Odiava agosto, le vacanze, l’idea per lui incomprensibile insita nel desiderio di ciascuno di noi lasciare la città per una qualsiasi altra destinazione. Non ne faceva una questione di mare o montagna, città d’arte o divertimentificio.

Semplicemente non contemplava l’ipotesi che ci potesse essere, in agosto, un posto migliore al mondo del McDonald’s di piazza Oberdan a Milano.

Infatti è morto ad agosto.

È chiaro che si tratta del suo ultimo sberleffo.

Nel 2016, il 29 mattina molto presto mi arriva una chiamata dal suo cellulare: non mi sorprendo del tutto, Tommaso Labranca dorme poco, è sempre indaffarato in decine di lavori soprattutto traduzioni o consegne di articoli che lui chiama “alimentari” perché gli consentono di vivere. Tra questi c’era un pezzo sulla scomparsa dell’estate  che gli avevo commissionato per la rivista Linus. Lo aveva consegnato nei tempi giusti, come sempre, ma poteva aver avuto un ripensamento.

Ma se il numero apparso era il suo la voce al cellulare era quella di una donna che mi avverte con un tono più che concitato che Tommaso è morto, che la sera prima non si sentiva bene, che non aveva voluto chiamare nessuno e che questa mattina non rispondeva al telefono «così sono andata da lui e l’ho trovato a letto, senza vita».

Era la voce della sorella che avvertiva ad uno ad uno gli ultimi numeri che comparivano nella rubrica chiamate del suo cellulare.

Maître à penser

Conoscevo Tommaso da metà anni Novanta, lo vedevo nelle sue prime collaborazioni televisive a Tele+ mentre il suo nome stava circolando sempre più velocemente a Milano grazie al passaparola generato da un paio di libri pubblicati per Castelvecchi che rompevano la tradizione del saggio paludato e pensoso per mettere in circolo ragionamenti raffinatissimi applicati a categorie non precisamente da intellettuale.

Una rivoluzione che fu percepita fin da subito come tale e grazie alla quale Tommaso divenne Labranca, maître à penser di una generazione che avendo letto più Fantozzi che Proust non aspettava altro.

Proprio su Fantozzi trovammo un codice comune di comunicazione che ci accompagnerà durante gli alti (pochi) e i bassi (frequentissimi) della nostra lunga frequentazione: ad un certo punto ci eravamo messi in testa di pubblicare un Dizionario Italo/Fantozzi di cui effettivamente scrivemmo un paio di lemmi. L’impresa parve disperata anche a noi e la abbandonammo, come quasi tutto.

Quando mi misi a lavorare ad un progetto televisivo che aveva l’ambizione di raccontare gli anni Settanta attraverso gli occhi di un bambino e non delle forze dell’ordine, mi venne naturale chiedere a Tommaso se aveva voglia di farne parte. Fu come trovare un giacimento d’oro: depositato dentro Tommaso c’era tutto lo scibile possibile del pop ( che allora non si chiamava così) televisivo, radiofonico, cinematografico, discografico.

Io che mi piccavo di essere un cultore della materia e di saper citare a memoria i nomi dei componenti del gruppo Homo Sapiens venni travolto da una quantità di citazioni di nomi sconosciuti o solo sfiorati e in una girandola di relazioni che teneva insieme El Pasador (per chi avesse curiosità credo che Google possa soddisfarla) e Gloria Piedimonte, la “Guapa” della celebre (come sopra) hit discografica di Gianni Boncompagni.

Ma non c’era solo il gusto della raffica di citazioni, Labranca sapeva per ciascun protagonista trovare una collocazione in grado di soddisfare anche il nostro cotè intellettuale. Grazie a lui  finalmente potevamo parlare di quello che ci piaceva senza sentirci deficienti.

L’esperienza di Anima mia, questo era il titolo di quel programma fu eccessiva in ogni senso: un pieno di audience, di consenso, una conferma del ruolo centrale che Labranca occupava nella discussione sul prodotto culturale del suo tempo.

Ma soprattutto ci divertimmo, esagerando puntata dopo puntata a scovare oggetti o personaggi sempre più marginali e quindi, secondo il nostro punto di vista malato assolutamente indispensabili. Ricordo l’autentico dolore che Fabio Fazio provò alla notizia che non si era trovato “il braccio del Vim Clorex”, ovvero la persona il cui arto era stato usato per il carosello della nota polvere sanificante a base di cloro attivo.

Lo cercammo dappertutto il titolare di quel braccio muscoloso, ma senza riuscire a scovarlo. Ad un certo punto pensammo anche di usarne uno finto, ma  la nostra irreprensibile deontologia delle cazzate ce lo impedì.

Fu una grande sconfitta per Fabio, che con Tommaso cercammo di lenire rintracciando in Svezia l’attrice che aveva interpretato Pippi Calzelunghe: al suo ingresso in corso Sempione nella sede Rai di Milano scattammo tutti  in un applauso lunghissimo e riconoscente.

Ad Anima mia Labranca strinse un rapporto con Orietta Berti che durerà tutta la vita e che produrrà tra le altre cose anche un libro delizioso e definitivo La vita secondo Orietta.

Allibiti

Ma Tommaso aveva la riconosciuta capacità di azzerare in un attimo la propria condizione di privilegio, come se si sentisse inadeguato o come se avvertisse che in quella condizione lui era al posto giusto, ma gli altri meno. In ogni caso, l’inciampo era sempre dietro l’angolo: una discussione, una battuta sgradevole, un vero e proprio litigio lo allontanavano o lo facevano allontanare, salvo improvvisi ritorni, in genere sbagliati.

Nel 1999 infatti tornammo sul luogo del delitto televisivo riproponendo la fortunata coppia Fazio–Baglioni, ma mettendola questa volta al servizio di un progetto tanto ambizioso quanto velleitario: catalogare un secolo per consegnarne il ricordo a quello successivo.

Vaste programme, sul quale inevitabilmente inciampammo senza mai trovare/ritrovare quel clima di magia condivisa che aveva caratterizzato Anima mia.

Di Ultimo valzer titolo mai così chirurgicamente profetico mi resta un “disegno da riunione” fatto da Tommaso: una serie di faccine attaccate, sovrapposte i cui sguardi attraversano tutte le sensazioni di quelle riunioni preparatorie in cui già era chiaro il disastro verso cui si andava con ingordigia.

Faccine con sguardi vitrei, supplici, arresi, rassegnati, con un lampo di ironia, amareggiati, stanchi: quel foglio A4 Tommaso me lo regalò, firmandolo datandolo e dandogli un titolo magistrale: “Gli allibiti”

Eravamo noi, nell’unica descrizione possibile.

Abbiamo continuato a frequentarci, ad intermittenza. Avrei voluto averlo con noi in un’altra avventura televisiva, ma questa volta non se ne fece nulla e non per colpa sua.

Così continuavamo a sentirci, in una fase nuova dei nostri rapporti che definirei il periodo “Paperopoli” nel quale ci si appellava solo con nomi che sarebbero potuti appartenere al bestiario di Paperone & co.

Ero leggermente sovrappeso in quegli anni e quindi trovavo molto azzeccato il nome che aveva scelto per me: “De suinis”.

E in genere il muso di un simpatico porcello campeggiava sulla dedica che immancabilmente mi faceva all’uscita di ogni suo libro (lo dico per inciso, ma mi aspetto che l’intera bibliografia di Labranca venga recuperata per permettere a gemme preziosissime di raggiungere il numero maggiore possibile di lettori).

Intanto le discussioni intellettuali si erano spostate ancora e ora vertevano sul film Il vedovo, capolavoro di Dino Risi e Alberto Sordi, di cui lui era peraltro massimo cultore avendolo visto credo 7.3000 volte e avendo autopubblicato un saggio Progetto Elvira, dissezionando IL VEDOVO ( e almeno su questo porrei l’obbligo di lettura).

Malinconia

Foto LaPresse - Claudio Furlan 04/08/2017 Milano ( IT ) Strade deserte a Milano nella prima domenica d agosto Nella foto: Via Santa Margherita

Irascibile, rissoso, carissimo Tommaso.

L’aggettivo che aggiungo io è malinconico. E a sostegno di questa tesi uso le tue parole per descrivere la fine dell’estate che infatti hai scelto per lasciarci:

«Quando le scuole iniziavano ad ottobre si poteva godere di una sensazione duplice: nei pomeriggi sempre più corti ci si doleva per la prossima fine dell’indolenza mattutina e allo stesso tempo ci si eccitava al pensiero di cosa avrebbe portato il nuovo anno. Avevamo lasciato le aule con le albicocche e ci tornavamo quasi come le castagne.

L’estate era passata, addio, alla prossima. Adesso non ti accorgi nemmeno che è iniziata, forse non c’è più, ma loro mettono sale sulla ferita togliendo l’ora legale solo a fine ottobre, falsando i crepuscoli e cancellando la sana malinconia settembrina.»

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