C’è una sola cosa buona nelle motivazioni della sentenza della Corte di Assise d’Appello di Palermo depositata alcuni giorni fa. Non è la lunghezza intesa come una prova di serietà (tremila pagine!), non è il tempo che hanno impiegato a scriverla i giudici Angelo Pellino e il suo a latere Vittorio Anania (un anno dal verdetto), il segno dello scrupolo.

No, perché quelle tremila pagine più spagnolesche che manzoniane sono pagine che sorvolano, tacciono, sfottono, ammiccano, ma hanno un solo grande merito: hanno scritto il capitolo finale di una vicenda trentennale che, a mio parere, ha coperto di vergogna la magistratura italiana.

Dieci anni fa, scrissi che quello che stava succedendo sui cadaveri di Falcone e Borsellino era uno scempio, di cui forse gli stessi magistrati non si rendevano conto. Adesso, calcherei la mano sulla seconda parte della frase. È comunque per me quasi un dovere commentare l’atto finale (e grazie a Domani che mi ospita).

Le indagini 

LaPresse - Guglielmo Mangiapane

In una sola estate, in mezzo all’Europa, nel 1992, dopo dieci anni in cui la Sicilia si era trasformata in un “narcostato” che scalava con successo il potere economico e finanziario italiano, vennero uccisi con azioni di guerra i due giudici investigatori che “sapevano troppo” e l’anno dopo in Italia scoppiarono bombe che tutti interpretarono come preludio di un colpo di stato.

Una situazione così, dopo la fine della guerra, si era verificata solo in Irlanda del Nord vent’anni prima ed era in evoluzione tragica nei Balcani. Il governo italiano reagì imponendo il carcere duro ai mafiosi e mandando l’esercito in Sicilia.

Le indagini vennero stranamente affidate, con poteri speciali, a un oscuro e molto losco  commissario di polizia, Arnaldo La Barbera, dotato di grandi fondi dai servizi segreti, che fin dall’inizio organizzò il “depistaggio del secolo”, come ormai viene apertamente chiamato: tutta la sua indagine – che durò grottescamente quasi vent’anni – dipendeva dalla procura di Caltanissetta, che risultò essere completamente asservita ai voleri del commissario La Barbera.

La “trattativa” 

La Procura di Palermo entra in scena nel 2012, quando comunica di avere convinto a collaborare un pesce grosso: Massimo Ciancimino, l’erede della fortuna del padre, il famoso don Vito, che fu notoriamente il braccio politico della mafia corleonese.

Massimo è stato testimone diretto degli incontri tra suo padre e due ufficiali dei carabinieri, il colonnello Mario Mori, vecchia volpe dei servizi, e il giovane capitano Giuseppe De Donno, brillante operativo che, su consiglio di Falcone, ha svolto una seria inchiesta sugli affari della mafia, affari che coinvolgono le principali aziende italiane.

I carabinieri e don Vito si incontrano a Roma, subito dopo la strage di Capaci: di che cosa parlano? Di arrestare Riina, considerato l’artefice di tutto. Naturalmente don Vito chiede qualcosa in cambio e lì comincia “la trattativa”.

La procura di Palermo è eccitatissima e comincia ad elaborare una sua teoria molto, molto audace: l’ignobile trattativa prevede anche che si uccida Borsellino, che essendo persona specchiata, rifiuterebbe un simile baratto. E questo prontamente avviene, la strage di via D’Amelio. Superato questo ostacolo “la trattativa” si infittisce e trova dei referenti politici importanti: il ministro della giustizia Giovanni Conso, il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, a fare da mallevadore è l’ex ministro dell’Agircoltura, il democristiano Calogero Mannino, a “coprire” l’ex ministro degli Interni Nicola Mancino.

Anni di paranoia

Tutto si sarebbe rivelato una paranoia assoluta, ma forse in quegli anni eravamo tutti un bel po’ paranoici. Stiamo parlando del 2012, Berlusconi è caduto nella vergogna, governa Mario Monti, ma la procura di Palermo, a corto di argomenti, decide di mettere sotto controllo il telefono dell’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, 80 anni.

Lo sospettano di aver avuto un ruolo nell’oscena trattativa. Lo seguono per mesi e mesi e Mancino, che è un facondo napoletano, chiacchiera su differenti sei telefoni di tutto, ma niente che possa far gola alla procura… fino a quando saltano fuori quattro telefonate con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in occasione delle feste natalizie.

Secondo la procura di Palermo, quelle telefonate – la cui pubblicità è naturalmente illegale – provano che il presidente «ha qualcosa da nascondere». E parte una delle campagne più folli che l’Italia abbia mai visto: il presidente viene praticamente considerato un colluso con la mafia, al corrente della verità, a capo di quello “stato-mafia” o “mafia-stato” che è stato il mandante dell’omicidio Borsellino.

Antonio Di Pietro urla che lui firmerebbe subito un mandato di cattura, Beppe Grillo chiede l’impeachment, il pm Antonio Ingroia, in nome della difesa della Costituzione, forma un suo partito politico, i guru del populismo giudiziario, Marco Travaglio e Michele Santoro, si agitano e fomentano, Sabina Guzzanti recita, Barbara Spinelli si interroga, Salvatore Borsellino abbraccia Massimo Ciancimino, Fedez, che a quel tempo era vicino ai grillini, canta «Caro Napolitano, te lo dico con il cuore/ o vai a testimoniare o passi il testimone». E davvero qui c’è da chiedersi chi ha plagiato l’altro, chi ha tratto giovamento dall’andazzo, o chi sia stato trascinato dall’ingnuità. Ma l’ingenuità , come ci dicono la letteratura e il cinema, esiste solo nei personaggi secondari.

L’unico che fin dall’inizio, con coraggio, prese posizione di fronte a questa barbarie giudiziaria fu il professor Giovanni Fiandaca, sui cui studi giuridici si erano peraltro formati i pm palermitani, che fin dall’inizio sentenziò: «Il processo cosiddetto trattativa è una boiata pazzesca». Fu accusato di ogni.

Questo succedeva dieci anni fa, all’epoca in cui nacquero degli eroi mediatici, in primis il pm Nino Di Matteo che addirittura camminava per Palermo scortato da volontari venuti dal Veneto profondo, e il cui nome sventolava dia balconi di decine di municipi della città governate dai grillini, Roma per prima. Quello che non funzionava era però l’inchiesta: faceva acqua da tutte le parti, basata sul niente.

Nel 2015 venne assolto il vecchio Dc Calogero Mannino, nel 2018 l’ex ministro degli Interni Nicola Mancino. Napolitano (e con lui l’Italia) però subì l’umiliazione di essere interrogato al Quirinale dai famosi pm di Palermo. Gli chiesero: «Ha mai saputo qualcosa della trattativa?»; Napolitano rispose: «No» e i pm alzarono i tacchi; ma non hanno ancora rinunciato: la registrazione di quelle telefonate esiste, circola.

Trent’anni di impostura

Per farla breve, nella rete restarono i carabinieri Mori e Di Donno, il povero (si fa per dire) Massimo Ciancimino a cui venne suggerito di fare il nome del capo della polizia (lo fece maldestramente e fu condannato per calunnia), e l’ex senatore Dell’Utri: condannati in primo grado e assolti (come era largamente prevedibile) in appello.

Quello di cui discutiamo ora è il riassunto di un’impostura durata trent’anni; sì perché a questa mostruosità di processo della procura di Palermo, occorre aggiungere la mostruosità parallela del depistaggio le indagini condotte dalla procura di Caltanissetta.

Trent’anni di impostura, nella vita di un paese, non sono pochi.

Il sipario

Ma, venendo al dunque. Confesso di non aver letto tutte  le tremila pagine, ma credo di essermi fatta un’idea, con l’aiuto di Google Search. Il giudice Angelo Pellino (che è una delle persone più rispettate e riservate nel palazzo di giustizia di Palermo), ha distrutto, nelle sue motivazioni, la paranoia della procura di Palermo, ma ha usato la mano molto leggera nel giudicare i suoi colleghi. Sì, Mori e De Donno presero «un’improvvida iniziativa» quando contattarono don Vito Ciancimino, ma lo fecero a fin di bene, per salvare il paese da altre stragi; e nessuno, nello Stato, lo sapeva. E vabbè.

Certo, l’arresto di Riina fu una messa in scena, una sorta di circonvenzione di incapace nei confronti del popolo italiano. E vabbè, capita. Sì, certo, i ponti d’oro concessi a Provenzano, quindici anni di libertà, si potevano evitare, come pure quell’idea che don Vito Ciancimino fosse la mafia buona con cui ci si poteva alleare, ma, insomma, si balla con le ragazze che ci stanno.

In effetti, il suicidio in carcere di tale Nino Gioè, l’uomo dei servizi che ha gestito la strage di Capaci, risulta essere piuttosto strano; in effetti, Dell’Utri aveva rapporti con i boss, ma non ne parlò a Berlusconi, e così via. Poteva la magistratura fare di più? Chissà.

Cali il sipario, non ci sono più spettatori in sala. Non ci saranno repliche, l’argomento ha annoiato tutti.

E così, per la prima volta da decenni, in una campagna elettorale, l’impegno alla ricerca della verità, non compare più. Forse è meglio così.

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