La conferma di Emmanuel Macron per un secondo mandato di cinque anni alla presidenza della Francia è certamente, come l’ha definita il presidente del Consiglio Mario Draghi, un’ottima notizia per l’Europa.

Nonostante Marine Le Pen avesse fatto di tutto per camuffarlo, il programma della candidata del Rassemblement national rimaneva fondamentalmente euroscettico. Nella migliore delle ipotesi la Francia di Le Pen sarebbe stato un altro Regno Unito (o un’altra Polonia); nella peggiore, l’elezione di una figura euroscettica alla testa di uno degli stati fondatori dell’Ue avrebbe provocato una crisi sistemica. In entrambi i casi, il processo di integrazione europeo avrebbe conosciuto una battuta d’arresto significativa.

Macron, invece, ha sempre inscritto il suo progetto politico nel quadro europeo; dopotutto, ha scelto l’Inno alla gioia come colonna sonora della sua cerimonia di insediamento nel 2017 (mostrando coraggio in un momento in cui gli euroscettici avevano ancora il vento in poppa), e ancora, sia pure in maniera più sobria, quasi dimessa, il 24 aprile scorso, per festeggiare la sua rielezione.

Un bilancio europeo deludente

Ma qual è il bilancio europeo dei primi cinque anni di presidenza Macron? Nel 2017, l’ambizione del giovane presidente francese era di rimettere la Francia al centro dello scacchiere, facendo ripartire quel motore franco-tedesco che negli ultimi anni era stato a trazione (inerzia, piuttosto) tedesca.

Pochi mesi dopo l’inizio del suo mandato, nel settembre 2017, Macron ha illustrato il suo progetto per l’Europa in un discorso alla Sorbona. Ripercorrendo quel discorso, una sorta di manifesto che propugnava una maggiore integrazione per una Ue uscita a pezzi dalla crisi del debito sovrano, non si può che essere colpiti da tutto ciò che è rimasto lettera morta: anche limitandosi alla sola economia, i dossier su cui siamo fermi sono molti.

Si va dalla convergenza fiscale e sociale alla tassazione carbone alle frontiere, passando per la creazione di un bilancio e di un ministro delle Finanze dell’Eurozona e per la tassazione delle transazioni finanziarie.

Certo, anche grazie alla Francia, l’Europa non è stata immobile in questi anni, per molti versi sorprendendo in positivo nella sua reazione alla pandemia. E proprio Macron ha ispirato e fortemente voluto lo strumento più innovativo varato negli ultimi anni, il programma di investimenti europeo Next generation Eu. Tuttavia, si tratta di uno strumento temporaneo e al momento l’ambizione francese (e italiana) di trasformarlo in un embrione di capacità di bilancio comune si scontra con l’opposizione inflessibile dei paesi del nord Europa.

Le ambiguità di Macron

Insomma, contrariamente ai suoi predecessori, Macron sembra finora non essere stato capace di dare impulso a riforme sostanziali e di struttura della costruzione europea. Un interessante articolo apparso su Le Figaro qualche settimana fa spiegava questo fallimento con una sostanziale mancanza di comprensione dei meccanismi europei.

La concezione verticale e la personalizzazione del potere tipica del sistema presidenziale francese è stata spinta all’estremo da Macron (basti ricordare le allocuzioni a reti unificate che hanno scandito l’evolversi della pandemia). Questo ha portato la Francia ad agire troppo in seno al Consiglio (dove sono rappresentati gli stati) e a non lavorare sufficientemente con parlamento e Commissione; e cozza, secondo l’opinionista di Le Figaro, con il sistema orizzontale di poteri e contropoteri che caratterizza i processi decisionali europei, molto più simile al modello istituzionale tedesco.

In secondo luogo, la politica europea di Macron è stata per molti versi ambigua, perorando in alcuni ambiti (la difesa, la capacità di bilancio centrale) un’evoluzione in senso federale, ma chiedendo in altri (la politica della concorrenza, le regole di bilancio) più poteri e libertà per gli stati membri. Questo ha contribuito ad alimentare la diffidenza dei partner europei e a rendere meno credibile il programma riformista europeo del presidente francese.

Il ritorno degli egoismi nazionali

Cosa possiamo aspettarci, dunque, dal secondo mandato di Macron? Riuscirà l’Europa a dotarsi delle istituzioni che le consentano di far fronte alle sfide dei prossimi anni?

Cominciamo dai motivi per essere pessimisti. In primo luogo, il ritorno degli egoismi nazionali: dopo la parentesi della pandemia, l’Unione europea non sembra capace di ritrovare lo stesso spirito solidale nel gestire le conseguenze della guerra in Ucraina.

Una cosa è certa, in questa fase in cui abbiamo la guerra alle porte di casa: i prossimi anni saranno caratterizzati da forte instabilità geopolitica ed economica, che renderà molto più complessa la transizione ecologica e difficile da raggiungere l’obiettivo della sostenibilità sociale.

Ricomporre le differenze tra interessi nazionali divergenti sarà in questo contesto molto difficile. Ne abbiamo un esempio in queste settimane, con le discussioni sul futuro del Patto di stabilità che avanzano a rilento e con il rischio reale di una riforma solo cosmetica.

Un secondo motivo di pessimismo viene da oltre Reno. Come non ha funzionato quando era a sola trazione tedesca, l’asse Parigi-Berlino, imprescindibile per ogni riforma significativa in Europa, non può funzionare a sola trazione francese. Raffreddando gli entusiasmi di molti di noi, il governo tedesco sembra essersi ripiegato su se stesso, paralizzato dalle conseguenze della guerra in Ucraina e dalle divisioni della maggioranza che il cancelliere Scholz non sembra essere in grado di ricomporre.

L’impossibilità di prescindere dal quadro europeo

Ci sono tuttavia anche motivi per essere ottimisti. Il primo è più importante è che molte delle sfide che ci attendono, dal debito al finanziamento della transizione ecologica passando per il ripensamento delle politiche industriali o della tassazione delle società non possono, semplicemente non possono, essere affrontate dai paesi europei in ordine sparso.

In questo, la situazione è fondamentalmente diversa da quella che avevamo nel 2010, all’alba del decennio suicida dell’Ue. Forse è proprio dall’egoismo dei paesi europei, come da quello del macellaio di Adam Smith, che emergerà uno sforzo comune per far fronte a problemi comuni.

Un altro motivo di ottimismo potrebbe venire dallo stesso Macron. Nonostante i sospiri di sollievo, le élite francesi sono inquiete per un’elezione presidenziale che non è andata bene; un cambio di marcia si impone.

Macron ha insistito ieri più volte, durante la cerimonia di investitura, che a giurare è stato un nuovo presidente, che sarà differente nel metodo e nella sostanza; rimane da vedere se si tratta di una postura o di un cambiamento di marcia reale. Le elezioni legislative di giugno potrebbero ulteriormente spingere Macron a governare in Francia (e quindi in Europa) con metodi più consensuali, rendendo più facili convergenze e compromessi.

È impossibile prevedere se l’Europa troverà le risorse per riformarsi e per far fronte alle sfide dei prossimi anni, o se il volontarismo di leader come Macron o Mario Draghi (qualunque sia il futuro di quest’ultimo) rimarrà isolato, frustrato, e vittima delle proprie contraddizioni. Quello che è certo è che il futuro dell’Unione europea è in gran parte nelle mani di un presidente che inizia il secondo mandato senza poter beneficiare di una luna di miele, né con i suoi concittadini né con i partner europei.

© Riproduzione riservata