«Milano è proprio bella, amico mio, e credimi che qualche volta c’è proprio bisogno di una tenace volontà per resistere alle sue seduzioni»: verrebbe voglia di partire da una lettera destinata dal Giovanni Verga al Capuana nel 1873 per cercare di imbastire un ragionamento temporale che possa abbracciare tempi diversi eppure tra loro comunicanti, giacché la Milano delle grandi esposizioni, l’avanguardia di un’Italia che si stampella dalla nascita, porta sin da principio quelle «larve» – per restare nelle parole verghiane – e quelle contraddizioni che la caratterizzeranno nei tempi a venire.

Ieri: un impulso

Una febbre che seduce, certamente, ma che pure ammala: si chieda a Luciano Bianciardi, scrittore in tumulto, come meravigliosamente detto da Gaia Manzini (A Milano con Luciano Bianciardi, Perrone Editore), che della folla milanese del Verga, fiumana incontrollabile e senza meta, nota subito l’impossibilità: è un problema di marciapiedi, questa terra promessa, inospitali e stretti, subito pronti a chiarire che la presenza umana, nella città, è complessa e marginale.

Milano, come vedremo, ce la si deve meritare, e il tutto da tempi non sospetti: questo luogo, nella produzione bianciardiana ancora munito di una nebbia che pericolosamente tutto involve, sembra capace di attrarre e strangolare, di costringere gli arrivati a quella vita tremenda che diventa sopravvivenza col companatico da guadagnarsi (La vita agra, Feltrinelli), il nome da mentirsi come in stato di confino (Aprire il fuoco, minimum fax) e i denari pochi, maledetti e subito utili alla continuità di un tentativo che sembra imbrigliare in ogni cosa, perfino in relazione ad una sessualità vissuta più come affermazione della propria esistenza che come atto di godimento o procreazione.

Come dolore, perfino: qualcuno vada a cercare il Dorigo di Dino Buzzati (Un amore, Mondadori) che nelle strade della città si smarrisce passando da ciò che si può consumare per soldi a quello che si vorrebbe, inutilmente e in contrappasso, amare per davvero (o illudersi di, a un certo punto cosa importa) in un luogo che diventa gomitolo nel quale restare inguaribilmente avviluppati.

Oggi: un livello

Se la Milano postunitaria porta in sé i crismi di una bellezza che agguanta e di una vita che danna, presentandosi come quel ballo dal quale è impossibile assentarsi al rischio di perdere i piedi e le scarpe, nella letteratura degli anni Venti la città arriva alla sintesi di quanto proposto in passato: indiscutibile la centralità – ci sono delle porzioni di vita che sembrano impraticabili altrove – ma evidente il pericolo, morale e umorale.

Viene da pensare immediatamente a quanto di riflesso vissuto da Jonathan Bazzi (Corpi minori, Mondadori), testimone di una famiglia che teme Milano come un passaggio di frontiera –  «mia madre non prende la metro, è terrorizzata dal fatto che sia sottoterra, come le casse da morto. Mia nonna quando pronuncia “a Milano” fa un gesto con la mano che mima una distanza (…) tutta emotiva» – nel raccontare di un luogo che diventa geografia sociale e gioco dell’oca, col denaro centripeto e centrifugo che colloca in abitazioni più o meno distanti da un centro inquadrato come punto di arrivo e affermazione delle proprie possibilità, giacché poi, ad essere sinceri e obiettivi, c’è Milano e Milano: si citofoni all’appartamento di un Lanzetta, quello disegnato da Francesco Spiedo in Stiamo abbastanza bene (Fandango) che, tra stanze che tremano e macchie che si allargano a soffitto, nella capitale simbolica della penisola è venuto ad espiare: non li voglio gli amici qua.

«Sono venuto per soffrire, chiaro o no?». Eccolo, il gheriglio della questione: da quanto si evince da una lettura (certamente parziale e controvertibile) di molti dei testi proposti dalla generazione in azione questo posto assume i tratti evidenti di una dicotomia irrisolvibile: non venire, a Milano, implica il restare una vita nel dubbio e l’abbandonarsi progressivamente al rimpianto; venire, al contrario, costringe il personaggio di turno ad affrontare sé stesso e le proprie cadute: si chieda al Valerio de Le tracce fantasma (minimum fax) di Nicola H. Cosentino, arrivato in un contenitore cittadino che confonde e disorienta, con una Milano meno serena di un tempo ma non per questo stanca che sembra estromettere lentamente eppure costringere alla consapevolezza chi, dopo averla sperimentata, è inevitabilmente chiamato a meditare un addio a una parte di sé prima che a uno spazio.

Imprescindibile quindi, luogo del fatto, contenitore di quei torracchioni prima allusi che mai può far rima con sconfitta, ché chi sta a Milano, fosse a cercare la scalata o a evitare l’indagine, è sempre al centro del gioco e mai al suo margine: « – Glielo spieghi tu a Elena che mi mandano a Milano? – Sarà una specie di promozione», esemplare a tal punto è La vampa (Il Saggiatore) di Pier Franco Brandimarte.

Città che affoga, pure, che medita l’agguato, con un ritmo che fa vivere sempre come se stessi per morire: dobbiamo prendere in prestito le parole da Francesca Marzia Esposito, che in Corpi di ballo (Mondadori) traccia un luogo di umanità sottovetro stipata nei palazzi, capace di comunicare in modi paralleli (o incapace di comunicare in quelli convenzionali) e quasi dimentica di un possibilità fisica d’interazione: sono involucri che svengono, quelli che popolano il posto, che quasi aspettano di scomparire in una larga indifferenza dettata da tempi che stordiscono e cancellano l’umano.

Domani: un’assenza?

Se la Milano del passato assume i contorni della tentazione e quella odierna i dispiaceri della difficoltà quasi naturale è pensare che, con queste condizioni d’ingaggio, la Milano del futuro rischi semplicemente di non esistere: visionarie a tal punto, e ammonitorie, ché se gli scrittori non sono profeti almeno coscienza sensibile del pericolo restino, sono due opere che si abbracciano ed accompagnano.

Apre le danze Cosimo Argentina (Saul Kiruna, requiem per un detective, Oligo) che vaticina una Milano irriconoscibile, affondata da un terremoto capace di cancellarne i connotati e renderla non ristrutturabile: si preferisce ricominciare da Lecco, delocalizzare la vita sociale, lasciando alla nostra il ruolo di rimpianto e grande decaduta.

L’innesco argentiniano viene portato a compimento – e mirabilmente allargato quasi in uno studio di casi – da Michele Turazzi, che in Prima della rivolta (Nottetempo) allarga il raggio al tanto sospirato perimetro metropolitano per affrescare una città in disfacimento climatico e sociale, vittima di una catastrofe ecologica che ha azzerato la grandezza di un tempo: è la fame d’aria a governare lo scritto, con i migranti climatici (espressione felicissima) che fuggono altrove («Chiunque aveva un po’ di denaro è scappato sulle Alpi senza guardarsi indietro») e i rimasti, in attesa di giudizio, a spartirsi il palco tra una disfatta ancora una volta bianciardiana («I passanti troppo impegnati a passare che completano i turazziani vaganti con «l’espressione troppo insipida di chi si aspetta poco dalla vita, giusto di avanzare un’altra ora (…) finché quella vita non arriva alla fine») e un tentativo di sopravvivenza che sconfina nella morte del prossimo tuo in una città perimetrata in zone con accessi diversi a seconda del potere (Turazzi parla di clima e di fine, ma se apportassimo al discorso parametri economici o sociali la geografia interna sarebbe la stessa e l’entropia pure).

Chi scrive, in conclusione, vorrebbe consegnare al lettore una riflessione da ultimo della classe, da persona che vale poco o niente: attenendoci a quanto trasposto, notando come la temperatura letteraria (e non solo, quindi, quella metereologica) si stia pericolosamente innalzando, con case che diventano miraggi o trappole precarie, personaggi che vengono a fare l’esame di coscienza e figure che svaniscono tra le metropolitane diventandone pezzo di rotaia in una esistenza che appare sempre meno sostenibile siamo sicuri, su Milano, che non sia il caso di riflettere?

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