È solo mafia, non vi basta? Ha fatto tutto Totò Riina, sulle bombe ci sono le impronte digitali dei fratelli Graviano, per ogni delitto eccellente la pistola in mano ce l’ha avuta sempre Leoluca Bagarella. Mafia, solo mafia. Non cercate altrove perché altrove c’è il nulla. O complottisti di professione, sceneggiatori, romanzieri. Solo mafia, il resto è fiction e delirio. Questa vigilia del 23 maggio, ventinovesima commemorazione dall’uccisione di Giovanni Falcone, è segnata dal ritorno della mafia come unica ideatrice ed esecutrice degli attentati e delle stragi che hanno sconvolto l’Italia.

E non mi riferisco soltanto a Michele Santoro e alla fantasia sospetta di Maurizio Avola, quanto piuttosto a una tendenza che affiora da più parti e cerca di imporre un’idea ignorando decenni di indagini, atti parlamentari, sentenze pronunciate in nome del popolo italiano. Ogni evidenza è seppellita con una battuta in tv, un’arguzia sul profilo Facebook, una contorsione linguistica in un pubblico dibattito. Va di moda, piace che i colpevoli siano solo i mafiosi. Rassicura. Nessun complice, siamo tutti innocenti, indifferenti e favoreggiatori. Sono stati i Corleonesi, in solitudine, a far tremare il paese dal 1979 al 1993.

Frequenti distrazioni

Qualche settimana fa, in occasione di un altro doloroso anniversario palermitano – l’uccisione di Pio La Torre e del suo amico Rosario Di Salvo il 30 aprile 1982 – mi è capitato di leggere commenti sulla matrice dell’assassinio («C’è bisogno della Cia, dei poteri occulti? La mafia è stata: la mafia!!!») che cancellano dalla memoria ciò che ha rappresentato La Torre per il potere e i fili che ha rintracciato per esempio il giudice Falcone nella sua requisitoria sui cosiddetti delitti politici. Sicari di mafia, mandanti di mafia, ma anche un contesto ostile intorno al quale lo stesso Falcone avrebbe voluto approfondire le sue investigazioni e che però il procuratore capo di allora, Piero Giammanco, impedì.

In questi ultimi tempi e in più di un’occasione ho sentito parlare della morte del consigliere istruttore Rocco Chinnici, fatto saltare in aria con un’autobomba il 29 luglio del 1983, con protagonista assoluto di quell’attentato “alla libanese” Giovanni Brusca. Mai una parola sui cugini Salvo, Nino e Ignazio, i baroni mafiosi delle esattorie che finanziavano la corrente andreottiana della Democrazia cristiana siciliana e sui quali Chinnici aveva osato aprire un’inchiesta. I loro nomi sono stati oscurati, accontentiamoci di Brusca.

Viene rimosso ogni richiamo a colletti bianchi o neri, a soldi e a banche, a leggi e a legislatori che avevano garantito alle 75 esattorie dei Salvo un aggio che raggiungeva il 10 per cento contro il 3 della media nazionale. Più facile ricordare solo Giovanni Brusca, “u’ Verru”, porco in siciliano. Distrazioni frequenti che valgono anche per gli omicidi del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, per il giudice Cesare Terranova, per Giovanni Falcone. E soprattutto per Paolo Borsellino. Probabilmente quella di via D’Amelio, fra tutte le stragi, è la più subìta da Cosa Nostra.

Via D’Amelio

Nella sua ricostruzione ci sono ancora molti pezzi mancanti, sono state acquisite prove di deviazioni istituzionali e non è un caso che la prima istruttoria sul massacro venga ricordata dai pubblici ministeri come «il più grande depistaggio della storia repubblicana».

Tutto ciò sembra non avere più una qualche importanza, nella narrazione che ne fa un dilagante neo conformismo, favorito anche – almeno questa è la mia opinione – dal rumore di certe indagini “clamorosissime” che non vedono mai fine o dalle esasperazioni di chi si spinge a dire che, in fin dei conti, dei grandi delitti di mafia nessuno può ritenersi un vero delitto di mafia. Posizioni estreme che non tengono in debita considerazione la natura della Cosa Nostra siciliana, la sua autonomia da altre entità criminali, la capacità che ha sempre avuto di negoziare con lo stato italiano.

Ma mai mi sarei aspettato una campagna “revisionista” come quella di questi ultimi mesi. Con la mafia, per riprendere le parole del presidente della Commissione parlamentare antimafia siciliana Claudio Fava, raccontata come fosse un western, i buoni da una parte, i cattivi dall’altra e in mezzo niente. Diciamo pure che sulla mafia ormai si può scrivere tutto e il contrario di tutto, tanto i Corleonesi dal 41 bis non smentiscono mai.

Di recente ho letto un articolo, di contenuto giornalistico indefinibile, sul primo omicidio che avrebbe commesso Totò Riina. Non era riportata l’identità della vittima né la data del delitto, neanche una vaga indicazione di dove era stato compiuto, senza nome anche il magistrato che aveva svelato il mistero e a quanto pare aperto un’indagine. Una fantastica storia che, testuale, «riaffiora nel giorno in cui morì Maradona». Effetti speciali.

Gli influencer dell’antimafia

Poi ci sono gli influencer dell’antimafia che non fanno paura alla mafia, poi ancora ci sono i talk show che in un’ora e mezza pretendono di ribaltare trent’anni di processi. È lo stordimento che ci accompagna verso quest’altra celebrazione della strage del 23 maggio e che per il secondo anno consecutivo, a causa del Covid, ci sarà senza le famose “navi della legalità” che approdano ai moli del porto di Palermo. Sempre più stanca la cerimonia dentro l’aula bunker, nel 2020 disertata da molti per i troppi pennacchi e per l’insopportabile retorica. Falcone e Borsellino, Borsellino e Falcone, esibiti come santini, agitati – il copione è il solito – come il bene contro il male. Siamo sempre al western. Ma cos’è diventata la mafia oggi, quale evoluzione ha avuto dopo quel 23 maggio e quel 19 luglio, nessuno ce lo sa o ce lo vuole spiegare.

Periodicamente ci offrono in pasto gli avanzi dei Corleonesi, i feroci allevatori dei Nebrodi, qualche malacarne ragusano presentato come Al Capone o l’ultimo vivandiere (sempre “insospettabile”) di Matteo Messina Denaro che intanto continua la sua latitanza. Ma è davvero questa la mafia che comanda quasi trent’anni dopo le stragi, è davvero questa quell’organizzazione potentissima che non ha mai nascosto l’ambizione di essere “classe dirigente”, che muove così ingenti capitali da condizionare politica ed economia?

Nei convegni e nei “pensatoi” si parla e si straparla di una mafia stellare (senza però mai fare un nome) e poi però i resoconti quotidiani delle retate ci consegnano l’estorsore beccato con la bottiglia di benzina che dà fuoco al negozio, i disperati dello Zen che si fanno la guerra a colpi di post su Facebook, il boss ultraottantenne spacciato come il futuro che avanza in Cosa Nostra. Si citano a memoria le frasi del giudice Falcone come al catechismo. Una fra le più gettonate: follow the money, segui i soldi. Ma quante indagini sul grande riciclaggio di denaro sono partite negli ultimi anni? Se le contiamo, forse non arrivano alle dita di una mano.

Il «luogo delle strage»

Cosa è oggi il sistema criminale italiano? È quello dei poteri apertamente illegali o piuttosto quello dei poteri legali che si muovono illegalmente e naturalmente in combutta con le mafie? Chissà, che ne direbbe Falcone se fosse ancora fra noi.

L’ultima volta che sono andato sul «luogo della strage» è stato quattro anni fa, per l’anniversario del quarto di secolo. Sono tornato sul cratere, dove il 23 maggio c’era l’inferno e dove – là sopra, sulla collina – c’è ancora il casotto dell’acquedotto dove Brusca era appostato con il radiocomando. Sotto, da una parte, c’è il giardino della memoria che ha voluto Tina Montinaro, la moglie di Antonio, uno degli angeli custodi di Falcone. Dall’altra parte invece c’è un piccolo villaggio costruito proprio ai margini del cratere, una trentina di villette color pastello attraversate da stradine che portano il nome dei poliziotti e dei magistrati uccisi a Palermo. L’area sulla quale sorge il villaggio faceva parte di un’operazione immobiliare citata nella relazione prefettizia che, nel 2012, ha portato allo scioglimento per mafia del comune di Isola delle Femmine. Fra un incrocio e l’altro gli operai del gas hanno sistemato una centrale per la distribuzione del metano, un parallelepipedo di acciaio con un’avvertenza bene in vista: «Area in cui può formarsi un’atmosfera esplosiva». Molto sinistro.

Il «luogo della strage» è a qualche passo e non è in territorio di Capaci come sempre scriviamo – e per primo io – ma in territorio di Isola delle Femmine. In alcuni atti ufficiali, dopo ventinove anni, non viene più neanche richiamata la località dove Falcone è stato assassinato. Un’altra piccola rimozione. È Capaci, per tutti. Qualcuno obietterà che è un dettaglio irrilevante. Ma cosa c’è di irrilevante in fondo a quel cratere?

© Riproduzione riservata