Ci sono situazioni e battute, nell’opera genialmente comica di Mel Brooks, che oggi non si potrebbero più proporre. Melvin Kaminsky, d’altra parte, è nato sul tavolo della cucina della sua famiglia a Williamsburg, Brooklyn, nel 1926 e anche questo, al giorno d’oggi, coi tempi che corrono e le norme igieniche stringenti, sarebbe piuttosto impresentabile.

Nella sua biografia del 2019, Funny Man, Patrick McGilligan definiva Brooks «un uomo che non ti aspetti di trovare da nessuna parte, ma che sei felice di avere sempre in mezzo alle scatole». E questo ha molto a che fare con l’umorismo assurdo, fuori contesto e scompigliato che in 95 anni di vita e settanta di carriera è diventato il suo marchio di fabbrica, espressione abusata, ma che ben si accompagna all’esteta, studioso dell’intrattenimento e amante dei sandwich elaborati e dei cocktail semplici che è Brooks.

«Quando fai la parodia di qualcosa, la realtà viene messa da parte», scrive nella sua nuova autobiografia, Tutto su di me!, e smarca un tema fondamentale per la comicità: se la realtà non è comica, che senso ha rispettarla? Il reale, il presente, è fondamentale come sponda, come contesto e come mezzo per comprendere il materiale con cui si deve lavorare.

Senza conoscere il proprio tempo non si può pensare di arrivare all’età di Brooks con ancora abbastanza spazio di manovra per cominciare a pensare, dopo quarant’anni dal primo, al secondo capitolo della Pazza storia del mondo (1981).

Per il resto, però, della realtà si può fare a meno. Possiamo facilmente credere che un tipo piuttosto basso con l’espressione furba e un forte accento yiddish sia in vita da duemila anni se la battuta arriva con la giusta convinzione. «Bisogna dare l’illusione della realtà», scrive Brooks in proposito. «Non cacciarla dentro a forza». 

E il rapporto tra la realtà e la fantasia, tra il tangibile e l’assurdo, tra l’accettabile e il completamente astruso, è stata la spina dorsale della sua comicità dagli esordi a oggi.

Esistere per lo show

In una carriera agognata e assaporata fin da ragazzo Brooks ha messo letteralmente la sua vita. Folgorato dalla voce di Ethel Merman, che cantava You’re the Top a Broadway, giurò a se stesso che sarebbe diventato parte dello show business o esistere non avrebbe più avuto alcun senso.

Ha cominciato a esibirsi sotto le armi sul fronte francese, dove era impegnato durante la seconda guerra mondiale. Ha proseguito negli anni Cinquanta sui palchi dell’ormai tramontata Borscht Belt – quel complesso di resort signorili sparsi per i monti Catskill, a nord dello stato di New York, frequentati dalle famiglie ebree borghesi che d’estate volevano sfuggire alla calura della metropoli –, prima di approdare alla televisione come autore di Your Show of Shows di Sid Caesar.

«La prima cosa che ho scritto», dice, «è stata una lettera a mia madre dal campo estivo che frequentavamo io e mio fratello: Cara mamma. Mi manchi. Mandami delle gomme da masticare. Tuo figlio, Mel». Non è un granché come prima prova, ma contiene indubbiamente il seme della musicalità essenziale di ciò che sarebbe venuto.

Il tempo della comicità

Il senso comico, per Brooks, è scandito formalmente come il ritmo da una batteria, primo grande amore. Il suo pseudonimo deriva dal fatto che sulla cassa non ci stesse tutto il cognome della madre, Brookman, con il quale avrebbe voluto farsi conoscere.

La battuta ha un suo momento: il ride che esplode secco e deciso all’apice di un tappeto ritmico in salita. E così, anche nei momenti in cui non esiste una vera e propria punchline, battuta finale, la perfezione metrica induce la risata.

In Frankenstein Junior (1974), film della maturazione cinematografica e culto assoluto, Marty Feldman, nei panni di Igor, porta l’esempio perfetto di questa ricerca sonora: «Non dimenticherò mai cosa diceva sempre mio padre in momenti come questo», comincia per consolare Gene Wilder – oltretutto, coautore della sceneggiatura – che interpretava lo sventurato dottor Frankenstein. Si ferma, si distrae, ammutolisce. Passa qualche secondo di silenzio e Wilder incalza: «Cosa diceva?».

«Esci dal bagno! Lascia che possa usarlo qualcun altro!». Non c’è una vera e propria battuta, ma il nonsense improvviso scoppia nel silenzio imbarazzato e dà vita a uno dei momenti più esilaranti del film.

In italiano la battuta è completamente cambiata, probabilmente proprio perché non se ne trovava il senso, a riprova che non basta inventare un “lupo ululì” per rendere giustizia a un capolavoro.

Il ritmo comico non è qualcosa che si possa improvvisare e nemmeno una dote innata. Nel caso di Mel Brooks deriva da un’esistenza votata alla ricerca e alla ripetizione, spesso privata, delle lezioni apprese.

Nato per far ridere

Il periodo con Sid Caesar, segnato da numerose quanto furiose litigate con i compagni di scrittura, furti riparatori ai danni dei colleghi e qualche rissa, ha rappresentato una specie di battesimo del fuoco e la maturazione della consapevolezza di essere nato per far ridere, ma di doverlo fare per se stesso e a modo suo. Al di fuori dei canoni imposti e dalle esigenze altrui.

E così, proprio come quando appena finita la guerra, di stanza in Germania, sfidò il rigore militare per inserire nei suoi spettacoli intrattenitori tedeschi, che potevano essere ex nazisti o meno, ma della qual cosa a lui non importava nulla purché facessero ridere.

L’ascesa comica di Brooks è stata un susseguirsi di decisioni irrevocabili e clandestine, prese senza badare al giudizio altrui e disattendendo apertamente le imposizioni di finanziatori, produttori, censori e recensori. Il suo vangelo era, ed è ancora, la risposta del pubblico: «Se ridono, sto facendo bene».

Con l’amico di una vita Carl Reiner passavano ore a intrattenersi a vicenda, alimentando un calderone di materiale del quale al pubblico è arrivata solo una minima parte (The 2000 Year Old Man, che potrebbe bastare) perché della maggioranza hanno fatto un tesoro privato, nato per loro e che con loro morirà.

Con la moglie Anne Bancroft, unica persona con la quale è sempre stato completamente sincero, era un continuo scambio di opinioni personali e professionali, film esaltati e bocciati, copioni strappati e rincollati, pacche sulle spalle e metaforici scappellotti.

Con Wilder hanno messo alla prova la pazienza e la lungimiranza dei grandi produttori, continuando imperterriti a seguire una strada nella quale nessuno credeva.

Fare sempre di testa propria

Oltre che Frankenstein Junior, che assolutamente non poteva essere in bianco e nero ma che alla fine lo è stato, The Producers (1968), nel quale Wilder non poteva stare ma che alla fine lo ha visto protagonista e ha procurato a Brooks un Oscar, e Mezzogiorno e mezzo di fuoco (1974), film del quale, mentre veniva scritto – in seguito a un dibattito infinito con il coautore Richard Pryor – Wilder prevedeva a malincuore una fine disonorevole, tra i progetti incompiuti: «Per mia esperienza le cose così belle non vengono fatte».

Quando Brooks ha trovato i soldi e glielo ha comunicato, lui è scoppiato in lacrime. «Smettila di piangere e comincia a recitare», è stata la risposta di Mel. L’unica possibile.

«Il segreto», ha detto Brooks nel corso di un’intervista con il New Yorker, «è rispondere sempre di sì e poi fare di testa propria». E nella sua testa c’è tutto: il ritmo, la città di New York che forma il carattere con la sua brutalità, la Grande depressione, un’automobile che gli passa sopra lo stomaco a nove anni lasciandolo miracolosamente illeso, la guerra, il successo, i matrimoni falliti e quello per il quale vale la pena vivere, i grandi amici e un assoluto, intramontabile, inscalfibile ottimismo che fa pensare, a novantacinque anni, di dover ancora cercare tra le ultime file il consenso di una platea planetaria; di dover sospendere ancora il fiato prima dell’ultima, grandiosa, punchline.

© Riproduzione riservata