Se lasciata tra il candore delle pagine la letteratura è un oggetto inerte, ma se il lettore invece agisce dentro il libro allora anche questo universo inanimato può generare un nuovo immaginario. I personaggi animali nei libri sono l’emblema di una alternativa: l’idea che sia possibile guardare al mondo con occhi che recuperino la purezza dell’infanzia
- Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani, sullo sfogliatore online e in edicola.
James Hillman è stato uno dei più acuti indagatori della mente umana: erede dell'analisi junghiana e autore di libri di culto come Figure del mito o Puer aeternus, Hillman ha concentrato la sua attenzione anche sulla presenza simbolica degli animali all'interno dei sogni sottolineando come queste apparizioni oniriche rimandassero a un mondo lontano, ricongiungendo l'umanità alle origini della sua storia sulla terra: «la comparsa di un animale ci restituisce ad Adamo. Recuperiamo il primo uomo della caverna, seguendo le tracce dell'anima animale sulle pareti sotterranee dell'immaginazione».
Quando lessi per la prima volta queste righe mi colpì in particolare quel richiamo a un mondo così antico e la funzione mediatrice che hanno gli animali all'interno di questo viaggio nel tempo. Stavo lavorando sul libro di Hillman per un progetto di ricerca sulla presenza animale in una cerchia ristretta di autori del Novecento italiano, ma se quel progetto finì presto in un nulla di fatto, queste parole sono rimaste nella mia mente come un rovello ricorrente, anche per quello che l'analista diceva poco dopo, cioè che «il minimo che possiamo fare per queste apparizioni è dedicare loro quel primordiale rispetto che aveva l'uomo della caverna, il quale disegnava nell'oscurità, faccia alla parete».
Uscire dall’astrazione
Ma cosa significa portare rispetto ad apparizioni animali che hanno la forza misteriosa delle immagini più rivelatorie? Come uscire dalla risacca dell'astratto e dare un aspetto più concreto a questo difficile atteggiamento verso gli animali e, più in generale, ciò che ci circonda? Sono domande che non offrono soluzioni semplici nonostante sia davanti agli occhi di tutti lo squilibrio che vede l'uomo prepotentemente lanciato al controllo e al dominio di ogni angolo del mondo, guidato, o per meglio dire ossessionato, da quello che Anna Maria Ortese ha definito lo scopo «criminale» della sua intelligenza: «Tutto lo scopo (criminale ovviamente) dell’Intelligenza era invece questo: dichiarare e dimostrare la inferiorità, quando non la insensibilità assoluta, di queste famiglie minori. E il diritto, ugualmente assoluto, di dominazione e distruzione, e infinita degradazione che l’Uomo aveva su esse».
Se trovare risposte definitive a questi interrogativi non è forse possibile, è proprio l'urgenza di questi dubbi e il desiderio di poter agire in qualche modo che mi ha spinto a ricercare nella letteratura di ogni tempo (dalla Genesi alla narrativa contemporanea), le più diverse descrizioni e declinazioni del rapporto tra uomo e animale. Certamente non sarà la letteratura a risolvere la questione, ma proprio perché raccontare storie rimanda al mondo «primordiale» di cui parla Hillman e si tratta esattamente del gesto che l'umanità compie sin dalle sue origini per provare a spiegare ciò che la circonda, queste narrazioni possono offrire quantomeno una bussola per orientarsi tra le pieghe di questo rapporto complesso, sicuramente più vicino alle pagine impietose di Ortese che a quelle di Hillman.
Figure simboliche
Oltre che nei suoi scritti più o meno teorici, Ortese ha reso gli animali figure simboliche anche dei suoi romanzi e dei suoi racconti: nella sua feroce critica all'antropocentrismo, le cui idee distorte resistono anche nell'orizzonte di un'apocalisse totale («La fine del mondo? Uno degli scherzi dell’antropocentrismo. Non esiste escatologia che non consideri la permanenza dell’uomo come essenziale alla permanenza delle cose. Si ammette che le cose possano cominciare prima, ma non che possano finire dopo di noi»), trovano spazio infatti protagonisti come un'iguana, un puma o un cardellino dalla natura peculiare, esseri ibridi, a metà tra l'umano e l'animale, come Estrellita, una «lucertola gigante, ma vestita da donna» o l'uccellino protagonista del Cardillo addolorato Hyeronimus che testimonia la ricerca, destinata a fallire, della libertà e della felicità.
Questo particolare bestiario non è animato da una ricerca, spesso macchinosa, che indaga ciò che separa uomini e animali, ma si concentra invece sui possibili punti di contatto tra questi due mondi, sulla possibilità di uno spazio naturale libero da scale gerarchiche e di genere. Anche per questo gli enigmatici esseri zoomorfi di Ortese non si trasformano mai in creature totalmente immaginarie, non abbandonano mai il reale, ma affondano invece il loro sguardo e le loro azioni in un mondo in cui non si riconoscono e di cui soffrono le storture anche a causa di una fragilità congenita, quella che unisce gli animali agli esseri umani più vulnerabili.
Pur nella loro gracilità, queste creature diventano nelle storie di Ortese pioniere di una nuova relazione rispettosa verso fiori, piante e altre animali, ciò che la scrittrice chiama le «piccole persone», utopica immagine di un atteggiamento che l'uomo, concentrato sulle proprie ossessioni di comando, ha perso, ma anche commoventi emblemi di una nuova possibilità di futuro.
Essere riconosciuti
In Alonso e i visionari, il romanzo più estremo di Ortese, il protagonista è un puma dell'Arizona, uno dei «figli piccoli di pace» i cui occhi, desiderosi di affetto e di riconoscimento, sembrano «supplicare di essere riconosciuti» mentre l'uomo lo condanna a vagare negli «immondezzai alimentati dalla cultura dell’Utile e della Felicità». Sorprendentemente vicino all'architettura di questa storia è il libro dello scrittore americano Henry Hoke, Alla gola (tradotto da Valentina Maini per Mercurio), una sorpresa alimentata dai molti elementi in comune (un puma come protagonista che vaga in uno spazio devastato dall'umanità) nonostante la distanza temporale e culturale che li separa, segno di una riflessione che, in maniera diversa, unisce gli spiriti più sensibili di ogni tempo.
«Non ho mai mangiato una persona ma oggi potrei farlo»: con queste parole si apre il libro di Hoke e il monologo del puma protagonista che vive nel luogo simbolo del desiderio di grandiosità umana e della costruzione di bugie, le colline di Hollywood devastate da un clima desertico che rende difficile la sopravvivenza («scendo nel burrone / asciutto dove un tempo scorreva molta acqua / e mangio insetti e succhio piccoli rivoli per / smorzare la sete / ora ho bisogno che arrivi l'acqua dal cielo). Il carattere eccezionale di questo libro è legato al modo originale con cui è narrata la storia, scandita da una prosa che scivola tra frasi brevi e l'assenza di punteggiatura, riuscita imitazione di una voce sconosciuta, quella di un animale: Hoke infatti decide di raccontare tutta la vicenda attraverso lo sguardo e le sensazioni del puma protagonista che osservando ogni giorni i turisti e gli escursionisti che scalano la collina, ascoltando le loro parole e studiando i loro gesti inizia a pensare e osservare il mondo con uno sguardo ibrido simile a quello delle creature di Ortese, a metà tra la genuinità animale e uno sguardo molto più materiale dettato dai suoi incontri quotidiani.
La situazione precipiterà quando un incendio distruggerà la collina costringendo il puma protagonista a cercare un nuovo luogo in cui vivere («l'unico futuro è il fuoco» glossa), una Los Angeles dove avvertirà un richiamo nuovo, quello di una civiltà in frantumi che lo risucchierà verso la tragedia finale.
Il segreto
Ciò che impressiona di questo libro è proprio la lingua che riesce a rendere quella che il filosofo Jacques Derrida, in un libro emblematicamente intitolato L'animale che dunque sono, ha definito «l'alterità assoluta» dello sguardo animale. Cosa vuol dire avvicinarsi a questa alterità lo raccontano anche alcuni scrittori italiani che hanno provato a saggiare il senso di questo alfabeto sconosciuto, tentando cioè di mettersi nei panni degli animali per raggiungere il segreto di un rapporto con la natura nuovo, libero dalle prepotenze umane.
Gianna Manzini, una scrittrice troppo poco celebrata e di cui in quest'anno ricorre il cinquantenario della morte, ha corteggiato il segreto della voce animale in Arca di Noè, in cui racconta del suo «innamoramento» verso gli animali e del «mistero» che questi portano con sé: «Ogni animale è una forma e un significato splendidamente raggiunto. Ed io penso che i loro visi siano così ben modellati dal di dentro a causa delle parole che hanno continuamente anelato: tanti segreti mantenuti, tanti ragionamenti mai articolati. È nell'intensità della loro espressione che ognuno di noi trova uno speciale silenzio, uno speciale spazio».
Questa relazione può anche diventare l'occasione per sondare le domande ultime dell'esistenza umana, come accade nel romanzo d'esordio di Bernardo Zannoni I miei stupidi intenti, dove attraverso un mondo simbolico abitato dallo sguardo degli animali protagonisti (la faina protagonista Archy e l'indimenticabile volpe Solomon, uniti da una relazione che ricorda le forme più luminose del rapporto tra maestro e allievo) lo scrittore si interroga sulla violenza delle vicende umane, sulla lotta per la sopravvivenza e su come sia proprio l'umanità, che in questo libro si nasconde dietro le fattezze animali, a creare il male perché in fondo «il mondo non odia nessuno».
Ma questa indagine sul rapporto tra esseri umani e altri animali può costruire anche percorsi in cui l'attenzione non è posta solo sul carattere misterioso di queste presenze, ma anche su cosa potrebbe succedere se tutto dovesse andare male, se l'umanità non fosse in grado, come sta già accadendo, di sopravvivere pacificamente sulla terra e a rimanere fossero solo gli animali. Questa declinazione, che trova nella fantascienza o nella letteratura post-apocalittica terreno fertile per le sue speculazioni, offre la possibilità di sondare territori sconosciuti, creando mondi distopici immersi in dissesti o vere e proprie apocalissi ecologiche, dove l'ordine della società è distrutto per sempre.
L’immaginazione
Si inserisce in questo orizzonte L'abolizione della specie dello scrittore tedesco Dietmar Dath (pubblicato da Nero con la traduzione di Paola Del Zoppo con la collaborazione delle sue allieve Elena Germani, Marta Pacciani e Beatrice Sensini), una storia ambientata in un mondo completamente diverso dal nostro, dove la supremazia dell'essere umano è stata superata da nuovi organismi che sono, appunto, un miscuglio tra umani e animali.
La vicenda raccontata da Dath, che si muove in un arco temporale che supera un millennio, ricorda le vicende di fiabe e favole rimaste impresse nella nostra mente sin dall'infanzia, racconti in cui ogni animale è portatore di un preciso valore simbolico: la nuova era, quella del Regno della Gente che segue il fallimento di quella umana (emblematicamente chiamata “Età della Noia”), è governata infatti da un leone coadiuvato da una sorta di ministro delle finanze che è un'astuta volpe, un lupo è il più feroce e straordinario guerriero e una principessa ha invece le fattezze di una lince. In queste pagine quindi, dove gli umani sono scomparsi perché «avevano fatto affidamento sulla loro casa, ma quella non aveva retto», il lettore scorge le possibilità di una nuova vita dove si mescolano esseri umani e animali, nuove creature che non sprofondano negli errori e nelle prepotenze della storia passata.
Ma Dath aggiunge a questa storia un carattere nuovo, una fluidità nei cambiamenti che concede ai personaggi la possibilità di continue metamorfosi potendo mutare il loro corpo, il loro genere e addirittura il loro stato, muovendosi tra il concreto e l'astratto. Non siamo però tra le pieghe della letteratura fantastica, quella che offre metamorfosi meravigliose dettate da elementi esterni (come la ragazza-capra di uno dei libri più immaginifici del Novecento italiano, La pietra lunare di Tommaso Landolfi o gli esseri a «malapena immaginabili» di un altro funambolo della letteratura del secolo scorso, Juan Rodolfo Wilcock) ma dentro il concetto di “abolizione” che campeggia nel titolo: L'abolizione della specie è infatti il tentativo di costruire un mondo futuristico dove ognuno può scegliere di essere ciò che vuole («penso che per cambiare sarò qualcosa che il mondo non ha ancora visto» si legge nel libro), è un grido di liberazione rispetto alle maglie strette delle identità precostituite, è l'opposto assoluto di un'umanità, come quella superstite nel romanzo che continua negli errori sociali ed economici che hanno portato alla distruzione di un mondo intero, che non è riuscita a sopravvivere.
In questo senso la distopia di Dath si trasforma in un'utopia, nel sogno di una società che, secondo le parole di Del Zoppo, «riflette sulle possibilità del mondo contemporaneo, ma progetta un mondo in cui valga la pena vivere anche a costo dello sterminio degli esseri umani», un inno al riscatto dell'immaginazione.
Mistero animale
Ritornando alla domanda iniziale, cioè come si possa ritrovare quel «primordiale rispetto» verso gli animali di cui parla Hillman, è difficile dire quanto questi libri possano migliorare il nostro stare al mondo, come possano plasmare nel nostro pensiero nuove forme di esistenza e trasformare il nostro rapporto con ciò che ci circonda. L'emergenza ambientale è sotto gli occhi di tutti e la letteratura se lasciata tra il candore delle pagine è un oggetto inerte che non offre alcuna nuova possibilità di pensiero e azione.
Ma se il lettore invece agisce dentro il libro, completa e processa i suoi significati, allora anche questo universo inanimato può generare un nuovo immaginario e una differente possibilità di vita. «Nell’incedere di una instancabile e martellante violenza che striscia come un fuoco su tutta la terra», sono sempre parole di Ortese, i personaggi animali di questi libri sono l'emblema di un'alternativa, l'idea che sia possibile ancora guardare al mondo con occhi che recuperino la purezza dell'infanzia, quel gioco divino che «si mischia pazziando col toro demente e scandaloso della morte» come scrive Elsa Morante nella Canzone dei Felici Pochi e degli Infelici Molti.
Così, forse, potremo ricongiungerci all'uomo della caverna e alle tracce animali che costellano la storia dell'umanità, riscoprire la sorpresa di domande che rimarranno sempre senza risposta ma per le quali avremo inaspettati compagni, portatori di una natura altra e preziosa, come in Domanda udita in un sogno di Wilcock che ammanta il momento finale dell'esistenza di un mistero animale, come se fossero proprio questi esseri che parlano una lingua a noi sconosciuta a poterci rivelare i segreti più profondi: «Come sarà la morte? / Vedere una tigre di ferro che ti salta addosso / e non credere ti possa toccare?».
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