Un tempo c'era la macedonia o la fetta di ananas. Oggi ordinare un piatto di frutta al ristorante è pressoché impossibile. Anche nelle case il calo dei consumi è drastico. Tra le motivazioni, deperibilità, zuccheri in eccesso, scarso appeal nel fine dining. In Alto Adige però rispondono con il sommelier della mela. E c’è chi la serve alla brace
- Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
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Che sia un menù alla carta o un menù degustazione difficile trovare in pagina la parola “frutta”. Tutt’al più può spuntare come ingrediente in qualche sofisticata ricetta che ne prevede l’uso. Il prodotto invece non c’è: la frutta al ristorante è sparita. I nati fino agli anni Novanta del secolo scorso hanno fatto in tempo a ordinare una macedonia, una fetta di ananas o delle fragole. Con un certo gusto del vintage, forse, ancora compare nei menu dei matrimoni, dopo l’ultimo secondo e prima del dolce.
Per il resto la sua assenza nei locali è solo il riflesso di quanto accade nelle case: secondo l’Ismea – Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare – i consumi di ortofrutta in Italia sono in calo. Il Crea – Consiglio per la Ricerca in Agricoltura e l’Analisi dell’Economia Agraria – aggiunge le cifre: secondo un’indagine effettuata nel 2023 si consumano in media 166 grammi di frutta – e verdura - al giorno. Gli anziani tengono alta la media (310 g/die) a differenza degli adulti (194 g/die) e degli adolescenti (146 g/die). Si è ben lontani dai 400-500 grammi considerati la porzione ideale giornaliera secondo l’Oms. Anzi, il 52 per cento degli italiani rimane su una/due porzioni al giorno, mentre il numero ideale sarebbe cinque.
Il sommelier della mela
Il voltafaccia della ristorazione non ha aiutato la frutta a essere più attraente. Altro destino sembra favorire il segmento delle verdure che vivono da anni un maggiore successo grazie a diete vegetariane e vegane: carciofi, melanzane, zucchine, tra le mani di un qualche noto chef, acquistano dignità. Non si può dire lo stesso per mele e pere. Come spesso accade nella comunicazione, il brand fa la differenza e il comparto dell’ortofrutta fatica a trovare chiavi di valorizzazione del prodotto.
In Italia un lavoro fatto bene in tal senso è quello dell’Alto Adige con le mele e in particolare con il Consorzio Vog - Consorzio delle Cooperative Ortofrutticole dell’Alto Adige – undici cooperative che mettono assieme oltre 4mila produttori e che rappresenta la più grande organizzazione per la commercializzazione delle mele in tutta Europa. «Quando si parla di mela dobbiamo considerare il frutto più consumato nel paese», spiega Hannes Tauber, responsabile marketing di Vog, «e sebbene l’alta cucina non sia mai stata un canale di consumo prioritario, resta comunque un momento centrale: è lì che le persone sperimentano».
«Ecco perché», continua Tauber, «abbiamo investito su due progetti. Il primo, Chef in Camicia, pone una domanda semplice: in quale piatto la mela non ci sta? La risposta è stata sorprendente perché non esiste un piatto in cui la mela non possa essere integrata. La sua versatilità è enorme, è un frutto disponibile tutto l’anno, con tante varietà diverse per gusto, consistenza, dolcezza, acidità. L’altro format si chiama “Sommelier della Mela”: partito nel 2022, si tratta di un percorso formativo con 80 ore di corso per approfondire caratteristiche organolettiche, abbinamenti, uso in cucina e comunicazione del frutto. Oggi abbiamo più di 40 sommelier della mela».
Il paradosso
Rendere la frutta più cool potrebbe essere una delle soluzioni. Di certo legarla esclusivamente all’ambito salutare non ha portato grandi vantaggi. E a dirlo non è solo l’esperto altoatesino ma anche la nutrizionista Francesca Deriu, biologa specialista in Scienze dell’alimentazione che pone l’accento su come, negli ultimi anni, si è diffusa una certa diffidenza verso la frutta. Sempre più persone, influenzate dalle mode alimentari e dal marketing, la percepiscono come un alimento da evitare a causa degli zuccheri che contiene: «A dominare la scena è infatti il cibo proteico», spiega Deriu, «l’idea che le proteine siano sempre salutari ha portato al proliferare di prodotti confezionati arricchiti con proteine, spesso ultra processati e ricchi di additivi o dolcificanti artificiali. Il messaggio che passa è semplice: tutto ciò che è proteico va bene, tutto ciò che contiene zuccheri è dannoso, senza considerare che la frutta, al contrario, è un alimento naturale, ricco di benefici: contiene fibra, che limita il famoso “picco glicemico” tanto temuto, e che allo stesso tempo nutre la flora batterica intestinale, fondamentale per il metabolismo e la digestione».
Dal cesto della frutta pare sia sparito anche il concetto di “buono”. La vendita al chilo, anziché al pezzo, contribuisce all’idea che conti più la quantità che il valore. E qui entra in gioco la logica dei grandi numeri come spiega Massimiliano Del Core, imprenditore agricolo pugliese e presidente di Ortofrutta Italia, l’organizzazione interprofessionale italiana che rappresenta l’intero settore ortofrutticolo nazionale.
Sul fronte delle cifre, Del Core ricorda che circa il 75-80 per cento del comparto passa attraverso la grande distribuzione: «Chi compra sono cinquanta gruppi e chi offre sono cinquemila produttori: non c’è proporzione», sottolinea l’imprenditore, «la conseguenza è che il prezzo non sempre restituisce al produttore una marginalità adeguata e la deperibilità dei prodotti amplifica le difficoltà. Questo squilibrio tra domanda concentrata e offerta frammentata rende complicato anche il lavoro di comunicazione sul prodotto».
Da pugliese e produttore di ortofrutta nel sud Italia Del Core fa un’osservazione interessante, quella della valorizzazione della frutta e della verdura italiane in contesti turistici e ricettivi. «Neanche in Puglia», spiega, «regione tra le più produttive a livello nazionale insieme alla Sicilia, le masserie e gli alberghi riescono a dare giusta enfasi alla frutta italiana».
Alla brace o in risotto
Il paniere frutticolo di Igp e Dop è piuttosto carico – se ne contano all’incirca una quarantina – e probabilmente non sfigurerebbe sulle tavole dei ristoranti, ma il tema della veloce deperibilità (e quindi dei costi di scarto elevati) rimane centrale per un ristoratore. Lo sa bene Alessandro Pinton, chef del ristorante Horto di Milano che di frutta ne usa parecchia: «La vera difficoltà è il tempo. Quando le ciliegie sono perfette hai due settimane, se va bene. In quel varco strettissimo devi raccogliere, lavorare, pensare. È il primo motivo per cui tanti colleghi la evitano, la frutta non perdona».
Da giugno ha messo in carta un risotto alle fragole coltivate a pochi chilometri da Milano, a Torri d’Arese dove c’è l’azienda Gli Orti di Elisa e Michele: 25mila piantine di fragole in idroponica: «La sfida», spiega lo chef, «era quella di rendere contemporaneo un piatto che grida anni Ottanta, ma la ricetta è anche un omaggio a Angelo Paracucchi che nella sua Trattoria dell’Angelo, a metà anni Settanta, preparava piatti come il risotto al melone, le capesante allo zenzero, il branzino con l’anguria».
Chi ha trovato un altro modo di mettere la frutta in tavola è Manuel Marzano, chef di Losko, locale milanese che mette quasi tutto sulla brace, anche la frutta: «Per me che sono salentino è normale, in estate in particolare, avere tantissima frutta fresca da lavorare. A patto però che sia della giusta maturazione, ricca di polpa e succo. Solo così puoi lavorarla sulla griglia: così scopri che l’albicocca sviluppa sia acidità che dolcezza, la prugna solo acidità, il melone cantalupo invece diventa una marmellata. E non devi aggiungere nient’altro».
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