft, il certificato elettronico d’autenticità basato su blockchain impiegato soprattutto nel campo delle opere d’arte e degli oggetti collezionabili digitali. Nonostante anche in questo settore la promessa iniziale fosse di disintermediare il mondo dell’arte – eliminando quindi gallerie, broker, case d’aste e altre istituzioni – le cose sono in realtà andate molto diversamente.

Per esempio, la quasi totalità degli scambi di Nft avviene tramite piattaforme specializzate, tra cui la più nota è sicuramente OpenSea, sulla quale chiunque può mettere in vendita le proprie opere.

Non solo si tratta di una piattaforma centralizzata, ma – come dimostrato dal programmatore e fondatore di Signal, Moxie Marlinspike – addirittura di un sistema che, per semplificare il processo, non si collega nemmeno alla blockchain quando deve inviare gli Nft agli smartphone degli utenti (affidandosi invece a delle interfacce gestite da terze parti). Se non bastasse, oggi OpenSea consente di comprare Nft direttamente con carta di credito, evitando quindi di passare dalle scomode criptovalute.

«A pensarci bene», scrive Marlinspike sul suo sito, «viene da chiedersi se OpenSea non sarebbe migliore se tutte le parti legate alla blockchain scomparissero. Sarebbe più veloce, più economico per tutti e più semplice da utilizzare. (...) OpenSea potrebbe addirittura pubblicare un registro delle transazioni nel caso in cui le persone volessero verificare le offerte, le transazioni ecc.».

Se nel tentativo di rendere le piattaforme più fruibili, i gestori di queste arrivano ad aggirare l’utilizzo delle criptovalute e della blockchain, qual è allora la loro ragion d’essere?

«La complessità della blockchain è giustificata soltanto dall’idea della decentralizzazione», ha spiegato all’Atlantic la docente Hilary J. Allen, che a questo tema ha dedicato un approfondito paper.

«Era questo il potere intellettuale della proposta iniziale di Satoshi Nakamoto: l’idea di poter trasferire valore senza affidarsi a un intermediario. Ma tutto ciò che da allora è stato costruito sulla blockchain sembra basarsi sull’idea che la decentralizzazione sia inutilmente dispendiosa, lenta e complicata».

E così, si arriva al paradosso finale: una tecnologia che giustificava la sua complessità con la possibilità di fare a meno degli intermediari ha finito per mantenere la complessità ripescando però gli intermediari.

Fiducia

C’è però un altro valore fondante della blockchain che, con il tempo, si è dimostrato altamente problematico: quello della fiducia. O meglio, della capacità della blockchain di eliminare il bisogno di fidarsi di persone, enti o istituzioni terze.

Per esempio, nel caso della DeFi – la “finanza decentralizzata” (e deregolamentata) a elevatissimo tasso speculativo – non è necessario fidarsi delle entità a cui prestiamo soldi o con cui facciamo scommesse, perché tutte le operazioni sono automaticamente gestite dagli smart contracts: contratti automatici basati su blockchain che entrano in esecuzione non appena gli accordi sottoscritti tra le parti sono soddisfatti.

Promessa disattesa

Purtroppo le cose sono spesso andate in maniera molto diversa: tra bug nel codice degli smart contracts che hanno permesso ad hacker di portarsi via l’intero bottino, interi progetti speculativi (come TerraLuna) che crollano come un castello di carte a causa delle fondamenta economiche a dir poco fragili e personaggi autorevoli che intervengono per invalidare operazioni sgradite (com’è avvenuto con il fondatore di Ethereum, Vitalik Buterin), la sensazione è che la fiducia non sia stata eliminata, ma soltanto trasferita ad altri. 

Chiunque operi nel settore della blockchain dovrà infatti avere fiducia nel fatto che il codice sia stato scritto correttamente, che il progetto sia stato concepito in maniera adeguata e che nessuno abbia il potere o l’influenza per intervenire arbitrariamente.

«Quando questa fiducia si rivela malriposta, non c’è nessun ricorso”, si legge su Wired USA. “Se il vostro exchange viene hackerato, perdete tutti i soldi. Se c’è un bug nel codice dello smart contract, perdete tutti i soldi. Per molti versi, fidarsi della tecnologia è più difficile che fidarsi delle persone. Preferireste affidarvi a un sistema legale gestito da esseri umani o ai dettagli di qualche codice informatico che non avete le competenze per valutare?».

Ma se le sue caratteristiche la rendono a volte più un impaccio che una soluzione, se la decentralizzazione sta rapidamente scomparendo e se anche la questione della fiducia è molto più ambigua di quanto promesso, allora qual è davvero l’utilità della blockchain?

Dalla risposta a questa domanda dipendono le fortune di una tecnologia che, da quasi quindici anni, promette di dare vita a una rivoluzione egualitaria. Nonostante finora abbia soprattutto arricchito gli speculatori più spregiudicati.

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