Il 25 ottobre 2025, l’assemblea nazionale di D.i.Re - Donne in Rete contro la violenza ha votato l’espulsione dell’associazione fiorentina Artemisia. Il motivo: Artemisia ha deciso di aprire il corpo associativo agli uomini, inserendo sette soci maschi. Lo Statuto di D.i.Re prevede che i centri aderenti siano di sole donne. Artemisia rivendica la scelta come necessaria per il cambiamento culturale. La stampa mainstream ha trattato l’espulsione come uno scandalo. Ma i segnali che dovremmo leggere sono tutti lì, chiari.

Ci hanno insegnato a riconoscere i segnali. Nelle relazioni, nei contesti lavorativi, negli spazi pubblici: impara a vedere i segnali prima. Quelli che arrivano quando c’è ancora tempo. Quando qualcuno si presenta come “diverso dagli altri”, quando conquista fiducia con gesti che sembrano premura, quando gradualmente modifica gli equilibri mentre tu pensi sia dialogo.

I segnali sono il nostro strumento di sopravvivenza. Sono quello che ci protegge, se li sappiamo leggere in tempo. Ma sono anche la nostra condanna: «Non hai visto che c’erano i segnali?», in un contorto paradosso per cui, comunque vada, abbiamo imparato a salvarci da sole.

Eppure, continuiamo a leggerli. Perché è l’unica cosa che abbiamo.

E adesso, mentre guardiamo quello che sta succedendo agli spazi femministi, quei segnali ci sono di nuovo. Tutti. Chiari. La domanda è: li stiamo leggendo?

Il primo segnale

Primo segnale: il nostro confine diventa un’offesa

Succede sempre la stessa cosa quando le donne dicono “questo spazio è nostro”. Non importa di quale spazio si tratti. Quando tracciamo un confine e diciamo “qui vogliamo stare tra noi”, la reazione è sempre sproporzionata.

Diventa subito necessario spiegare, giustificare, ammorbidire. Dobbiamo rassicurare che non odiamo nessuno, che non stiamo discriminando. Il nostro no viene trattato come un problema che richiede continue argomentazioni.

Eppure, gli uomini possono occupare il 90 per cento degli spazi di potere senza che nessuno li accusi di odiare le donne. La loro autonomia è invisibile, normale.

Questo è il primo segnale: il doppio standard su chi può permettersi di dire no.

È la stessa dinamica che vediamo quando una donna lascia una relazione, quando rifiuta, quando si sottrae al controllo. Il no femminile innesca una violenza – verbale, fisica, simbolica – che dice quanto quel no sia vissuto come intollerabile.

E questo ci deve raccontare che non stiamo parlando di questioni organizzative. Stiamo parlando di potere.

Il secondo segnale 

Secondo segnale: il tempismo delle aperture

C’è un momento preciso in cui iniziano a chiederci di aprire gli spazi femminili. Non quando siamo forti. Ma quando siamo sotto attacco.

Quando i nostri diritti vengono messi in discussione. Quando le tutele vengono smantellate. Quando le risorse vengono tagliate. Proprio in quel momento, arriva la richiesta di abbassare le difese, di essere più inclusive.

Non è mai un caso. Se la richiesta di aprire le porte arriva mentre fuori si sta organizzando un assedio, forse dovremmo chiederci: a chi serve davvero questa apertura?

Il terzo segnale 

Terzo segnale: chiamare anacronistico quello che ci ha salvate

La retorica che viene usata contro gli spazi femminili è quella dell’anacronismo. Sono spazi superati. Chi li difende viene dipinta come ancorata a logiche vetuste, incapace di evolversi.

Ma quegli spazi non sono nati per capriccio ideologico. Sono nati perché hanno funzionato. Hanno permesso alle donne di costruire autonomia, elaborare saperi, creare reti che hanno salvato vite.

Il femminismo ha conquistato diritti proprio attraverso quegli spazi separati. I centri antiviolenza esistono perché un gruppo di donne ha deciso di costruire qualcosa fuori dalla logica dominante. Presentare questo separarsi come fase superflua è un segnale pericoloso.
Occhio a chi ti chiede di dimenticare cosa ti ha salvata, perché spesso è il tentativo di rimetterti nella situazione da cui ti eri salvata.

Il quarto segnale

Quarto segnale: l’inclusione come grimaldello

Viviamo in un’epoca dove contestare l’inclusione è quasi impossibile. Chi lo fa viene immediatamente dipinto come retrogrado. E proprio per questo è diventata l’arma perfetta per smantellare protezioni necessarie.

Includere chi detiene il potere strutturale negli unici luoghi dove chi lo subisce può sottrarsene? Se uno spazio nasce per permettere alle donne di stare senza mediazione maschile - senza pesare le parole, senza sottostare alle logiche di dominio, senza il lavoro emotivo che scaturisce da reazioni maschili alla violenza - aprirlo agli uomini diventa trasformazione della sua natura. E quella trasformazione ha conseguenze concrete.

Il quinto segnale

Quinto segnale: la performance dell’alleanza

C’è un copione che si ripete: l’uomo che vuole entrare negli spazi delle donne si presenta sempre con le credenziali giuste. Ha fatto il lavoro su di sé, conosce il linguaggio. Non è “come gli altri uomini”.

E forse è vero. Ma il problema non sono le intenzioni individuali. Anche l’alleato più consapevole porta con sé pattern di comportamento, modi di occupare lo spazio, forme di autorità che vengono riconosciute socialmente. In qualsiasi contesto misto tendono a riprodursi le stesse dinamiche, perché sono schemi culturali che si attivano automaticamente.

Il sesto segnale 

Sesto segnale: come si insinua la manipolazione

La manipolazione non arriva mai annunciandosi. Arriva con un sorriso, con parole empatiche. E soprattutto, arriva lentamente.

Il manipolatore conquista terreno un millimetro alla volta. Chiede piccole cose, ragionevoli. E ogni volta che ottiene quel piccolo sì, il confine si sposta. Quello che ieri era impensabile, oggi diventa discussione. Ciò che oggi è oggetto di discussione, domani sarà normale.

È il meccanismo che ben conosciamo delle relazioni violente. All’inizio è solo una domanda su dove sei stata. Poi un commento su come ti vesti. Ogni passo sembra piccolo, giustificabile.

C’è un motivo per cui ci è voluto così tanto perché la violenza sessuale nel matrimonio venisse riconosciuta come reato. Fino agli anni Settanta, predominava l’idea che il consenso al matrimonio costituisse una via libera permanente. Ma abbiamo imparato che dire sì una volta non significa dire sì per sempre.

Eppure, quella stessa logica – hai aperto, hai accolto, ora non puoi più dire no – viene applicata agli spazi politici delle donne. Ma noi abbiamo il diritto di dire: qui sì, qui no. Di tracciare confini anche dentro relazioni che abbiamo scelto. Il consenso non è un interruttore, è una negoziazione continua.

La manipolazione ti mette sempre in quella posizione da pazza ingenua: se protesti troppo presto sei paranoica, se protesti troppo tardi è colpa tua che non hai visto i segnali. E intanto, millimetro dopo millimetro, quello spazio non è più tuo.

Il settimo segnale

Settimo segnale: il quadro più ampio

Nessuno di questi segnali esiste in isolamento. Fanno parte di un attacco sistematico agli spazi di autodeterminazione femminile.

Le proposte di legge che smantellano tutele. Le teorie pseudoscientifiche usate per delegittimare le donne che denunciano. Le battaglie sui fondi. Le pressioni per normalizzare i luoghi che avevamo costruito come radicalmente nostri.

La strategia è chiara: neutralizzare i presidi di autonomia trasformandoli in servizi normalizzati, dove quella specificità radicale si dissolve.

I segnali ci sono. Tutti. Chiari.

Possiamo vederli adesso.

Oppure possiamo aspettare. E tra qualche anno, quando quegli spazi non esisteranno più, sentiremo quella domanda: "ma c’erano tutti i segnali, come avete fatto a non vederli?".

E ancora una volta, la responsabilità ricadrà su di noi.

La domanda non è se i segnali ci siano.

La domanda è: cosa facciamo con quello che vediamo?

© Riproduzione riservata