Memorial Drive. A daughter’s memoir di Natasha Trethewey è stato pubblicato nel 2020 negli Stati Uniti dove ha ricevuto innumerevoli riconoscimenti. È la storia di un femminicidio. È la storia della relazione tra una figlia e una madre. È la storia di una ragazza nata da un matrimonio tra un uomo bianco e una donna nera e cresciuta nel sud della segregazione dove i matrimoni interrazziali erano ancora proibiti dalla legge.

È la storia di una donna fatta da donne: in esergo, «in memoria di» ci sono i loro nomi, tutte e tre appartenenti al ramo materno della famiglia, giù fino alla madre. È la storia di una diciannovenne diventata orfana per mano del patrigno, un afroamericano conosciuto e sposato in seconde nozze da sua madre ad Atlanta, dove entrambe si trasferiscono dopo la fine del matrimonio dei suoi genitori.

Perché questo libro non è (ancora?) stato tradotto in Italia?
Natasha Trethewey ha vinto il premio Pulitzer per la poesia nel 2007 con Native Guard che racconta la storia di un battaglione di soldati neri originari, come lei, del Mississippi, morti durante la Guerra Civile. È diventata 19° Poeta Laureato degli Stati Uniti nel 2012, durante la presidenza di Barack Obama (rieletto proprio quell’anno), come lei bi-razziale e, come ha scritto Vanity Fair, come lei capace in maniera prodigiosa di legare la propria storia a quella americana.

Parole affilate

Memorial Drive restituisce la voce a Gwendolyn Ann Turnbough, zittita per sempre, a quarant’anni, con due colpi di pistola da un uomo che non accettava la fine del matrimonio e che per anni aveva bullizzato la figlia acquisita e aveva picchiato e tenuto sotto controllo la moglie fin quasi a spegnerla prima dell’ultima fiammata: la fuga, la denuncia, il tentativo di ricominciare una vita con i due figli (nel frattempo, era nato un maschio).
È un libro fatto di parole affilate nel tempo – il femminicidio è del 5 giugno 1985 – neanche una di troppo, e che si muovono su registri diversi e in un crescendo misurato arrivano a schiantare più volte ogni possibilità di accettare che capiti. Per esempio, quando la maestra di quinta elementare, Mrs. Mathis, dice che «qualche volta gli adulti si arrabbiano tra loro» rispondendo a Natasha che le ha appena spiegato perché quel giorno non riesce a concentrarsi: «Ieri sera ho sentito il mio patrigno picchiare mia madre».

Queste sono alcune delle pagine più dure del libro perché ci sono i sentimenti di una bambina che si sente incaricata di responsabilità a cui non sa come far fronte: «Per tutto il giorno hai pensato a cosa fare. Per tutto il giorno la vergogna ti ha travolta ogni volta che hai risentito nella testa il suono implorante della voce di tua madre». È successo per caso, perché il fratellino talvolta ha ancora paura di dormire da solo e la sorella rimane con lui finché non si addormenta.

E la sua camera è in fondo al corridoio rispetto a quella di lei (che è isolata dal resto della famiglia perché il patrigno l’ha bollata come «the outsider»). La camera del fratellino è adiacente a quella dei genitori, separata soltanto da una parete sottile che non trattiene dall’altra parte il rumore di un pugno. «Smack». E nemmeno la voce della madre, «quasi un mugolio ma calma, razionale: Per favore Joel. Per favore non picchiarmi ancora».

Le domande

Qualche pagina prima, Trethewey scrive che spesso si chiede se la vita della madre e la sua avrebbero potuto prendere un’altra direzione se lei le avesse confessato da subito le violenze che subiva dal patrigno: insulti, minacce di farla internare, infiniti giri in automobile, in silenzio, dopo averle ordinato di fare le valigie perché ora l’avrebbe sistemata, tra i bambini «ritardati» come lei, e poi di nuovo a casa, ore prima del rientro della madre che, quindi, non avrebbe visto la sua faccia rossa e gonfia di pianto, non si sarebbe accorta di niente.

«Avrebbe voluto salvarmi? E così facendo sarebbe uscita dal matrimonio in tempo per salvare anche sé stessa? Perché non parlai? Quando provo, ora, a trovare un senso, non capisco perché non mi sono fidata di lei. E non posso evitare di chiedermi se la sua morte non sia stata il prezzo del mio silenzio inspiegabile». No. No. No.

E chissà, invece, se si fa una domanda simile il poliziotto incaricato di piantonare l’appartamento della donna la notte del 5 giugno 1985 – all’una di quella notte era stato emesso un mandato di arresto per il marito di Gwendolyn Ann – e che invece se ne andò nelle prime ore dell’alba, non rispettando l’incarico ricevuto. Più tardi, quella mattina, si presentò alla porta dell’appartamento l’uomo che le forze dell’ordine avrebbero dovuto fermare: aveva deciso di uccidere la moglie colpevole di aver scelto una nuova vita lontana da lui e non trovò nessuno in grado di fermarlo.

Lei aveva cercato di parlargli, ancora e ancora, e la trascrizione della loro ultima conversazione telefonica provoca lacrime e rabbia: lui gioca la carta della vittima, la minaccia, la colpevolizza – «Mi hai rovinato la vita» – le intima quel che si aspetta da lei – «Se mia madre ha sopportato mio padre, tu puoi sopportare me» – è incapace di ascoltare le risposte – «Tua madre mi ha detto di non avere avuto scelta» . e di accettare la sua autonomia, la sua indipendenza, la sua stessa esistenza lontana da lui e perciò conclude: «Non mi lasci nessuna speranza».

Il lettore conosce la pena che questo verdetto di colpevolezza comporta perché sa come la storia va a finire. Nel momento in cui lo capì anche Gwendolyn Ann, cercò di difendersi alzando la mano destra e gridando «No. No. No». Uno dei due proiettili che la colpirono attraversò quella mano prima di conficcarsi alla base del cranio.

Orfani speciali 

In Italia si stimano in più di duemila gli orfani di femminicidio. È un dato aggiornato dalla prima indagine nazionale, realizzata dal 2000 al 2014 e riportata in Orfani speciali (edizioni Franco Angeli) dalla criminologa e docente di Psicologia sociale, nel frattempo scomparsa, Anna Costanza Baldry che si chiedeva che fine avessero fatto quegli orfani, come vivessero a distanza di anni dall’assassinio della madre.

«Ho cercato e non ho trovato alcun dato, alcuna informazione, nessuno ne aveva mai parlato in Italia, pochissimi studi all’estero. Erano orfani inesistenti. Eppure le loro vite avranno preso delle strade, mi sono detta, ma quali? Chi si è occupato di loro? E soprattutto, come stanno adesso?».

Pensieri spaventosi 

Il libro di Natasha Trethewey risponde da oltreoceano a queste domande rivelando anche i pensieri spaventosi che girano nella testa di un minore abusato: «Mi ricordo che pensavo di essere una brava bambina, che ero brava perché non mi lamentavo, sapevo soffrire e proteggere mia madre dal venire a sapere in che modo la sua vita con un nuovo marito stava colpendo la mia». Probabilmente, Gwendolyn pensava lo stesso, che era una brava madre perché sapeva soffrire e proteggere i suoi figli dal venire a sapere in che modo la vita con quel marito stava colpendo la propria. Ed è proprio quel che dovremmo cambiare. E per farlo, abbiamo bisogno anche di leggere storie come questa.


Memorial Drive: A Daughter's Memoir (Ecco Pr 2020) è un libro di Natasha Trethewey

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