Il ministro Valditara ha indirizzato una lettera al quotidiano Domani per replicare alle critiche e alle preoccupazioni sollevate dopo l’approvazione dell’emendamento della Lega che introduce il consenso informato per l’educazione sessuo-affettiva nelle scuole secondarie di secondo grado e ne vieta l’attuazione nel ciclo primario.

Sorge allora un interrogativo legittimo: abbiamo frainteso? I timori espressi da insegnanti, associazioni, studentesse e studenti e movimenti femministi erano davvero infondati? A sentire le parole del ministro, parrebbe di sì, poiché egli stesso assicura che l’educazione sessuo-affettiva non è stata affatto vietata.

In realtà il ministro dice e non fa e cerco di spiegare perché andando in ordine.

La critica che molte associazioni femministe e realtà educative muovono alle dichiarazioni del ministro Valditara – pur riconoscendo formalmente la presenza di riferimenti a “educazione alle relazioni”, “empatia emotiva” e “rispetto” nelle nuove Indicazioni nazionali e nelle Linee guida di educazione civica – possiamo concentrarla su tre ordini di argomenti: la vaghezza normativa, la sostituzione semantica e la debolezza strutturale delle politiche educative.

Vaghezza normativa

In primo luogo, la vaghezza normativa. L’educazione sessuale e affettiva (in sede internazionale denominata Cse - Comprehensive Sexuality Education – educazione sessuale completa), così come intesa dalle principali organizzazioni internazionali (Unesco, Oms, Who, Ippf) è considerata un diritto informativo della persona, ed è un percorso educativo sistematico e progressivo che integra conoscenze biologiche, psicologiche, relazionali e valoriali, finalizzato a costruire competenze socioaffettive e a prevenire la violenza di genere e gli abusi. Essa implica dunque contenuti espliciti e una metodologia strutturata, validata da studi e letteratura internazionale, supportata da personale formato, con obiettivi misurabili e verificabili.

Nel disegno di legge e nelle nuove Indicazioni nazionali, invece, il riferimento all’“educazione alle relazioni” resta un ombrello terminologico generico, privo di una cornice epistemologica e pedagogica precisa. Parlare di “relazioni” o “empatia” non equivale a introdurre una Comprehensive Sexuality Education (Cse): è una traslitterazione eufemistica che elude il nodo politico e culturale della sessualità come campo di conoscenza, autodeterminazione e diritti.

Sostituzione semantica

In secondo luogo, la sostituzione semantica. Le parole “educazione sessuale” o “sessuo-affettiva” scompaiono dal lessico ministeriale, sostituite da formule come “educazione alle relazioni” o “rispetto verso la donna”. Tale sostituzione non è neutra: segnala una ritirata simbolica e un arretramento culturale.

L’educazione al rispetto è certamente importante, ma se non si accompagna a un discorso sul corpo, sul consenso, sull’identità e sull’orientamento, rimane un discorso moralistico o comportamentale, non un percorso di consapevolezza in seguito a formazione specifica, come indicato dagli organismi internazionali.

In altre parole, si educa alla “buona condotta”, non alla libertà consapevole e alla responsabilità affettiva e sessuale. È esattamente ciò che molte reti femministe definiscono, ci scusi il ministro e con tutto il rispetto, “fuffa”: un linguaggio di superficie che evita di affrontare le radici culturali del sessismo, della violenza e della disuguaglianza di genere.

Debolezza strutturale

Il terzo punto riguarda la debolezza strutturale. Valditara cita 3 milioni per la formazione e 15 per i progetti scolastici: cifre modeste, direi nulla, rispetto a una platea di 800mila docenti e se paragonati, per esempio, ai programmi europei di Sexuality Education (come quello olandese o svedese), dove l’educazione sessuale è materia obbligatoria, curricolare e dotata di formatori dedicati, non un compito aggiuntivo imposto a insegnanti generici, spesso non preparati e già sovraccarichi. Le associazioni sottolineano che affidare l’educazione affettiva ai docenti “volenterosi” o all’autonomia delle scuole significa de-responsabilizzare lo Stato e perpetuare la disomogeneità e la discrezionalità territoriale attuale.

L’esperienza dei progetti finanziati “a bando”, a tempo o su base volontaria, mostra che senza una norma vincolante e un percorso formativo riconosciuto, tali iniziative restano sporadiche e dipendenti dalla sensibilità dei singoli dirigenti. Faccio un esempio concreto: diversa cosa sarebbe inserire ad esempio crediti in studi di genere e/o in didattica in un’ottica di genere nei 60 crediti obbligatori necessari ad accedere al concorso di docente: tutta la platea dei futuri docenti avrebbe quantomeno delle informazioni di base che uniformerebbero l’approccio. Posto che la Cse richiede personale specialistico.

Il nodo politico

Infine, il nodo politico di fondo: l’assenza di un riferimento esplicito ai diritti sessuali e riproduttivi, che in tutti i framework internazionali costituisce la base dell’educazione sessuale. La rimozione del termine “sessualità” risponde a un approccio ideologico che, per ragioni di consenso politico e di convinzioni delle destre sovraniste, cerca di evitare il conflitto con le frange conservatrici e con l’area cattolica tradizionalista, che da anni ostacolano l’introduzione organica della Cse in Italia e in altri paesi a guida conservativa accusandola di “ideologia gender”, cavallo di battaglia dei programmi reazionari delle destre internazionali.

Insomma, si dice di fare, ma, nella sostanza non si fa, o si fa pochissimo. Diciamo che il quadro rimane invariato, con un'operazione di maquillage semantico, come hanno evidenziato molte associazioni, tra cui Non una di meno, Udi, Educare alle differenze e Agedo: quella del ministro è una risposta retorica che copre però un vuoto sostanziale in ordine alle considerazioni appena espresse.

In sintesi, non si contesta tanto ciò che Valditara afferma, quanto ciò che non dice e non prevede: il fatto che nella sostanza nulla cambia e si rimane a come si era prima, con qualche limite in più. Mancano un curricolo obbligatorio, un quadro nazionale di riferimento, la formazione specialistica del personale e un riconoscimento esplicito della dimensione sessuale come parte integrante dell’educazione civica e affettiva. Cioè, significa: intanto un quadro normativo molto, molto vago ma, nella sostanza, un’educazione senza corpo, senza linguaggio, senza conflitto e dunque senza trasformazione.

In altri termini, si segnala l’ipocrisia di dire di fare e non fare. Un sostanziale, chiaro e preoccupante passo indietro.

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