Che cosa è stato il G8 di Genova nel 2001? Tra cinquant’anni – ma un po’ anche già adesso – si potrà dire che è stato un piccolo evento storico, che maturò e precedette il grande evento che aprì il terzo millennio. Solo 50 giorni separano la “sospensione della democrazia in Italia” dalla Pearl Harbor che diede origine alla peggiore guerra dell’umanità; solo 50 giorni separano Carlo Giuliani dalle Twin Towers; Bolzaneto da Guantanamo, la scuola Diaz da Ground Zero. Il G8 fu un aperitivo della storia. Inconsapevole? Innocente? Di certo bisognava fare attenzione al cielo, perché era da lì che veniva il pericolo.

Missili

Una settimana prima del G8, quando Genova fu totalmente chiusa come un ghetto, di nascosto i servizi segreti americani e italiani installarono batterie di missili Patriot in grado di contrastare un attacco missilistico programmato per uccidere il presidente americano George W. Bush, il principale degli otto Grandi che si sarebbero riuniti al palazzo ducale della Superba per chiacchierare delle sorti del mondo. Bush sarebbe arrivato con l’Air Force One dopo ver fatto scalo a Londra; l’attacco poteva avvenire in quella data, oppure durante la sua permanenza. Lo spazio aereo venne chiuso, le batterie (missili modello Spada, costruiti da Finmeccanica) vennero posizionati all’aeroporto militare di Sestri Ponente.

Il G8 per chi non l'ha mai visto: le mappe interattive

C’era – si saprà dopo – una strana voce che parlava di attacchi all’America dal cielo, c’era un tam tam di notizie che proveniva dal medio oriente che parlava di aerei commerciali da usare come bombe, un’idea talmente ardita che non era venuta in mente nemmeno al peggior sceneggiatore di Hollywood. E che invece, giustamente, venne tenuta in seria considerazione. Se un aereo di linea avesse violato lo spazio aereo su Genova, sarebbe stato abbattuto dagli Spada che potevano colpire a nove miglia di lunghezza e millecinquecento di altezza.

(L’Italia, in fatto di armi e di politica estera è molto diversa da quello che si crede).

Servizi speciali

Era lugubre, Genova alla vigilia. Silvio Berlusconi aveva chiesto di togliere i panni stesi alle finestre perché non voleva fare brutta figura. Il sindaco socialista Giuseppe Pericu aveva dunque fatto un’ordinanza a proposito. Era senza panni sventolanti, Genova, e quindi era diventata triste. Tutti sapevano che “qualcosa di brutto” sarebbe successo; molti si preparavano alacremente perché succedesse.

Mi ricordo il centro storico trasformato in una “zona rossa” inespugnabile, con grate, reti, strutture metalliche, torrette, miliardi di telecamere che arrivavano ai secondi piani delle case. Gli appalti, in procedura d’urgenza, erano stati dati dal governo a una ventina di aziende meccaniche ed elettroniche della Liguria e del basso Piemonte, e immagino sia stato il miglior affare della loro vita. Le fogne erano state dotate di sensori collegati con i checkpoint che avrebbero indicato la presenza di ordigni nel sottosuolo. Ma suonavano in continuazione perché venivano attivati dalle grosse pantegane che ci passavano davanti. E così, semplicemente, spensero tutto il sistema.

Tutto il “castello” era circondato da enormi massi di cemento, che si chiamavano, mi sembra, Massachusetts, quelli che si usano nelle autostrade americane, quando fanno le deviazioni di corsia. Potevano entrare solo i residenti mostrando i documenti; oppure permessi speciali. Erano sospesi matrimoni e funerali, i negozi erano chiusi; tutti erano stati caldamente invitati ad andare al mare, o comunque il più lontano possibile.

Un uomo che si aggirava con fare sospetto, vestito da arabo e acconciato con un turbante e una lunga barba, come il folkloristico sceicco Osama bin Laden di cui allora si parlava molto, venne arrestato con clamore e apprensione; per sua fortuna, riuscì a dimostrare di essere solo un buontempone. Tutti i corpi di polizia erano stati convocati a Genova; c’era la cavalleria, che – tra nitriti, piccoli dressage e strigliature dei palafrenieri, spandeva un delizioso odore di letame da piazza De Ferrari giù per tutta via XX Settembre. Il battaglione Saturnia dei carabinieri che aveva addirittura portato i suoi cingolati, ossia dei piccoli carri armati, faceva le prove con i capitani sulla torretta con la faccia truce.

(Quando entrarono in azione, non sapevano dove andare e si impiantarono sull’asfalto bollente).

La Guardia di finanza, la forestale, l’antiterrorismo, i reparti speciali dei carabinieri, i reparti speciali antisommossa, i reparti speciali dell’esercito, della marina e dell’aviazione: c’erano tutti. A tutti vennero corrisposti premi, speciali indennità; promozioni, divise nuove fiammanti, ginocchiere e manganelli tonfa, fibbie e controfibbie, pancere e galosce, occhiali alla moda e foulard. A loro onore, i vigili del fuoco si rifiutarono di far parte della grande abbuffata e il loro comandante, il generale dei carabinieri in pensione Nicolò Bozzo, fu l’unico a denunciare l’andazzo, e gli osceni cori fascisti che di notte si alzavano dalla Fiera di Genova, dove le truppe d’assalto erano state acquartierate. Fu una bella spesa anche quella, su cui nessun magistrato andò mai a guardare: keynesismo di guerra, procedure d’urgenza. C’erano un sacco di consulenti nel governo, all’epoca, per Genova 2001. Mediatori, mestatori, ufficiali di collegamento, spie, servizi segreti, sedicenti servizi segreti.

Il disastro era apparecchiato.

Chi eravamo

Ma chi eravamo, allora? Com’era il mondo? Cominciamo da noi, il paese ospite del grande evento. La grande notizia italiana, nel marzo del 2001, era stata la prorompente vittoria elettorale del cavaliere Silvio Berlusconi, che tornava dopo sei anni di accidentati governi di centrosinistra (Prodi, D’Alema, Amato), sempre fragili nelle loro maggioranze e mangiucchiati da un alleato molto presenzialista, Rifondazione comunista. Ora era arrivato il redde rationem elettorale: Francesco Rutelli, a capo di un’eterogenea coalizione che andava da Clemente Mastella a Fausto Bertinotti, contro Silvio Berlusconi alleato di Gianfranco Fini e Umberto Bossi. Vittoria netta dei secondi, che si erano presi tutto il nord e avevano fatto cappotto (61 seggi a zero) in una Sicilia in cui si era svolta la guerra tra stato e Cosa Nostra, e ancora non si sapeva chi l’avesse vinta. Il governo Berlusconi era solidissmo (Fini vicepresidente, Claudio Scajola all’Interno, Giulio Tremonti all’Economia – nessuno dei tre farà una bella fine), ma godeva all’estero di una cattiva fama, dovuta a Berlusconi medesimo, alle origini della sua ricchezza, ad oscuri e mai chiariti legami con la mafia e alla sua manifesta incapacità di gestire la cosa pubblica. Il settimanale The Economist (la Bibbia della finanza mondiale) lo aveva bollato come “unfit”, inadatto, e aveva sollevato nei suoi confronti problemi di ordine “morale”; lo stesso Berlusconi – che la stampa internazionale chiamava “leader di una repubblica delle banane” – era stato messo in amministrazione controllata da Gianni Agnelli, allora potentissimo proprietario della Fiat, che gli aveva imposto (e anche pagato di persona) un suo uomo, l’ambasciatore Renato Ruggiero, come ministro degli Esteri.

Il movimento

Il G8 di Genova non l’aveva scelto Berlusconi, l’aveva ereditato dal governo Amato, che – abbastanza incautamente – aveva scelto una città la cui conformazione urbana (vicoli e caruggi) rendeva molto difficile grantire ordine e sicurezza.

(Nella storia c’era poi stata anche la rivolta dei genovesi, luglio 1960, contro un congresso del Msi, con i portuali in testa, che misero in fuga carabinieri e polizia).

Erano tempi in cui i vertici dei grandi del mondo erano diventati appuntamento fisico per tutte le forze di opposizione, che contestavano il liberismo economico eretto a unico sistema, la sua anima militarista, la globalizzazione dell’economia senza princìpi (si chiamarono No global, dal titolo di un libro dell’attivista canadese Naomi Klein), il funzionamento della Banca mondiale e del Fondo monetario: e, per la prima volta, accusavano gli uomini di essere, per smània di profitto, nemici della natura e dei suoi diritti, di favorire l’inquinamento, di manomettere i cicli agricoli, di provocare un irresponsabile riscaldamento del pianeta, di distruggere la salute dei cittadini, di sfruttare il terzo mondo, di schiavizzare i migranti. Questo movimento, composito, diverso da paese a paese, era cresciuto moltissimo, ma non aveva trovato rappresentazione in partiti classici, né nei sindacati dei lavoratori.

Ma la sua forza si percepiva, era qualcosa che cominciava a sentirsi, soprattutto tra i giovani. E i Grandi della terra non amavano incontrarli.

La battaglia di Genova

Risale a quel periodo anche il successo mediatico del “Black bloc”, un misterioso movimento anarchico internazionale, organizzato come una setta segreta, che si dedicava, proprio durante le manifestazioni di dissenso sociale, alla devastazione urbana. Nessuno ha mai saputo – ancora oggi – se ci fosse Qualcuno o Qualcosa dietro questo movimento, forte di diverse migliaia di persone, in Europa e in America, ma certo fu una manna per il governo italiano. Le misure di sicurezza che vennero approntate – mai viste prima in Europa, basti pensare che vennero schierati sul campo 25mila uomini per difendere l’ordine pubblico – furono causate dall’esistenza di questo pericolo, che si voleva fortissimo, in pratica capace di provocare un’insurrezione.

Come si verrà a sapere dopo, i Black bloc ispirarono 250 rapporti dei nostri servizi segreti, che informavano sul loro numero, sulla loro organizzazione, sul loro armamento, sulle loro tattiche. E, dunque, per fronteggiarli vennero prese misure inaudite in una democrazia: svuotamento preventivo delle carceri in previsione di migliaia di arresti (e approvvigionamento di 200 body bags per i cadaveri: non si sa mai); sospensione del trattato di Schengen; divieto temporaneo di immigrazione, sospensione di diritti costituzionali, come il diritto alla difesa degli arrestati, approntamento di veri e propri campi di concentramento e di tribunali speciali, permesso alle forze di polizia di usare armi da fuoco e ordigni fino ad allora vietati in manifestazioni pubbliche. La “battaglia di Genova”, tra stato e Black bloc, ebbe però un andamento surreale.

Non solo i Black bloc riuscirono ad arrivare in città in alcune migliaia, ma ebbero vita facilissima in piazza dove eseguirono, come da copione, il loro programma di devastazione di automobili, vetrine di negozi e sportelli bancomat (oggetti simboli del consumismo). La polizia, bardata come se fosse ad una recita teatrale, non li affrontò mai, anzi il più delle volte fuggì davanti a ragazzini smilzi vestiti di nero, armati di pietre, bastoni e qualche bottiglia molotov; pochissimi furono i fermati e gli arrestati e la stragrande maggioranza di loro poté ripartire da Genova senza problemi.

Il più grande schieramento di polizia mai messo in campo in Italia produsse, invece, l’infamia della mattanza di manifestanti pacifici e a mani alzate; l’uccisione da parte di un carabiniere ventenne di Carlo Giuliani, un ragazzo suo coetaneo; l’aggressione (”macelleria messicana”, definizione di Massimo D’Alema) della scuola Diaz; l’ecatombe sul lungomare; le torture nella caserma di Bolzaneto. L’Italia ottenne esattamente l’opposto di quello che Berlusconi si prefiggeva, ossia di “fare bella figura” davanti al mondo. Si dimostrò un paese dalla democrazia molto fragile, il cui governo, per tre giorni, sotto gli occhi della stampa di tutto il pianeta (2.500 erano i giornalisti accreditati, centinaia le documentazioni fotografiche e i video) venne lasciato in mano a forze oscure, il più delle volte o incompetenti o chiaramente eversive.

Il governo precedente

Di chi è la colpa dei massacri? C’era una strategia? Una responsabilità politica? Ancora oggi, dopo vent’anni di inchieste e di processi, la questione non è risolta. Innanzitutto, occorre dire che buona parte delle scelte di fondo su come affrontare l’evento di Genova 2001 appartenevano al governo precedente, di centrosinistra, guidato da Giuliano Amato. Molte delle scelte autoritarie e fuori dalla democrazia furono già messe in atto a Napoli, pochi mesi prima, in occasione delle proteste al vertice Ocse sul digital divide. Allora arrivarono, non previsti, 30mila manifestanti, che furono picchiati, arrestati e privati dell’habeas corpus, senza che nessuno protestasse più di tanto.

Il governo Berlusconi non gestì direttamente Genova, anzi cercò di non avere sangue sulle proprie mani. Il ministro dell’Interno, Claudio Scajola, non esercitò il suo ruolo (nei giorni della battaglia fu vistosamente irreperibile), delegando tutta la gestione al capo della polizia, Gianni De Gennaro. Allora era uno degli uomini più popolari d’Italia, molto stimato a sinistra per aver avuto i maggiori successi nella lotta alla mafia, collaborando con il presidente dell’antimafia Luciano Violante.

(De Gennaro era invece visto con sospetto da Berlusconi perché le sue inchieste avevano coinvolto il suo ambiente politico e la sua stessa persona).

De Gennaro schierò sul campo tutti i “suoi” uomini, dirigenti dell’antiterrorismo e protagonisti della lotta a Cosa Nostra. I risultati furono disastrosi sotto tutti gli aspetti, compreso il fatto che molti di loro vennero condannati; ma, stranamente, nessuno chiese le dimissioni di De Gennaro, né lui peraltro le offrì. Fu l’unico a guadagnarci, dai fatti di Genova: prima divenne direttore dei servizi segreti e poi capo di Finmeccanica (oggi Leonardo). La sua biografia, un giorno, sarà tra le più interessanti per capire come funziona veramente il potere in Italia; ma forse nemmeno quella riuscirà a spiegare il motivo per cui, nella nostra storia, in momenti cruciali, si alzi così tanto il livello della ferocia statuale.

Massacrati

Dal punto di vista politico, le reazioni alle violenze della polizia a Genova furono in realtà molto scarse, anche perché l’11 settembre si incaricò presto di cambiare tutto lo scenario. Ma le conseguenze culturali e sociali furono – e sono ancora oggi – enormi. A Genova parteciparono più di 300mila persone, in uno dei più vissuti eventi di democrazia. Erano persone, giovani ma non solo, che volevano manifestare il loro dissenso dal potere, ma anche affermare le proprie ragioni che i partiti politici non rappresentavano. Molti gruppi erano di ispirazione cristiana, molti si rifacevano all’ecologia, tutti avevano a cuore i principi di giustizia sociale e una certa distanza, o avversione, per lo stile di vita proposto e imposto da quello che allora si chiamava il “liberismo economico”.

Vegetariani e No Tav, frugali e non consumisti, difensori di beni comuni come l’acqua, avversari dello sfruttamento minorile, della manipolazione genetica degli alimenti, fautori dell’eguaglianza sessuale, di pigmento della pelle, di religione; pacifisti, ma volenterosi di fare servizio pubblico; per nulla convinti che ci fosse nel mondo uno scontro di civiltà in cui quella dei maschi bianchi fosse quella superiore. Era, ripensandoci, una marea ed è ancora adesso incomprensibile il perché non fossero riusciti a sfondare nel mondo ufficiale della politica. Ebbene, quei 300mila vennero massacrati. Il messaggio era chiaro: non provateci più; possiamo fare di voi quello che vogliamo.

“Grandi”

E infatti quella marea si ritirò come una risacca di un mare frustato da una tempesta. Dicono che fosse una generazione, forse è esagerato; ma forse neanche tanto. Erano tanti figli e fratelli minori di Alexander Langer e zii o genitori di Greta Thunberg. Dicevano “un altro mondo è possibile”; se i grandi della terra li avessero ascoltati, adesso staremmo meglio.

Gli otto grandi di allora, che vennero protetti da quella marea di ragazzi, si chiamavano: George W. Bush, presidente degli Stati Uniti, repubblicano, appena eletto; Gerhard Schröder, cancelliere tedesco, socialdemocratico; Jacques Chirac, presidente francese, gollista; Tony Blair, primo ministro inglese, fondatore del “new labour”; Silvio Berlusconi, balzano presidente del consiglio italiano; il dimenticato Jacques Chrétien, presidente del Canada; l’eterno Vladimir Putin capo di tutte le Russie, il premier giapponese Jun’ichirō Koizumi. In quei tre giorni a Genova passarono il tempo a chiacchierare e a non dire niente, nessuno chiese mai che cosa stesse succedendo fuori, chi erano, cosa volessero. La sera del 21 luglio Berlusconi fece qualche passo davanti al palazzo ducale, a stringere mani. Il più svelto fu Bruno Vespa che gli mormorò: «presidente, c’è il morto». Non gliel’avevano neanche detto.

Tutti ripartirono facendo grandi elogi alla polizia italiana che aveva garantito la loro sicurezza.

Oggi, tranne Chirac morto nel 2019, sono tutti dei sopravvissuti alla storia, anche Putin che fa finta di no; Genova 2001 non è stato l’evento più importante della loro vita; e nessuno di loro, onestamente, sarà ricordato come un grande della terra.

Quello che è successo dopo

Sùbito dopo quell’inutile vertice gli eventi mondiali precipitarono, perché davvero il pericolo veniva dal cielo. Osama bin Laden e Mohamed Atta, Saddam Hussein e Oriana Fallaci, la peggiore delle guerre americane, la peggiore delle crisi del capitalismo, l’Isis che tagliava le teste in diretta televisiva, la strepitosa avanzata del mondo digitale e dei suoi magnati (quei sette o otto lì, davvero, oggi sono i grandi del mondo), la fine del motore a scoppio e l’arrivo dell’auto elettrica, l’ecatombe di migranti nel Mediterraneo, la Cina sempre più vicina e infine un piccolo coronavirus. Tutto era imprevedibile, e imprevisto, nessuna profezia si è veramente avverata; eppure, a distanza di vent’anni, perlomeno in Italia, si continua a ricordare Genova come un momento di verità; quelli che si presero le botte allora oggi sono persone adulte che si avviano a diventare anziane, e lo hanno raccontato ai loro figli e questi lo faranno con i loro nipoti. Questo tessuto, nonostante sia stato massacrato, è rimasto, debole come un’erba schiacciata, ma fa parte del racconto civile di una nazione, come la poesia di Paolo Conte. Il “potere” invece a Genova perse, per la sua intrinseca stupidità, ma anche questa rimane; anzi, aumenta.

Carlo Giuliani è l’unico che non può raccontare. Identificato nel marmo, in piazza Alimonda, come “ragazzo”. Il cielo di Genova sopra di lui.

Beati tutti gli altri, che sono tornati a casa. A proposito: faceva un caldo infernale.

 

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