Cibo è il nostro inserto mensile che racconta il mondo attraverso ciò che mangiamo. Esce l’ultimo sabato di ogni mese sulla app di Domani e in edicola. In ogni numero svisceriamo un tema diverso con articoli, approfondimenti e commenti: il tema del numero di questo mese è come si salvano i ristoranti. Qui troverete man mano tutti gli altri articoli di questo numero. In questa pagina, invece, tutti gli altri articoli di Cibo, che è anche una newsletter gratuita. Ci si iscrive a questo link.


Siamo in un ristorante nel centro di Milano, sono le 11 del mattino. Il personale inizia il turno di lavoro: si avviano le cotture più lunghe, si discute del menù, si preparano la sala e il dehors, si riforniscono i frigoriferi di vini e bevande, si apparecchia. Qualcuno sbadiglia, altri si specchiano sull’acciaio della cucina: volti stanchi, occhiaie. La macchina del caffè non si ferma, qualcuno apre una Red Bull. Alle 12:30 la porta si apre: cominciano le danze. Professionisti in pausa pranzo ordinano in fretta, famiglie, gruppi di amici. Raccontare il menù come si ripete un mantra: usiamo tutte le parti dell’animale, solo verdure di stagione provenienti dalle cascine fuori città, vini naturali, amari fatti da noi. Tenere tutto a mente: al tavolo 8 c’è un intollerante al lattosio, al 12 un intollerante al glutine, il 14 aspetta da troppo tempo, serve subito un antipasto di cortesia per scusarsi. Piatti bollenti, pesanti, due per mano. «È andato tutto bene? Grazie, tornate presto». Battere scontrini, ringraziare, sorridere, offrire un amaro alla prugna.

Restano meno di tre ore prima del turno serale. Una cameriera prende la metro fino al capolinea, riesce a sedersi a chiude gli occhi. Una volta a casa, le resta giusto un’ora prima di dover uscire per il turno della sera. Chi abita troppo lontano resta al ristorante, sdraiato dove può, tra i tavoli già pronti ad accogliere nuovi clienti. A mezzanotte l’ultimo tavolo paga il conto; poi una sigaretta, una birra, due chiacchiere, la stanchezza che cala. Si sono fatte le due, e stanchi si aspetta l’autobus sostitutivo, i piedi fanno male. Solo allora, nel letto, si crolla.

Turni e criticità

Luca (nome di fantasia), oggi fuori dal settore, racconta di aver lavorato a lungo tra locali e bar, compresi due anni in uno speakeasy di fascia alta che spesso collaborava con ristoranti in corsa per la stella Michelin. «La realtà era la stessa ovunque: turni infiniti, orari ingestibili e retribuzioni che non coprivano neanche lontanamente le ore effettive», spiega. Molti colleghi arrivavano da scuole di cucina private da 15, 20, anche 30mila euro l’anno, ma finivano comunque sottopagati, spesso con contratti di apprendistato da mille euro al mese.

Il tempo non è mai davvero tuo: se i clienti decidono di trattenersi oltre l’orario di chiusura, non li puoi mandare via, a rischio di recensioni negative. I turni si dilatano senza soluzione di continuità tra pranzo e cena, cancellando ogni spazio per la vita privata. Ore in piedi con scarpe inadatte, in ambienti dove l’immagine conta più del benessere dei lavoratori. «È un lavoro che ti consuma», racconta Luca, «ti lascia troppo stanco per qualsiasi altra cosa, fagocitando perfino i progetti personali o lo studio».

La percezione esterna non aiuta: molti considerano il lavoro in sala o in cucina “facile”, privo di professionalità. È anche per questo che gli stipendi restano bassi, e la turnazione alta. In realtà, servono competenze specifiche e formazione, ma la convinzione che “chiunque possa farlo” alimenta la precarietà. I contratti a termine convengono ai datori di lavoro: dopo un certo numero di rinnovi scatterebbe l’indeterminato, e pochi vogliono o possono assumersi questo impegno. La stagionalità peggiora la situazione: d’estate si assume a pieno ritmo per i turisti, d’inverno si taglia. Chi lavora per quattro o sei mesi si ritrova a vivere di disoccupazione.

Il lavoro nel settore della ristorazione è usurante: gli orari non hanno mai un limite chiaro, e i diritti vengono spesso aggirati. Il settore si regge sull’impiego di giovani disposti a stipendi bassi, creando un circolo vizioso di precarietà. Ma non è solo una questione economica: l’aspetto psicologico è altrettanto centrale. Essere impiegati in un ristorante significa lavorare quando gli altri godono del proprio tempo libero, una caratteristica fondante del mestiere che a lungo termine può diventare alienante.

Il non detto

In questo contesto, cibo e bevande diventano “compenso” implicito: i salari bassi vengono giustificati con i pasti sul posto di lavoro, come se si trattasse di un benefit, quando dovrebbe essere un diritto. Poi c’è il grande non detto: l’enorme consumo di sostanze per reggere i ritmi di lavoro. Alcol e soprattutto cocaina, carburanti per affrontare turni infiniti. Secondo una ricerca di RestWorld, il consumo di cocaina nel settore riguarda il 36 per cento del personale di cucina, il 35,3 per cento di sala e il 28 per cento del bar, colpendo in particolare la fascia 25-39 anni (84,5 per cento degli intervistati), con una maggiore incidenza fra gli uomini.

Silvia Sergi, che ha lavorato in quattro ristoranti stellati, racconta: «Mi è capitato di fare turni dalle 9 del mattino alle 2 di notte, con mezz’ora di pausa. Conservo ancora le buste paga completamente inventate. Il massimo è stato 92 ore in una settimana, di cui pagate solo 40». Anche Lisa Piccolo, con dieci anni nell’alta ristorazione, conferma i limiti strutturali del settore: «Sulla carta i contratti sono da 40 ore, nella pratica si lavora sempre tra le 50 e le 60, senza contare le ore extra per ordini, turni e organizzazione interna. Il vero nodo è l’orario spezzato: se sulla carta il turno è 11-15 e 18-24, in realtà capita che i clienti restino fino alle 17:30. In mezz’ora non riposi, non stacchi». Uno chef de partie che lavora in un ristorante tre stelle Michelin e che preferisce rimanere anonimo aggiunge: «Vivo per lavorare, non lavoro per vivere. Purtroppo, le 16 ore di lavoro al giorno mi rubano la vita. Non ho tempo per me, per i miei familiari, per i miei amici, per pulire casa: per niente che non sia il lavoro».

Piccolo non giustifica l’uso massiccio di cocaina, ma lo comprende: «È quasi una conseguenza naturale di turni infiniti e ritmi insostenibili». E denuncia un altro aspetto: gli imprenditori improvvisati. «Investono nella ristorazione senza conoscere il mestiere, trattandoci come se fosse un lavoro semplice, senza rispetto per la professionalità».

A questo si aggiunge un paradosso economico: mangiare fuori ha un costo sempre più elevato, eppure i margini di guadagno che permetterebbero di risanare il settore, garantendo migliori condizioni di lavoro, non aumentano. I ristoratori affrontano costi in continuo aumento: bollette, affitti e materie prime sempre più care, mentre i clienti hanno meno potere d’acquisto. Se alzi i prezzi, perdi pubblico; se tagli la qualità o il personale, comprometti l’esperienza. Il fine dining è il segmento più esposto: i costi aumentano, ma la clientela disposta a pagare resta confinata a un’élite. Non sorprende che il 2024 abbia registrato 19.000 locali chiusi, il peggior dato dell’ultimo decennio.

Le soluzioni

Eppure non mancano tentativi di inversione. Alcuni ristoranti scelgono di ridurre gli orari o chiudere nei weekend, ribaltando la logica tradizionale: Trippa a Milano ha introdotto la chiusura nel fine settimana, Sandì ha deciso di aprire solo a pranzo e di tenere le serrande abbassate martedì e mercoledì. Diversi bistrot parigini lavorano solo la sera, mentre in Scandinavia molti stellati hanno adottato la settimana corta, con quattro giorni di servizio intensivo e tre di riposo. In Spagna, alcuni locali hanno abolito il turno spezzato — pranzo e cena — concentrando tutta l’attività su un unico servizio per evitare doppi rientri del personale, e anche negli Stati Uniti sono sempre più diffusi i ristoranti “dinner only”, che sacrificano il volume per garantire ai lavoratori ritmi più umani.

Un altro tentativo di dare vita a un ambiente di lavoro più sano e orizzontale è quello che promuove il “rostering trasparente”: i turni vengono pianificati insieme ai dipendenti, che hanno voce sulle proprie disponibilità, e vengono garantiti almeno due giorni liberi consecutivi. In Giappone, dove l’orario esteso è spesso la norma, alcune izakaya di nuova generazione hanno scelto di aprire solo cinque sere a settimana, un gesto controcorrente in un mercato ipercompetitivo.

Anche in Italia emergono piccole scelte di rottura: osterie che chiudono per ferie lunghe rivendicando la necessità di un tempo di recupero, oppure trattorie che decidono di non accettare più gruppi numerosi, riducendo gli incassi potenziali ma alleggerendo la pressione sulla cucina e sulla sala. Alcuni ristoratori hanno introdotto il concetto di “giornata di staff”: un giorno al mese interamente dedicato alla formazione interna o a pranzi collettivi, senza clienti, per rafforzare lo spirito di collaborazione e ridurre il logoramento.

Il bivio

Si tratta ancora di esperimenti isolati, non privi di rischi economici. Ridurre i coperti significa anche ridurre gli incassi, e non tutti i ristoratori hanno margini per permetterselo. Ma il messaggio che arriva da queste esperienze è chiaro: la qualità non coincide solo con la raffinatezza di un piatto, ma anche con le condizioni di lavoro e di vita di chi lo prepara e lo serve.

D’altronde il fine dining – un tempo considerato il vertice aspirazionale della ristorazione – sembra attraversare una fase di disincanto. L’ossessione per i piatti-scultura, le degustazioni interminabili e i prezzi vertiginosi hanno perso parte del loro fascino, soprattutto presso un pubblico che oggi cerca esperienze più autentiche, conviviali e accessibili. Non è un caso che serie come The Bear o film come The Menu abbiano portato al centro del dibattito proprio la fragilità del modello fine dining: la cultura nevrotica e spesso violenta delle cucine di alto livello che richiedono ai lavoratori un sacrificio totale del proprio tempo e della propria salute mentale. Carmen Berzatto, protagonista di The Bear, incarna in modo paradigmatico questa tensione. Giovane chef formatosi nei migliori ristoranti stellati del mondo, è oppresso dall’ossessione per la perfezione, la disciplina feroce, la difficoltà a separare il lavoro dalla vita privata.

Il suo ritorno a Chicago, per salvare la modesta paninoteca di famiglia, diventa il pretesto narrativo per raccontare il conflitto tra due modelli: da una parte la cucina esasperata dell’alta ristorazione, dall’altra il desiderio di costruire un ambiente di lavoro più sano, umano e collaborativo. Ma il passato lo tormenta: i flashback mostrano le umiliazioni subite in brigata, le notti insonni, il peso delle aspettative. Quando prova a costruire una relazione sentimentale, il lavoro si insinua fagocitando tempi ed energie. La serie mostra con chiarezza come il successo professionale, in questo settore, possa coincidere con la solitudine e con un logoramento psicologico che non verrà mai ricompensato dai successi gastronomici di critica e pubblico, sempre insufficienti perché sempre insufficiente è una vita dove il lavoro non è un mezzo, ma un fine.

Oggi, il settore della ristorazione pare trovarsi davanti un bivio. Arroccarsi su un modello fondato su precarietà, orari massacranti e pressione psicologica, o avviare un cambiamento che riconosca dignità e professionalità a chi lavora in cucina e in sala. La chiusura di migliaia di locali negli ultimi anni racconta che la prima strada non è più sostenibile. La seconda richiede un cambio di prospettiva, non solo da parte degli imprenditori della ristorazione, ma anche da parte dei clienti. Forse il vero lusso, in futuro, non sarà cenare in un ristorante stellato o uscire a cena tre volte a settimana, ma sapere che dietro al piatto che si ordina al ristorante c’è il lavoro di persone i cui diritti non vengono lesi in nome di un sistema che fa acqua da tutte le parti.


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