Tommaso Labranca disse che se Enzo Jannacci fosse nato a Roma le cose per lui sarebbero andate diversamente, si sarebbe imposto a livello nazionale, ma che, essendo milanese, purtroppo finì invece col rivelarsi un buon esempio di come Milano spesso non sappia tesaurizzare i propri beni. Al di là delle capacità di Roma e Milano, nei secoli, di fare tesoro delle proprie bellezze, in che modo dare ragione a Labranca, considerando che se Enzo Jannacci fosse nato a Roma non sarebbe stato Enzo Jannacci?

La mia esperienza della sua canzone ha a che fare, prima che con la musica, il suo apprendimento e la passione per forma canzone stessa, con una lingua primordiale, qualcosa che precede l’alfabetizzazione, anticipa ogni grammatica e si discioglie nel liquido postamniotico della parola della casa, vale a dire proprio di quel lessico familiare che, lo sappiamo, include sì la lingua parlata e scritta, ma pure i gesti, gli spazi condivisi, gli odori, i suoni, finendo con l’investire tutti e cinque i sensi, da quel momento pronti a istituire, uno per uno, alcune precise nostalgie che verranno.

Lessico famigliare

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Mia madre, milanese, nasceva a metà del maggio del ’57 in un ospedale della città, nelle stesse ore in cui il giovane Jannacci si esibiva al primo Festival italiano del rock’n’roll con i Rock Boys, la band di Adriano Celentano che, di lì a poco, sarebbe stato messo sotto contratto. Ho sempre letto questa coincidenza affidandomi alla lente del pensiero magico, finendo col considerare questa venuta al mondo di mia madre a Milano, come strettamente connessa al primo fiorire, dunque a una nuova nascita, nello stesso luogo e tempo della storia, di uno dei più straordinari talenti espressivi della città.

Il motivo è semplice: è precisamente dalla parola, dalla voce di mia madre che la canzone di Jannacci mi raggiunge fin da quando sono molto piccola, mostrandomisi nel quotidiano da una prospettiva specifica e obliqua, che è quella dell’intercalare, dell’espressione che si fa modo di dire, che incarna cioè l’esigenza specifica di dire regolarmente qualcosa, quella cosa, nel momento in cui la vita si manifesta in un certo modo, quel modo. Attraverso un’azione o un gesto da compiere, nel luogo della ricezione di un’immagine o di un racconto, che si trattasse cioè di riporre i calzini asciutti nell’armadio (“T’ho compraa i calzett de seda cun la riga nera…”) o di iniziare a raccontare una storia (“Quel che sunt drè a cuntav l’è ona storia vera…”) mia madre, che non era stata abituata a parlare dialetto milanese in famiglia, sceglieva la parola milanese di Enzo Jannacci e la utilizzava come fosse un inciso inserito nella nostra lingua familiare.

Sia l’intercalare che l’inciso in musica coincidono, sono cioè sinonimi di ritornello, cosa che fa dunque di loro non solo due parti di un discorso, ma l’elemento chiave anche del discorso musicale in canzone. Nel caso dell’approdo di Enzo Jannacci nella mia vita, insomma, come non mai la parola della canzone si è traslata e si è fatta parola del discorso, come non mai i ritornelli hanno coinciso con degli intercalari pronti a tornare nuovamente ritornelli di canzoni con la mia effettiva scoperta della musica di Enzo Jannacci una volta cresciuta, cioè durante adolescenza.

Un affresco ricco e spietato

Il disco dell’incontro si intitola, tanto didascalicamente quanto con chirurgica precisione, La Milano di Enzo Jannacci, è uscito nel 1964 per la Jolly ed è stato ristampato in edizione meno pregiata dalla Joker nel 1971; è un album che nella sua prima stampa è impreziosito da una nota di copertina sul retro scritta da Luciano Bianciardi, in quel momento fresco del successo del suo La vita agra, uscito due anni prima, e con al petto quindi puntata ben salda l’ideale controversa medaglia della milanesità acquisita, adatta a impastarsi a quella concentrata nel disco di Jannacci attraverso i suoi personaggi, i suoi protagonisti. Se La vita agra è l’autobiografia disperata di un emigrato a Milano che deve fare i conti con le spietatezze e le infelicità imposte della città delle promesse, le donne e gli uomini di Jannacci sono, per chi ascolta, incarnazione di una natura viva, cioè umana, milanese: gli arti umani della città, di una Milano sospesa tra l’esplosione del Boom e il detonare del Movimento.

Al centro della scena ci sono cioè donne e uomini che non hanno una lira, giovani che vanno al lavoro in bicicletta ma iniziano a prendere il treno per non essere da meno della ragazza che vogliono conquistare, conosciuta all’ombra della catena di montaggio, qualcuno è disposto ad andare persino a Como in moto e tornare a Milano a piedi per avere anche un solo basin (un bacino); c’è poi quello che impazzisce per amore e ne implora gridando il ritorno, quello con le scarpe da tennis che il suo sogno d’amore, invece, lo rincorre da tempo, un altro che aspetta col mal di piedi sotto casa della Lina e perde l’ultimo tram 31 restando a pensarla geloso mentre lei è di sopra, a casa con Gino il barbiere, ricco a differenza sua, e poi ancora qualcuno così innamorato da accompagnare felice e sornione la propria donna a prostituirsi e che, mentre gli altri lo deridono e lui deride loro, costretti a lavorare tutto il giorno, compra per lei calze di seta sexy.

L’affresco è ricco e spietato, mutua l’immaginario della mala, ne corona qualche storia già scritta e già cantata da altri prima, si muove al centro, tra Franco Fortini e Giorgio Strehler, racconta una città per estremi umani ma senza mai farne una caricatura, la popola nella sua espressione vitale strettamente popolare facendola muovere, orbitare lungo tutta la grande ragnatela della planimetria cittadina: Rogoredo, Forlanini, Linate, piazza Beccaria, i Navigli, la Breda, Baggio, solo per citare alcuni punti cardine sulla mappa.

A distanza di quasi sessant’anni, questo disco, consegnato alla storia perlopiù in lingua milanese, pur risultando sulla carta come un tableau vivant di un tempo preciso e di una specifica Milano lontanissima che oggi fa fatica a parlare ai suoi nipoti, finisce col mostrarsi, nei fatti, come sospeso fuori da ogni tempo, qualcosa che è possibile quindi includere in ogni presente della città come un’esperienza artistica essenziale per conoscerla, entrare in confidenza con lei.

L’espansione sonora

Giorgio Gaber ed Enzo Jannacci (LaPresse)

Il racconto di Milano in musica, da quel 1964, non si è mai fermato e accanto al nucleo degli autori degli anni Sessanta ha col procedere della storia incluso tantissimo di diverso: non solo quindi Vanoni, Gaber al Giambellino o Celentano al derby del Meazza, non solo la Milano 1968 delle Orme, o quella di poco prima cantata da Paoli in cui non crescono i fiori e gli innamorati non sanno dove dirsi parole romantiche, non solo la Milano nella voce e nelle storie di altri immigrati cantata da Ciampi o Conte ma anche quella umana e monumentale di Fortis, quella di Dalla sospesa tra Germania e Sicilia, ma anche quella di frontiera cantata da Fossati, quella della Vetra Platz dei Chrisma/Krisma, quella col fiato corto di Cesare Basile e quella in cui piove a dirotto raccontata da Andrea Cola; la Milano antica della Boxe vista da qui, scritta da Pacifico, quella che ha attraversato tutta la discografia degli Afterhours, dalla circonvallazione esterna fino a quella con la peste dell’ultimo Agnelli solista, e poi ancora quella di Endrigo, Concato, quella di Berté e quella dei Casino Royale, quella tutta in Ticinese cantata dai Coma Cose, quella di Marracash, di Ghali, di Mahmood, di Myss Keta quella della più e meno nuova scena rap, che mentre la scrivo, da qualche parte a San Siro ne sta nascendo un’altra ancora.

L’espansione sonora di Milano è come Milano stessa, impossibile da arrestare, al punto che viene da considerare che quanto a narrazione in canzone il capoluogo lombardo possa vedersela solo con Napoli per quantità e storica multiformità. A ciò si va ad aggiungere la stratificazione del racconto, l’identità multipla della città che da quel Jannacci in poi - lui incluso, certo - è emersa dalla canzone milanese, un’identità fluida anche lei come noi che la abitiamo, un nuovo, altro tableau vivant continuo di noi che per abitarla abbiamo sempre così bisogno di chiederle la famigerata narrazione di sé stessa, necessitiamo di vederla scritta, ripresa, suonata, descritta, noi che abbiamo bisogno della profezia come del quadro e che allora, oggi, siamo diventati le corrispondenze contemporanee di quei tizi che Jannacci cantava, e abbiamo sostituito la catena di montaggio della Breda con nuove infami forme dell’essere operai, stanchi, alienati, alla ricerca di qualcosa.

E allora viene da immaginare a quale Milano, oggi, potremmo idealmente o materialmente passare nel linguaggio pregrammaticale ai figli del presente e del futuro, a che ne sarà, strato dopo strato, di un’idea di canzone milanese da rendere seguito di quella di quel disco del 1964. Esiste cioè oggi qualcuno che canta questa città e che non potrebbe proprio esistere così com’è se non venisse da Milano? Non esiste, non può esistere, Milano oggi contiene la storia di ieri, contiene Jannacci e come contenne nord e sud, oggi contiene i suoni del mondo, la Tunisia, l’Africa, l’Ucraina che cerca riparo, e così rifonda ogni giorno la sua lingua di domani, anche quella che entra ed esce dalle canzoni, tenta lo sconfinamento continuo, pur conservando, lo sappiamo, da qualche parte una grana magica antica che è la stessa che, forma dopo forma, di Milano si canta da sempre: qualcosa capace di contenere stupore, eccitazione al pensiero del nuovo e del domani, in altre parole le orecchie in ascolto (del tuo cuore, città).

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