Nel Transgender Day of Remembrance, la storica attivista e candidata al Nobel per la Pace 2025 racconta l’Italia che «ha sempre avuto fastidio della visibilità trans» e denuncia un attacco sistematico ai corpi delle persone trans, tra leggi, narrazioni distorte e divisioni interne all’attivismo: un paese che rischia di ignorare il presente se non saprà reagire con memoria, cultura e azione collettiva
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«Il genocidio delle persone trans è programmato, voluto». È ancora una volta Porpora Marcasciano a trovare la parola, troppo alta, volutamente esagerata, per restituire l’urgenza e la gravità dell’attacco alle persone trans. Classe ’57, anima del magico ‘77, militante quando militare voleva dire esporsi con il corpo prima ancora che con le parole, oggi una delle voci più lucide e indisciplinate dell’attivismo Lgbtq italiano. Presidente onoraria del MIT, sociologa, archivista della memoria. Le etichette non bastano: presidente della Commissione Pari opportunità del comune di Bologna, quest’anno candidata al Nobel per la Pace.
In questa conversazione il suo sguardo taglia l’Italia come una lastra di vetro. Racconta un paese che «ha sempre avuto fastidio della visibilità trans», che negli anni Duemila ha smesso di nascondere il peggio di sé e oggi si consegna, quasi docile, a un lessico di paura importato dall’America trumpiana. Parla di un «genocidio programmato», di un governo che mette «i corpi nel mirino», di un’opinione pubblica che preferisce fantasmi (il «gender», i «bambini rubati») alle persone reali.
Non ha indulgenze per nessuno: né per le destre, né per un attivismo «diviso in mille rivoli», troppo spesso impegnato a parlare ai social invece che al paese. E non risparmia neppure se stessa, lei che oggi ammette di aver bisogno della montagna per prendere fiato prima di «disotterrare di nuovo le asce di guerra».
Il TDoR (Transgender Day of Remembrance), dice, dovrebbe essere un rito di «rabbia e coscienza». La seconda senza la prima sarebbe tiepida; la prima senza la seconda sarebbe cieca. In mezzo, come sempre nella storia, ci sono le persone. E la loro ostinata, scandalosa sopravvivenza.
Il report del Trans murder monitoring 2025 rivela un quadro allarmante sulle aggressioni verso la comunità transgender. Che ne pensa?
La vedo crescere. L’Italia è un paese omofobico, transfobico, razzista da sempre, ma grazie al vento rivoluzionario, innovativo di cultura degli anni ’60, ’70 e ’80, ci sono stati riflessi anche dopo. La pancia degli italiani si era ammorbidita, ma negli ultimi dieci, anche quindici anni, da Silvio Berlusconi in poi, è stata stimolata, tanto che gli italiani hanno tirato fuori il peggio. Lo vediamo anche nei femminicidi. Le persone trans sono state sempre additate perché erano visibili: questa visibilità ha sempre dato fastidio. Ma c’è stato un periodo, a cavallo tra i ’70, gli ’80 e anche i ’90, in cui era diventato anche costume ed era più lieve l’aggressività nei loro confronti. Con gli anni 2000 è andata crescendo. L’abbiamo sottovalutata, ma i presupposti c’erano tutti. L’elemento nuovo che va aggiunto è quello americano: la politica trumpiana e il “gender”. E per gender non si intende qualcosa di astratto, ma concreto: il corpo delle persone trans. Perché una “teoria gender” non esiste, i gender studies non riguardano le persone trans in quel modo. Qui si tratta di colpire le persone trans.
Ha parlato dell’America di Donald Trump.
Sì l’America sta assistendo a un esodo. Gli esodi avvengono per fame, guerra, pericolosità: ecco, la totalità. Molte persone transgender stanno emigrando. Potrei farle l’esempio di Susan Stryker, professoressa che sento spesso: ha le valigie pronte, vuole andare via.
Torniamo in Italia, questo è un governo che ha aperto un tavolo sui percorsi di affermazione di genere e su quel tavolo sta facendo una legge. Poi la legge sul consenso informato che mira a colpire il contrasto all’omotransfobia. Il corpo non è mai stato così nel mirino di un governo. Che ne pensa?
Ne sono certa. Parlerei di corpi, anche altri corpi fisici. Quello delle donne: l’attacco è anche contro l’aborto, il controllo della donna in chiave patriarcale. Il riflesso è l’aumento dei femminicidi. Cause culturali e politiche ben precise: il governo sta procedendo e sta proponendo ddl dove si fa riferimento al gender. È difficile che si faccia riferimento alle persone, ma sono le persone a essere sotto attacco. Caso emblematico: l’ospedale Careggi. Sono andati a colpire una struttura che segue le persone trans. Nessuno lo sa quando sono cominciati i controlli, il personale (psicologhe, endocrinologhe) aveva l’obbligo del silenzio stampa, e questo ha alimentato falsi miti, soprattutto sui numeri, sulle persone seguite. Come se i bambini venissero “rubati” nottetempo dai genitori e gli venissero somministrati bloccanti. La narrazione è questa, e sugli italiani poco acculturati fa presa.
Vede una consapevolezza dei tempi che stiamo attraversando?
Non c’è una percezione reale. Vedo una simulata incoscienza nel mondo dell’attivismo. Ma sono ottimista verso le nuove generazioni che hanno in mano il cambiamento e la trasformazione. Bisogna tuttavia considerare che queste politiche si realizzano non in un mese o due: nel lungo termine. Il pregiudizio si sedimenta nella mente delle persone come polvere, si innesca nelle famiglie, ritorna quel rifiuto storico che c’era, e di conseguenza tutto il resto.
Questa newsletter settimane fa ha dato voce a Sarah Mcbride, senatrice transgender americana che ha fatto un’analisi dura sul movimento trans*, a suo dire «non a portata di mano». Dice: «Abbiamo perso l’arte della persuasione. Abbiamo perso la capacità di costruire il cambiamento». Questo intervento ha acceso un dibattito nella comunità italiana, ripreso anche da diversi quotidiani generalisti. Che ne pensa?
L’ho condiviso e lo condivido. C’è la non volontà di leggere i tempi. Non siamo più negli anni ’60, ’70, ’80: il mondo è cambiato. Se non riusciamo a leggere il mondo con i suoi cambiamenti, non andremo più in là. Questo ci manca, perché abbiamo dato per scontata la nostra invincibilità. I diritti sono scontati? Nessuno ce li toglierà? Ma chi te l’ha detto. Dipende dal linguaggio, dalle modalità, dalle strategie. Se pensi che il nemico abbia le stesse proporzioni di 20 anni fa, non hai capito nulla. Mi ritrovo molto con la senatrice McBride.
Le associazioni trans fanno un lavoro enorme di raccolta dati e supporto. Cosa manca per rendere questo lavoro più riconosciuto e sostenuto?
L’attivismo dovrebbe uscire un po’ di più dal mondo social e riempire le piazze. Lo abbiamo visto sulla questione della Palestina: ci sono state manifestazioni che hanno fatto la differenza. Finché l’attivismo sarà diviso in mille rivoli, l’uno contro l’altro armato, e punterà solo sui Pride, mancheranno manifestazioni grandi, preparate, non mediate dai soliti ignoti. La manifestazione del 17 maggio era cresciuta e poi la risposta è arrivata dopo cinque mesi: perso il mordente, erano meno di mille. L’attivismo dovrebbe riflettere, ma amaramente non riflette ancora: è un mondo ancora diviso al suo interno. Io confesso che ho preso le distanze: sono una militante, ma non mi va più di essere dentro, è come il gatto col gomitolo di lana, non capisci nulla. Bisogna sviluppare le armi della saggezza. Io lo so, per dirla alla Pasolini, da dove arriva questa debolezza. Dalla gestione di un potere che non esiste. Usano le stesse strategie dei partiti della sinistra, che hanno fatto la fine di una piccola minoranza senza potere né capacità. Bisogna andare oltre. Ho adottato il motto di Gramsci dell’intellettuale organico che si sporca le mani: significa entrare nel vivo, non parlare dai pulpiti dei social, ma andare in piazza rischiando. La storia ci pone davanti queste scelte: o si fanno convintamente, o la storia si riprenderà ciò che ci ha dato. Anche con piccoli gesti: festival, dibattiti, convegni. Non solo manifestazioni di piazza, ma produzione culturale e politica. Quella è mancata. Abbiamo vissuto nella bambagia, mettendoci al centro del mondo come se rimanesse sempre uguale.
Il TDoR è memoria, ma anche lotta. Qual è secondo lei il messaggio politico più urgente del TDoR 2025?
Nessun passo indietro, ma tanti passi avanti. Il genocidio delle persone trans è programmato, voluto. Come diceva Audre Lorde: non era previsto che sopravvivessimo. Io le confesso: il 20 novembre lo trovo un po’ triste. Bisognerebbe invertire questa tristezza non in gioia, ma in ardore, rabbia: non possiamo accettare passivamente che questo accada. Ritrovarsi lì con la candela accesa e ripetere i nomi lo trovo triste. Mi piacerebbe un TDoR di rabbia e coscienza, perché senza coscienza la rabbia è cieca. Bisogna capire chi sono i nostri detrattori e chi siamo noi. È la nostra ermeneutica: se non capiamo il significato della nostra vita, è difficile la nostra collocazione nel mondo. Il mondo ci distrugge, non ci vuole. Una volta si diceva: “La storia ci distrugge, uccidiamo la storia”. Ecco. Senza coscienza non si va da nessuna parte, e deve essere collettiva.
Nel suo sguardo di attivista storica, quali conquiste le danno forza e quali ferite restano ancora aperte?
Parecchie, anche personali. Ritrovarmi in comune, presidente della Commissione Pari opportunità, non è scontato. Il comune di Bologna ha fatto questo passo. C’è naturalmente la candidatura al Nobel, conquiste personali, politiche e collettive di una comunità, specialmente quella della Commissione Pari opportunità. Però la ferita è questa mancanza di riconoscimento nella comunità cittadina bolognese: ho avuto diversi riconoscimenti, ma dalla comunità Lgbtq pochi. Le ferite sono poi quelle del carcere, delle aggressioni, delle violenze: ti segnano, sono cicatrici che non mandi via. L’emarginazione nella scuola, quando ero al liceo, mi ha fatto crescere. Ora, nella fase della vita in cui ripensi, ti senti un po’ con la pelle viva addosso: sento molta aggressività intorno a me, sento il pericolo. Noi trans abbiamo le antennine: ce l’ho negli sguardi delle cassiere del supermercato, nei luoghi di prossimità. Atteggiamenti che anche io superavo, ma che erano più contenuti, ora più manifesti. Chiedo a me stessa se ho ancora voglia e forza di affrontare e confrontarmi con queste cose. Per questo mi sono ritirata in montagna: sto ripensando a questa mia discesa in città, il ritorno in battaglia, “disotterriamo le asce di guerra”. Ognuno secondo le proprie possibilità (frase di Marx).
Afferma che non si sente riconosciuta dalla comunità, perché?
Nei primi due anni in comune la comunità Lgbtq non mi ha presa in considerazione: mi ignorava. All’inizio perché non mi ero confrontata con tutti prima di candidarmi. La prima settimana che entrai c’era stato il blocco del ddl Zan, e tutte le piazze piene di manifestazioni. Andai a quella bolognese: mi avvicinai al palco, vedevo facce stupite, stranite. Poi mi si avvicinò qualcuno e mi disse: “Oggi i politici non parlano”. Dopo 51 anni di attivismo e una settimana di istituzionalismo, per dire quali sono le storture della modernità, che corrispondono all’avanzata delle destre estreme. Se solo ciascuno riconoscesse a ognuno la propria parte. Ho sempre pensato che la politica di palazzo avesse un suo ruolo, io come movimento un altro, di pungolo, ma non ho mai pensato di distruggerla: oltre quella c’è l’abisso. Vedremo. Da me si dice “a fame fa imparà”. Dovremmo rigenerarci e soprattutto tornare a riflettere, parlare del mondo: non siamo isolati. Noi facciamo parte di un mondo, dobbiamo relazionarci con il mondo, e quel mondo va cambiato. Il patriarcato va abbattuto.
Il 20 novembre, in occasione del Transgender Day of Remembrance, alle ore 17.30 Porpora Marcasciano presenta, a Palazzo d’Accursio, “Io, la Romanina”, autobiografia della storia attvista trans Romina Cecconi, insieme alla vicesindaca di bologna Emily Clancy e Simona Larghetti.
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