«La domanda è: come sarebbe Milano senza Leoncavallo? Se riuscissero a mandarci fuori, cosa costruirebbero a via Watteau: un ambulatorio popolare? Un asilo nido? No, ci sarebbe un complesso residenziale da decine di migliaia di euro al metro quadro. Perché Milano continua a buttare fuori le persone più fragili in nome della speculazione edilizia».

Enrico ha 23 anni e ci tiene a ricordare il valore sociale di uno spazio che permette a tutti «di esistere senza necessariamente consumare». Dal 1994, anno in cui il Leoncavallo - 50 anni di storia antagonista - si è trasferito nel quartiere Greco, la zona ha cambiato faccia. «Oggi via Watteau vale miliardi e l’amministrazione stende un tappeto rosso ai Cabassi, proprietari dell’immobile, che a Milano hanno già guadagnato cifre stratosferiche. In città i centri sociali hanno perso la battaglia sulle aree dismesse: sono tutte messe a profitto dagli immobiliaristi», dicono Laura e Marco di La Terra Trema, progetto che si svolge da 20 anni al Leoncavallo. Lo sfratto è atteso per domani e, anche se sperano in un ulteriore rinvio, gli attivisti invitano tutti a un presidio resistente. Non solo lo sfratto: sulla presidente delle Mamme del Leoncavallo pendono i 3 milioni di euro con cui il ministero dell’Interno intende rifarsi per il risarcimento alla società proprietaria dell’immobile a cui è stato condannato. La storia del Leo è strettamente connessa a quella dei movimenti che hanno attraversato gli anni ‘80 e ‘90, quella di «una generazione non più disposta ad accettare una città disegnata dalle grandi società immobiliari a misura dei propri profitti».

Qui Roma

Come scrivevano gli occupanti nel 1989 nel volantino che indiceva un corteo nazionale dopo il primo, violento, sgombero. E che ritroviamo tra le pagine de Il cerchio e la saetta (Fandango), libro che ripercorre gli anni fondativi dei centri sociali romani. Storie simili, ma nello stesso tempo diverse, perché ognuna si è nutrita della specificità del quartiere in cui è nata e a cui è stata sempre strettamente connessa.

Una storia longeva che ci porta dall’85 fino a oggi, perché alcuni sono ancora vivi, altri hanno permesso la nascita di comitati di quartiere come quelli che si sono ritrovati con scope e palette a ripulire villa De Santis dopo l’esplosione del distributore gpl.

L’autore è Fabrizio C., senza cognome, perché nei centri sociali il cognome non si usa: ci si conosce come Gianni del Forte Prenestino, Maria della Torre, Cristina di Pirateria e così via. La sua non è, quindi, una scelta di anonimato, quanto di appartenenza. Una storia raccontata perché, come ha sempre detto Supporto Legale, il collettivo che ha lavorato sui processi legati al g8 di Genova e di cui fa parte Fabrizio, «la memoria è un ingranaggio collettivo». Come scriveva un non ancora famoso Zerocalcare nel 2002. Eppure, i centri sociali hanno sempre fatto molta fatica a raccontarsi, ad autorappresentarsi.

La narrazione corale

«Una contraddizione evidente - scrive Fabrizio - in un’epoca in cui l’autonarrazione è diventata quasi un’ossessione, un rituale quotidiano alimentato dalle piattaforme social e dai media. Siamo così concentrati nel costruire e condividere il nostro personale racconto da perdere di vista storie più grandi, quelle collettive». Così Il cerchio e la saetta, va a riprendere quelle storie, perché non si sciolgano come lacrime nella pioggia, perché meritano di essere preservate, come quelle della resistenza. Per farlo Fabrizio ha usato il racconto orale, inserendosi in una tradizione che è quella di Sandro Portelli, ma anche di Nanni Balestrini e Primo Moroni, poi raccolta da Marco Philopat per il suo Costretti a sanguinare, sulla storia punk del Virus di Milano.

«Fabrizio ha scelto di lasciare tic linguistici e imperfezioni. Tanto che conoscendo i personaggi, mi sembra di sentirli parlare», dice Zerocalcare durante la presentazione de Il cerchio e la saetta. La data è quella dell’11 luglio, esattamente 30 anni dopo lo sgombero del centro sociale romano La Torre, avvenuto proprio dove è stata ospitata la presentazione, ovvero Villa Farinacci. Un incontro che si è trasformato in narrazione corale dove si sono susseguite tante delle voci presenti nel libro. «C’è guerriglia in cima a via Rousseau e arrivano da tutta Roma», cantano gli Assalti Frontali in Devo avere una casa per andare in giro per il mondo, in cui raccontano anche di quello sgombero che trasformò, nel 1995, La Torre nel “Leoncavallo romano”. «Il primo sgombero di un centro sociale completamente filmato da un collettivo video: la Fluid Video Crew», scrive Fabrizio. Subito montato venne proiettato la sera stessa: prologo di quello che fu il “mediattivismo” e che portò a esperienze come Indymedia e le street tv.

L’eroina

Ma cosa ha spinto quei giovanissimi attivisti romani a rischiare di essere arrestati per proteggere uno spazio occupato? Partendo da questa domanda Il cerchio e la saetta ripercorre un decennio che inizia nel 1985, con un nuovo movimento studentesco. «Venivamo dagli anni ‘70 e i primi anni ‘80 furono gli anni della grande repressione. Fare qualsiasi tipo di attività politica era estremamente difficile, se non impossibile», racconta Gianni del Forte nel libro. L’idea di occupare arriva dalle esperienze del nord Europa. La necessità, come raccontato, da più protagonisti, era quella di «ricomporre, rimettere insieme tante soggettività».

Roma era in una continua espansione edilizia a cui, però, non corrispondeva quella dei servizi. Una generazione di proletari si ritrovò a reclamare spazi e lo fece occupando luoghi abbandonati, togliendoli dal degrado e prendendosene cura, facendoli rivivere in un fiorire di attività rivolte, sin da subito, ai quartieri. E aprendo la sua personale battaglia contro l’eroina.

Foto di Gianfranco Giombini

«Non volevamo fare la rivoluzione, volevamo stare solo un po’ meglio», scrive Philopat ne La banda Bellini. «Non si produceva solo cultura ma si sperimentava un modo nuovo di fare politica. Una politica che nasceva da un’esigenza aggregativa, che non rinnegava le categorie e i valori del passato ma li reinterpretava adeguandoli a esigenze e bisogni nuovi. Parlavamo di conflitto sociale inteso anche come strumento per affermare nuovi diritti. È in quel contesto che nacque l’idea di “bene comune”», dice l’avvocato Fabio Grimaldi.

Un ruolo determinante l’ha giocato subito la musica; ogni centro sociale aveva una sala prove e un palco aperto. La musica e la festa si mischiano alla politica, diventando esse stesse atto politico. Il punk, con la sua cultura del Do it Yourself diede la stura per l’autoproduzione che toccò punte altissime. Poi arrivò il movimento universitario della Pantera che: «Ruppe con l’individualismo e l’indifferenza tipici del decennio precedente, creando una nuova socialità basata sulla condivisione e sull’autogestione. La musica, i graffiti e le posse irrompono nella scena. Il 3 febbraio 1990 un gruppo di giovani si prende il palco della manifestazione nazionale studentesca conclusasi a piazza del Popolo».

Arrivò Onda Rossa Posse e il suo Batti il tuo tempo, fu il primo disco rap cantato in italiano. Le posse saranno capaci «di bucare il mainstream pur non volendo starci dentro in nessun modo. Così come accadrà più avanti con la cultura rave». E non furono solo «un fenomeno musicale, ma il manifesto di una generazione in cerca di nuovi strumenti». Quella raccontata da Fabrizio C. è, così, anche la storia di un movimento fatto di continue sperimentazioni nel campo della comunicazione, da Radio Onda Rossa a Indymedia, dalle fanzine alla “rivoluzione del fax” della Pantera.

Ma è anche la storia del rapporto, sempre conflittuale, di quel movimento con le istituzioni e il centrosinistra. Pur dividendosi tra astenuti ed elettori di Rutelli, nelle elezioni amministrative del ‘93 furono determinanti con la loro campagna per non votare Fini. La foto della stazione di Bologna e la scritta: «Come ripuliscono le stazioni i fascisti non le pulisce nessuno», è il manifesto impresso nella memoria. Ci sono poi le varie delibere per l’assegnazione degli spazi. L'obiettivo dei cs era quello di garantire continuità ai progetti sociali e allontanare lo spettro degli sgomberi. spazi a semplice valore sociale o economico, perpetuando un errore che da quarant’anni confonde la funzione militante e conflittuale con quella assistenziale. Quando è invece fondamentale riconoscere e valorizzare la funzione politica autonoma degli spazi sociali», scrive Fabrizio nel libro. «Sono passati 30 anni dalla promessa di Rutelli: "non faremo come al Leoncavallo" ma a Roma i centri sociali che hanno fatto richiesta di assegnazione stanno ancora aspettando».

Disegno di Zerocalcare

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