Il prestigioso riconoscimento è stato assegnato alla memoria a papa Francesco. Carlo Musso, coautore della biografia, ha lavorato sei anni per realizzare quello che è stato definito “il segreto editoriale meglio custodito della storia”. «Il libro è il suo ultimo dono. Francesco ci appare per come è sempre stato: vicino, fratello e padre, compagno di viaggio, mai irraggiungibile»
Il premio è stato conferito alla memoria a papa Francesco e consegnato ieri 7 maggio a Milano a Musso, coautore dell’opera.
Premio del popolo e dei lettori, il Bancarella è uno dei più prestigiosi riconoscimenti letterari italiani, è stato conferito negli anni a Ernest Hemingway, Boris Leonidovič Pasternak, Isaac Bashevis Singer, Oriana Fallaci, Alberto Bevilacqua, Carlo Cassola, Umberto Eco, John Grisham, Ken Follett, Michael Connelly, Andrea Camilleri, Elizabeth Strout.
Come nel caso dell’assegnazione della prima edizione a Ernest Hemingway per Il vecchio e il mare, il riconoscimento speciale viene in questa occasione conferito a Spera per acclamazione.
Musso, qual è il senso ultimo di quest’opera storica: la prima autobiografia di un papa nella storia moderna?
Papa Francesco cita nel libro una poesia di Hölderlin, che termina con le parole: «Possa l’uomo portare a compimento la promessa del bambino che è stato». È un programma che ha bisogno di tutta una vita. Ecco, credo che le pagine della sua autobiografia, un lavoro che abbiamo condiviso per sei anni, testimonino che Jorge Mario Bergoglio, figlio di migranti italiani scampati al naufragio, nato a Flores, un quartiere operaio di Buenos Aires, il 17 dicembre 1936, e morto in Vaticano, come Papa Francesco, il 21 aprile del 2025, c'è riuscito: ha portato a compimento la promessa del bambino, e poi del ragazzo e del giovane uomo che è stato.
Ma l’autobiografia non è per nulla la sua celebrazione personale, e meno che mai la sua agiografia, tanto che racconta anche le sue fragilità, le difficoltà. Non è un libro “per sé” ma un libro “per gli altri”. È il suo ultimo dono, invece, il suo lascito, e Francesco ci appare per come è sempre stato: vicino, fratello e padre, compagno di viaggio, mai irraggiungibile. Ci lascia la sua eredità.
In questi anni di lavoro hai avuto modo di incontrare da vicino Francesco.
È stata una straordinaria esperienza. Umana innanzitutto. Fin dal principio colpiscono la sua semplicità e umiltà, che sono innanzitutto volontà e capacità di entrare autenticamente in relazione.
Il senso dell’umorismo, anche, e pure l’autoironia («Se vuoi fare in modo che non si debba ridere di te domani, fallo tu stesso oggi», dice nel libro). È stato a lungo un lavoro segreto – «il segreto meglio custodito dell’editoria mondiale», ha scritto un media americano – perché l’uscita era stata prevista dopo la sua morte. Poi il Giubileo dedicato alla speranza, che è il filo di cui tutta la narrazione è intessuta, è stata l’occasione per anticipare la pubblicazione.
Qual è la storia più sorprendente contenuta nel libro?
La notizia di un duplice tentativo di attentato nei suoi confronti nel corso del viaggio in Iraq nel 2021, conclusosi con la morte degli attentatori. Si tratta di fatti di cui per quattro anni nessuno aveva avuto notizia, e che in breve hanno fatto letteralmente il giro dei media di tutto il mondo.
Vengono poi rivelate storie drammatiche dell’adolescenza, come quelle del compagno delle superiori che ammazzò un suo amico con la pistola del padre (e dopo il carcere minorile si suicidò) o del ragazzo problematico di cui da giovane si prendeva cura, che un giorno uccise la madre con un coltello. Sono anche le prime esperienze di Jorge Bergoglio con il mondo del carcere, che poi sarebbe diventata attenzione costante anche nel corso del pontificato, davvero fino all’ultimo.
C’è il racconto intimo della zia “barbona” che condusse a lungo un’esistenza randagia e solitaria, o quello, davvero magnifico, della prostituta di Flores che alla fine della sua vita diventa una “Maddalena contemporanea” e si dedica alla cura dei vecchi che non interessano a nessuno. O molti variopinti racconti legati al barrio dell’infanzia, a volte teneri o esilaranti. È davvero una spremuta di vita, con la sapienza di chi non l’ha guardata sfilare dal balcone, ma l’ha attraversata fino in fondo.
Ma il senso di tutto, e di tutte le vicende personali raccontate, è quello di affrontare i temi centrali che hanno caratterizzato l’intero pontificato, e che rappresentano anche le sfide più importanti per il futuro: il ripudio della guerra, l’urgenza della cura della casa comune che è la Terra, l’attenzione alle periferie geografiche ed esistenziali, la giustizia, la fraternità, l’oggi e il domani della Chiesa.
Come immaginava l’evoluzione del papato?
Nell’autobiografia Francesco dice di sognare un papato sempre più di servizio e di comunione, che serve tutti, che serve a tutti, e insieme una Chiesa in grado di crescere nella creatività e nella comprensione delle sfide della contemporaneità, di aprirsi al dialogo: «Una Chiesa chiusa, spaventata, è una Chiesa morta», dice.
Perché secondo te questo papa è stato molto amato anche da chi non è credente o ha un’altra fede?
Perché gli è stato riconosciuto di essere “credibile”. Una merce che appare piuttosto rara anche nei leader mondiali. Sono la sua credibilità e anche il suo coraggio – la chiarezza e intransigenza nelle battaglie per la pace e per la dignità umana – che hanno fatto di lui un punto di riferimento per “gli uomini e le donne di buona volontà”, senza distinzioni.
Penso che a questo aspetto abbia senz’altro contribuito pure la sua formazione in una famiglia comune, e in un barrio multiculturale e multietnico, dove il giovane Jorge è cresciuto con un’educazione cattolica, autentica e popolare, ma avendo rapporti di amicizia e buon vicinato anche con famiglie di altre confessioni, protestanti, ebrei, musulmani, e pure con agnostici o atei.
Se durante la sua malattia così tanta gente in tutto il mondo ha trepidato per lui, se una folla gigantesca ha partecipato alla sua cerimonia funebre, è perché lo hanno riconosciuto come una moneta autentica, spesa per gli altri. E ci dice anche un'altra cosa quella folla: che il respiro cortissimo, il cinismo o peggio ancora la brutalità che troppo spesso paiono dominare la nostra comunicazione così come la politica sono qualcosa in cui milioni di persone non vogliono riconoscersi.
È anche per questo che la sua autobiografia è un fenomeno globale?
Così come la sua attenzione per il mondo, anche l’amore nei confronti di Francesco si è rivelato universale. L’autobiografia è pubblicata o in corso di pubblicazione in 110 Paesi e in 32 lingue, fino all’hindi, al tamil, al curdo, all’arabo, al coreano.
È sempre stato un uomo molto determinato, che si è sottoposto anche fisicamente a fatiche molto dure, senza risparmiarsi, nemmeno quando le condizioni si sono fatte più difficili, o drammatiche; perché «il Papa si fa così», diceva a chi gli raccomandava di riguardarsi. Avevo ricevuto una sua telefonata il giorno prima del ricovero al Gemelli: «Sto facendo una flebo, sono ancora vivo», mi aveva detto, con la consueta garra argentina e senza perdere il suo umorismo neanche in quelle condizioni.
Nella mattinata del giorno dopo avrebbe iniziato la sua durissima esperienza in ospedale: il respiro era enormemente affaticato, a volte pareva respirasse acqua, eppure ancora un’ora prima del ricovero non ha voluto rinunciare a incontrare il primo ministro della Repubblica Slovacca, Robert Fico, per parlare della guerra in Ucraina e della gravissima emergenza umanitaria a Gaza.
Cosa pensi che succederà adesso?
Preferisco non dilettarmi in quello che chiamano “toto-Papa”. Certo le 400.000 persone che si sono radunate a Roma da ogni parte per il suo funerale rappresentano inevitabilmente un’indicazione forte. E lo saranno comunque, perché lo stesso Francesco amava ricordare che «Chiesa non sono solo i preti, che non siamo che l’1 per cento».
L’eredità che il Papa consegna non riguarda solo il Conclave, che pure ovviamente è questione importante, e non è solo una “predica”: Francesco ha testimoniato la fede e insieme ha saputo indicare percorsi “pratici”, prassi, modalità di soluzione e trasformazione. Non ha avuto paura di prendere posizione testimoniando che il silenzio può essere complice e che è nell’indifferenza globalizzata che si compiono i crimini di oggi. È qualcosa che rappresenta un grande insegnamento.
Riguarda tutti. Ha ricordato che la vita è una lotta, non un affare per ignavi. È stato un lottatore ed è morto “con gli stivali ai piedi”, che nel suo caso erano scarpe ortopediche consunte, e come muoiono i profeti. Accade ai profeti che la loro testimonianza, le loro parole, acquistino con la distanza ancora più evidenza invece di scolorire. Per questo penso che il suo magistero, così come questa sua autobiografia, è qualcosa che sarà compreso e valorizzato ancora più a pieno nel corso dei mesi, degli anni.
© Riproduzione riservata