Arriva nel primo pomeriggio, come un’ondata di riflusso di calore, mio nipote. Me ne accorgo dalla voce che mi dice: «no’», mi chiede se sto dormendo, ma io non gli rispondo, «nonno», non subito almeno, perché non mi rendo conto da dove arriva: eeh? perché mi chiama se non si fa vedere? mi dice che mi trova meglio, mi alza il lenzuolo, mi scopre, mi rassicura che la gamba sinistra si sta sgonfiando, lo vedo che è meno gonfia? (ma sono storti i pantaloncini che porta?), mi tocca il ginocchio, e mi dice: «muovi un secondo, dai tira su», e io piego la gamba, poi dice: «muovi un po’ anche qui, dai, appena, prova un po’», ma io non capisco dove, mi dice muovi ma non indica il punto, non tocca più.

Mio nipote viene sempre, adesso, tutti i giorni; mentre per mesi, quando stavo a casa, non si faceva vedere, quasi mai, neanche al telefono, non mi cercava, alle volte veniva, si affacciava e se ne andava, come un postino. Questi giorni che sto a letto si presenta dopo pranzo, forse sa che se capita verso quest’ora, mi trova sveglio, un poco almeno, mi porta il giornale e, se mi va, se non sono stonato dal caldo, me lo legge, come fossi cieco,

(qual è il contrario di cieco, nove lettere)

un tassista ha rinvenuto un beauty-case, una borsetta, sul sedile posteriore della sua Lancia, ha pensato fosse una bomba, e ha fatto chiamare gli artificieri, che l’hanno disinnescata e ci hanno trovato dentro un mucchio di foto strappate. A Genova, legge, Berlusconi ha fatto mettere limoni finti attaccati alle piante. Crede che non ci sento. Tiene il tono di voce alto, come se fossi diventato oltre che cieco, sordo, sordo o occluso nei pensieri, un uomo per modo di dire, che non s’alza dal letto, non sente e non vede, e lui si sente che si deve conquistare la mia attenzione a forza di acuti, ma manco mi va di farglielo notare; se proprio mi rimbomba la testa, faccio finta che non lo sento, è vero, va bene così, che mi estranio, e lui mi dice: «Ti lascio dormire, ok?».

La rabbia è che – questo fastidio alle gambe come se si addormentassero quando le hai tenute male – ma come deve fare uno a metterle bene?

Tutti i giorni, mi pare. Anche se il conto dei giorni non viene facile da tenerlo, d’estate si assomigliano, si sono sempre assomigliate le giornate. Lui viene tutti i giorni adesso, mentre prima quando non veniva quasi mai, lo so che non era per pigrizia, o non solo per quello, e il fatto era che, anche se a me non me lo diceva e non lo ammetteva neanche con sé stesso, lui sì ce l’aveva sì: ce l’aveva con me, perché sembrava che non avessi voluto darmi da fare, compiere quegli sforzi semplici minimi, il necessario, almeno quello, per stare, restare vicino a Flora quando lei era in ospedale, ce l’aveva con me e anche probabilmente con sé stesso, perché lui pure non mi aveva detto niente, non aveva insistito perché uscissi di casa, c’andassi là a...

«Il rispetto», dico.

«Che c’è, no’»?

«No, niente niente. Dei pensieri», dico, «delle cose»,

e io l’avevo salutata sulla porta di casa, e poi non ero andato a trovarla neanche una volta, l’avevo salutata così, con un cenno, che a me capita che tremo e basta, in questi casi, ed ero rimasto lì a tremare. I giorni dopo avevo fissato la porta di casa, come un gorgo, che l’avevo salutata così sulla porta di casa, senza dire tanto, senza manco parlare in maniera più evoluta, non evoluta, come si dice, più insomma, facendo dei discorsi chiari, ma per me, non mi andava di fare tragedie, davvero che ne sapevo che era l’ultima volta, anche se lo temevo che lo fosse, ma che ne sapevo che era l’ultima volta, l’ultima, che la vedevo...

(eh?)

«Hai detto qualcosa?», chiede.

«L’acqua», dico, chissà se capisce un po’ delle cose che dico, no?, di quello che penso, «mi passi per favore questa. Acqua».

Ogni tanto, soprattutto la sera, le fitte di dolore che mi prendono sono come un ferro da stiro caldo sulla pancia, un’esplosione di piccole bolle di fuoco sotto la pelle, un vulcano da quattro soldi che m’hanno piazzato qua alla base dell’ombelico di notte mentre dormivo, e non mi va, figuriamoci, non ce la faccio a parlare. Mio nipote mi fa fare la Settimana Enigmistica, legge le definizioni ad alta voce, le scandisce come un interrogatorio (stessimo a scuola, farebbe pure ridere, ma qua?), però se sto così in questo modo, sto esausto, ah, affannato, non riesco a dargli una mano.

«Lo sono le intenzioni del bugiardo», dice. Con la c inizia. «Lo realizzò Fellini prima dello Sceicco Bianco, c’è una ie e una a finale», eh?

gli suona il coso spesso, il telefonino, e le parole che dice quando resto in dormiveglia vanno in circolo e si mescolano a quelle automatiche dei sogni, dei detriti delle cose, ah, delle cose che ho in testa, delle voci fumose della televisione che filtra e riecheggia attraverso i quattro muri che separano questa stanza dal salotto, ma comunque le sue di parole le riconosco. Perché parla veloce lui, parla smozzicato, mangiandosi le parole, l’ha sempre fatto, sento che parla con qualcuno: «Non ancora, che vuoi? ...Che cazzo c’entra? ...Partite domani sicuro?»

io, mi addormento e sogno sempre Flora. Come se ormai, dopo sessant’anni...

io mi addormento e sogno sempre Flora, come se dopo sessant’anni che c’ho passato insieme pure l’inconscio non c’avesse più fantasia. È così. Così che si ripete da sette mesi, sono cambiato io, posso dirlo ormai, no?, è così dalla notte stessa che non ha dormito più a casa. Sognare come l’ho sognata, come io l’ho sognata, la stessa persona quasi tutte le notti, pensare di essersi preso un altro malanno, o di aver fatto un torto, un peccato se lei almeno per un baleno non mi appariva in sogno. La realtà uno, a una certa età, se la sceglie come vuole che è, una realtà che può essere sia fatta di sogni, sogni normali, lei che si prepara per uscire presto il venerdì mattina, il vestito rosso per la messa, ma anche delle immagini di lei da più giovane, che nel sogno pure mi chiama sempre Peppino e raramente Peppì, e mi pone dei problemi minimi, problemi pratici: «Si è rotto di nuovo lo scaldabagno», oppure: «Non so se mi hanno dato i soldi giusti della pensione, conta un po’».

«Nonno», mi dice mio nipote,

nonno

«posso chiederti una cosa», e io non riesco a capire se sono uscito dal sonno, e il calore pungente delle fitte sembra essersi diffuso, o se è lì nel sonno, in mezzo al sonno che lui mi chiama - il calore sembra come un asciugamano incandescente che avvolge tutto intorno l’addome: «Secondo te, che faccio, ci vado a Genova?»

Alzo le spalle, almeno immagino di farlo, «Che c’è a Genova?», chiedo.

«Ma non stai dormendo allora», dice.

«Ho sete, dico», un automatismo.

«La manifestazione, no’, i paesi riu...», ah, «...cial forum», ah, «...ntri con la polizia, la roba che ti leggevo prima dei giornali»

(mi carezzo con la mano destra la faccia, oppure è la faccia che mi struscio sulla mano?)

fuori c’è il sole, ininterrottamente, la mattina mi sveglio e ringrazio che c’è il sole. L’aria diventa calda in mezz’ora tra le nove e mezza e le dieci. E poi mi chiedo, perché ringrazio che c’è il sole? Il sole c’è e basta, che c’è da ringraziare? e comunque, la mattina dopo mi scordo tutto e ringrazio di nuovo, così la sera, quando fa buio, se mi addormento e mi risveglio di notte, faccio la stessa cosa, dico grazie, come delirassi, perché lo pronuncio ad alta voce, a lettere maiuscole, così almeno mi dice qualche volta qualcuno che dorme di notte qua vicino a me.

(non ti sembra un incubo?, parole crociate solo di caselle nere)

«In un viaggio quando con tua nonna ancora potevi ragionarci», dico.

«Cosa?»

«Ci sono stato una volta a Genova, di passaggio. Quando», ecco di nuovo che sono un condizionatore, «con tua nonna ancora potevi ragionarci».

«È una formula ormai questa che usi».

«Quale formula?»

«“Quando con tua nonna ancora potevi ragionarci”».

C’ho l’immagine di Flora sul balcone quando il sole stava per tramontare che si metteva a fissarlo. O quando lanciava bistecche di maiale di tre etti l’una ai gatti sotto al balcone.

«Genova ci siamo andati in viaggio», dico, «e ci siamo fermati là a dormire ché volevo andare a trovare Campomonaco. Me l’hai data l’acqua?»

«È là»,

«questo era uno di quelli che c’avevo combattuto insieme. C’ero stato insieme in prigionia a fare la strada nel deserto, e poi ad Algeri nel magazzino di scarpe. E arriviamo là, e lui non c’era, e c’era la moglie che mi dice che era morto un anno prima».

Mio nipote mi guarda (faccia rivolta qua fissa, non ha mica tanta barba, gli cresce a ciuffi, e poi se la tira, c’ha una specie di tic), gli chiedo: «Mi fai alzare? Aiutami».

«Che c’è?»

Sto zitto per qualche minuto, mi sembra di avere esaurito la saliva, per cui, la sete, e poi dico: «Lo stesso viaggio», tento di non ripetere le cose che ho appena detto, «che siamo andati a Milano, quando tua nonna non la volevano fare entrare nel Duomo perché c’era scritto davanti alla chiesa che non potevano entrare le donne vestite scollate. Io prima mi ci sono messo a discutere, che eravamo arrivati là, c’era Flora che voleva vedere questo Duomo, Allora ho preso, mi sono levato la camicia e gliel’ho data, e siamo entrati lei con la camicia mia, e io in canottiera: mica...»

«Eh?»

«...»

«...»

«...mica c’era scritto vietato l’ingresso agli uomini scollati».

Hanno ammazzato uno

Lui decide di non andarci a Genova, non lo capisco se lo fa per me, non capisco perché viene tutti i giorni, così almeno sembra: perché queste giornate di luglio sono sempre più tutte identiche, sono la stessa giornata, un mese con tutti venti, fatto tutto di venti, venti luglio, venti luglio, sono una come l’altra le giornate, calde, calde uguali dalla mattina alla sera, non lo capisco davvero che cosa ci sta a Genova, oggi e ieri che è venuto qua mi ha detto, la radio, senti, mi ha portato, mi ha letto tutti i giornali, io lo ascolto (la fatica di mettere a...), lui prova a farmi il riassunto delle cose più importanti che dovrebbero comesidice darmi un’idea dell’evento, mi fa vedere il titolo del giornale che si compra lui, che dice: «Un altro mondo è possibile» (un altro mondo) e ci sta, a pagina intera, una fotografia con tutte macchie e punti che non si capisce se sono uomini o è un tappe....

«Mi prendi gli occhiali», gli chiedo, e lui, «Li ha presi zia», mi dice, «per portarli dall’ottico ad aggiustare, che li hai rotti due giorni fa». «Li ho rotti?», non mi ricordo. «Mi cola il naso?», gli chiedo. Mi ripete pure delle cifre, «trecentomila»,

«Che sono?»

«Le persone».

«Dove?»,

fa i resoconti, gli aggiornamenti di quello che dicono in tv, con questo telefonino che gli squilla, è un uccello col singhiozzo, oppure è lui che telefona concitato, c’ha la tosse, pare, batte e fa i numeri, dice non riesce a sentire, contattare le persone, e quando gli rispondono, è come se i nervi gli si sciogliessero tutt’intorno e dice prima: «Scusa nonno», poi parla ancora di: «quanta gente c’era, vi hanno fermato?», parla di caldo micidiale pure al telefono. «È vero, fa caldo. È», come è?, «è atro...».

Poi il pomeriggio mi addormento, scivolo nel sonno ma è come se fossi distratto e inciampassi, faccio sempre gli stessi sogni, o quelli con Flora o quegli altri che mi piacciono a me, forse me li scelgo, me li scelgo senza dirmelo?, mi sogno che dipingo certi quadri con i boschi che stanno sopra il Vesuvio, e trovo un tipo di verde che è proprio quello che ci vuole. (Verde anatra... le anatre son verdi, vero?). O mi fermo con la Seicento in mezzo a un campo, all’aperto, dico passiamo la notte qua, ci dormiamo, lo dico a Flora e la mattina mi sveglio, sto sempre nel sogno, con un contadino che tiene un fucile in mano, e si mette a ridere, dice che è stato sveglio tutta la notte, ci ha scambiati per dei camorristi, venuti a minacciarlo di incendiargli il raccolto.

«E ci mettevamo a dormire la notte qua nel campo?» gli dico.

«E che ne so io», dice quello,

quando mi risveglio, mio nipote sta ancora di là, si sente la televisione con il volume alto, chiamo ma non riesco a emettere altro che un filo di voce, e come al solito il sonno mi ha lasciato un desiderio di acqua, violento. Come se non bevessi da giorni. Manco il deserto quello vero, manco quello, no? manco quello era così (me lo ricordo?). Aspetto che qualcuno venga di qua, ma non riesco, nella posizione in cui sto con il collo troppo incassato nella schiena neanche a produrre la sali...

(l’aria mando giù: invece della saliva)

ah, e con gli occhi appesi, a fissare quelle strisce che sembrano tagliate della realtà che è il mondo fuori, quello che si intravede oltre i bordi delle tendine, che cos’è? eccolo, mi sembra un balcone e un albero, che potrebbe essere una palma, mi viene in mente: Algeria, come se stessi facendo il Bersaglio, sulla settimana enigmistica, e poi Regalia, anagramma, e mi riaddormento anche qualche altro minuto, lieve lieve, poi mi scuote la voce di mio nipote, che non vedo, che con una vociaccia agitata, mi viene qua vicino, mi si addossa alla gamba, e mi dice: «Hanno ammazzato uno».

«Ho sete», gli dico.

«Nonno, hanno ammazzato uno, a Genova».

«Ho sete».

Mi versa l’acqua e me la fa cadere un po’ sulla gamba, me lo dice lui, lo fa presente, io neanche avevo sentito il bagnato, si mette ad asciugare.

«Hai presente, che ti dicevo, che il ministro aveva detto che...»

Faccio un cenno di assenso con le palpebre: «E che ci vuoi fare, dico, ne ammazzano tanti...»

E gli risquilla il cellulare, e urla: «Ti sento, non ti sento», con una voce lamentosa, poi grida: «Stai bene? Non ho capito, dove sei? Sì sì sì, chiamo tua madre!»

Mia figlia gli dice: «Dai, se devi, vai di là a telefonare», mentre intanto si sta ricominciando a fare vivo il dolore-bollore della pancia, io non gli faccio notare niente, ma anzi: lui che urla mi fa compagnia, può restare, può restare, sennò sto sempre in questo dormi-veglia – sembra una droga, che mi dicono che non ci devo indugiare, che devo cercare di fare dei piccoli movimenti respirare per mantenermi lucido, no? Va di là a urlare, rialza il volume del televisore, e si scorda di ridarmi l’acqua, e io mi faccio forza, mi concentro, per chiamarlo. Ma, non mi va di infastidirlo. E poi…

Ventitré anni

«Che giorno è?», gli chiedo. È venuto a trovarmi oggi alla solita ora malata di afa, ma deve andare. Dove è che deve? deve andare «a sfilare, una manifestazione», dice, «a piazza Venezia».

«Non se lo fila più nessuno quel balcone. Pensa la gente che l’ha guardato, e non se lo fila veramente più nessuno. Il balcone», dico, «non il resto del palazzo che è giusto...».

Gli dispiace, fa, ma io gli dico: «Non fa niente»: ed è vero, oggi mi sento totalmente sfinito – Invece dell’acqua, bere l’aria? – Se deve stare, meglio che torna stasera, dopo le nove, quando il sole è sceso, fa un po’ meno caldo, la sera, ci sono le cose – E poi si sta – Ci sono le cose – meglio.

«È ventotto», dice.

«Tua nonna quando è morta? Sette mesi fa?»

«Sì, anche più».

Certe volte mi sembra un tempo volato o evaporato, certe altre mi pare un tempo infernale eterno. Questi mesi mi sono sentito come una spugna troppo piena. Che la memoria riesce a ritenere troppe cose. Anche soltanto questa casa, che è grande, quanto? Ottanta metri quadri, ottanta commerciali, sembra che da ogni parete faccia uscire, colare fuori, sudare, i ricordi, si sprigionano dagli oggetti come una spugna fradicia che appena la tocchi si strizza.

E forse è vero, sì è anche inutile, inutile che mi sono messo a fare i lavori, a chiudere le stanze, a chiave, non aprire i cassetti, evitare di sfogliare le foto, lasciare gli oggetti immobili, le cose a loro stesse, che si badassero da sole le cose, lasciarle in dei posti che ormai sembrano i loro posti, e dirmelo, dire a me stesso di nascosto che questa immobilità, questo lasciare le cose a loro stesse è una forma di rispetto, è vero no? Rispetto, ma poi, è una cosa e tutt’uno, ti rendi conto che basterebbe anche un che ne so pure un coso, un posacenere, una cosa tipo, un giornale dei programmi, un paio di mutande, una cosa qualunque, per dire, una cosa, per stare qua a incantarsi sui tuoi stessi sguardi che c’hai, (incredulo stai, e incredulo rimani, sì, incredulo) proprio che non ci puoi credere che tutto debba muoversi, che anche l’attenzione che c’hai alle cose si trasforma. Cambia, manco un giorno rimane, manco un secondo. Non si possono fermare almeno gli sguardi? non si possono, dico, non si possono bloccare almeno certi momenti in cui, sta lì, c’è, esiste, come lo chiami l’incanto? non si può restare almeno qualche ora, così a bocca aperta, come un momento che non diventa nient’altro, invece di alzarci e abbassarci, dalle poltrone alle sedie, uscire e rientrare, chiudere la porta a quattro mandate e riaprirla, quattro mandate di nuovo dopo mezz’ora scarsa, accendere e spegnere la radio, staccare la cornetta del telefono.

Ma, a ripensarci come li ho passati questi sette mesi, che mi alzavo e andavo a comporre qualche numero casuale, a sfogliare le rubriche con i suoi numeri, che io a chi dovevo telefonare?, e quei numeri stare là a leggerli, chiedersi chi è questo chi è quest’altro, accennarli poi, sentire squillare, e riattaccare, no, meglio adesso che sto qua nel letto, vorrei solo potermi alzare ogni tanto, che sennò mi sento un morto, lo so che non c’ho le forze, ma un secondo, se potessi alzarmi, mi farebbe stare anche più calmo e non agitato, sette mesi che sono scomparsi con certe giornate che sentivo alla radio tutta la programmazione, dalle sette e mezza che suonava la sveglia lasciata all’ora sua anche se io a quell’ora ero già sveglio, tutte le trasmissioni fino a mezzanotte, e andare in bagno di continuo, neanche per lo stimolo ormai, ma perché uno sta lì e si scorda di sé, perché uno non riesce a concentrarsi: da solo uno non ci riesce. Se uno non è abituato a stare da solo, se non è abituato a stare lì, essere così succube, così, come vuoi dire, schiacciato da una nostalgia che sarà banale certo, comune, capitata a chissà quanti altri certo, ma però è uno strazio, potete dire no? È vivere con una persona per sessant’anni, e poi più niente, ci si resta annichiliti.

Tranciati, in tutti i sensi, verticale e orizzontale e trasversale, annientati proprio dalla potenza dei propri sguardi che non trovano manco un’ombra,

– mi fa male pure respirare –

un appiglio, non trovano niente, niente che si muove, che lo accenni un movimento, qualcosa che puoi stare a seguire con lo sguardo.

«Mi fai alzare», gli chiedo.

«No, hai la gamba che è debole, no?»

«Chi è morto?»

«Quando?», dice lui.

«Chi è morto?»

«Chi è morto quando, nonno?»

«Non è morto uno l’altro giorno?»

«Quello che è morto a Genova, dici?»

«È morto?»

«Sì».

«Quanti anni aveva?»

«Ventitré».

«Quanti ’e te?»

«Uno in meno».

«Lo conoscevi?»

«No.»

«E come si chiamava?»

«Ma stai dormendo nonno?»

«No, ti sento, un po’ ti sento: quanti anni aveva?»

«Te l’ho detto, ventitré».

«Quanti ’e te».

«No. Di meno».

«L’hanno ucciso».

«Sì. Ma perché non tieni gli occhi aperti?»

«Perché così, mi riposo».

Tu non lo conoscevi per niente. Non sento quello che mi dice. Poi mi chiede: «vuoi dormire?»

«Eh?»

«Ma mi ascolti nonno, vuoi dormire?»

«Perché?», dico.

Non riesco a capire se mi risponde o meno, parla troppo a bassa voce. «Come si chiamava», chiedo.

«...Giuliano».

Non ho capito il nome, pare che abbia detto Carlo o Marco.

«Marco?», gli chiedo,

me lo ripete, ma c’ho la testa tutta assonnata una massa di pasta è questa testa: massa, passa, pasta, pesta, testa..., e mi dico, Marco, come il fratello di Flora; mi viene in mente, e ci penso perché se fosse nato un altro figlio – lo dovevamo chiamare Marco, glielo dovevo a lei, perché gli altri nomi li avevo scelti io, a lei le stavano bene, le piacevano, ma voleva sceglierne uno pure lei. Era giusto.

«Marco come il fratello di tua nonna», dico.

Lui sta in silenzio, un po’, e allora io apro gli occhi e,

«Quello della foto?», chiede.

A bassa voce o a mente, non lo so, gli rispondo di sì, che adesso ci penso che ho visto quella foto, quella foto la conosco da quanti anni?, da quanti conosco Flora, che lei la portava nella borsa sua, compresa di cornice, la portava: sempre, lo conosco pure lui nella foto sì, da sessant’anni, suo fratello, ma non l’ho mai conosciuto direttamente, è vero, lei: mi raccontava sempre di questo suo fratello, che era bellissimo, diceva, che se non fosse morto affogato... Una foto sola c’aveva. Ora, sta in camera. L’unico suo parente che non ho conosciuto, cinque sorelle invece, una più insopportabile dell’altra, e l’unico che potevo conoscere, morto presto, da ragazzo, che..., quanti anni aveva? tredici, quindici? Chi si ricorda?

«Quanti anni aveva?», dico. Ma forse lui è andato di là, ecco, capita così, eh? che ci stanno dei dubbi o delle cose che vorrei sapere, e chiamo, pronuncio le parole quest’è sicuro sovrappensiero: «Flora Flora» e mentre dico il nome, mi ricordo che non ci sta in casa, ed è proprio un fastidio, una cosa che se c’è qualcosa che uno dovrebbe poter fare è chiedere le cose, come quando le chiedevo certe definizioni dei cruciverba sulle cose da mangiare o sui tessuti, che era il campo suo dove era imbattibile, oppure quelle pagine dei cruciverba che quando si è sentita male li ha lasciati tutti a metà, e io non c’ho nemmeno avuto la voglia di riempirli, che stanno ancora là, così, a metà, non finiti. E non è giusto che uno muore e non gli si può chiedere più niente. Che deve fare uno? Segnarsi le domande aspettare magari per farle poi quando nei sogni in tutti questi sogni che uno fa in cui i morti appaiono sempre oppure tenersele e non farle neanche nei sogni perché che ne sai che quelli che ti appaiono sono proprio loro? e tenersele per dopo per dopo ah, madonna mia ah, questo caldo che mi fa sconcentrare sempre...

«Tutto?», chiede.

Che chissà se io ci riesco a tenerle a mente...

...tutte queste domande.

Questo brano è tratto dal libro La vita che verrà di Christian Raimo, edito da Minimum Fax

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