Ieri è morto Bob Wilson. Aveva ottantatrè anni. Ma è come se non fosse mai morto, perché non era mai stato vivo, non nel senso comune: Bob Wilson noi teatranti lo consideravamo qualcosa di diverso da una persona fisica: una specie di motore immobile, che non sembrava soffrire gli accidenti, le storture, i decadimenti che si accompagnano alla condizione del vivente. Bob Wilson ci è sempre sembrato una frequenza delle sfere, un’entità filosofica, un agente atmosferico.

Bob Wilson non ha mai dato l’impressione di invecchiare: piuttosto, com’è tipico dei geneticamente eleganti o di chi è anziano già dall’età di dodici anni, Bob Wilson invecchiando sembrava che volesse solo dimostrare che era capace di portare con più stile di tutti le diverse posture dell’età. Texano anomalo, per sessant’anni lo abbiamo sempre visto vestito allo stesso modo: sbarbato, capelli corti, abito nero come una divisa d’ordinanza; la voce bassa, quasi sussurrata; il gesto corto.

La disciplina del metodo

Regista, scenografo, artista visivo, costumista, light-designer, drammaturgo, attore e mille altre cose, Wilson era tutto il contrario del bohémien, dell’artista maledetto; e anzi, come a voler far la guerra alla posa dell’artista tormentato e straccione, lavorava ai suoi spettacoli come un manager o un amministratore delegato: seduto a un grande tavolo insieme ai suoi collaboratori nel suo meraviglioso studio parigino, dedicava novanta minuti al giorno per ognuno dei suoi molti lavori in calendario (Wilson era così richiesto che se volevi commissionargli una regia, dovevi concordarla tre anni prima).

Novanta minuti: non uno di più, non uno di meno, contati timer alla mano da uno dei suoi tanti collaboratori. Assistere a una di quelle sedute di lavoro era un’esperienza di rara efficienza e angoscia: ogni novanta minuti, un assistente annunciava la fine della sessione di lavoro, e tutto s’interrompeva. Un altro assistente sgombrava il tavolo da copioni, bozzetti e disegni. Cinque minuti esatti di pausa.

Poi il primo assistente, sempre timer alla mano, annunciava l’inizio della sessione successiva: Hamlet, Alley Theater, Houston; The Black Rider, Thalia Theater, Hamburg; The Coronation of Poppea, Opera Garnier, Paris. Ogni suo spettacolo era un cantiere metafisico, un atto di colonizzazione visiva con cui Wilson prendeva un palco e lo tramutava nel suo mondo, riproducendone, colori, luci, suoni; stabilendo nuove e diverse leggi dello spazio e del tempo.

Un’estetica riconoscibile

Degli spettacoli di Wilson si diceva, con un filo di malignità: visto uno, visti tutti. E, in un certo senso, era vero: pochi artisti hanno saputo conservare, in una carriera lunga più di cinquant’anni, una tale omogeneità di cifra stilistica, una tale coerenza di linguaggio.

Dal suo exploit internazionale con Einstein on the Beach, nel 1976 al Festival di Avignone e poi alla Fenice di Venezia per la Biennale di Teatro – uno spettacolo di quasi cinque ore dove, nel flusso ipnotico delle musiche di Philip Glass, in presenza di uno sbuffante treno a vapore, si realizzava da lucidi quello che solo la psichedelia ha saputo promettere: un indefinito sregolamento dei sensi – fino a Mother, la sua installazione intorno alla Pietà Rondanini di Michelangelo, nel Castello Sforzesco, ad aprile 2025, durante il Salone del Mobile.

Una lunare riprogrammazione del capolavoro rinascimentale, che diventava un monolite di una civiltà futura o il residuo di una aliena, sempre in quell’idea di destrutturazione delle leggi del consueto, sempre col desiderio di portare lo spettatore non semplicemente all’interno di una storia, ma di un’altra percezione del mondo, di un’altra possibilità linguistica del pianeta. Forse, addirittura, in un’altra natura, in un altro tempo.

Sì, erano tutti molto simili quegli spettacoli: colossali, perturbanti cartoni animati. C’era sempre qualcosa d’infantile in quelle rappresentazioni bidimensionali, colorate e semplificate sino al limite dell’elementare, in un’oltremondana idea di purezza.

Come ebbe a dire Heiner Müller, uno dei più grandi drammaturghi del Novecento, che con Wilson ebbe a lavorare in occasione del suo Hamletmaschine: «Wilson nella storia del teatro ha la stessa funzione del Cubismo nell’arte figurativa: serve da impianto di depurazione, vi si passano al setaccio i mezzi teatrali e improvvisamente prendono corpo nuove forme e nuove tecniche. Ma sarebbe da stupidi volerlo copiare, certe cose le può fare solo lui».

E Wilson, che lo sapeva benissimo, ha continuato per tutta la vita a fare quella cosa che solo lui sapeva e poteva fare: magnifiche favole per adulti, storie per un mondo infetto e disturbato, pieno di un angosciante bisogno di bambinizzare le proprie parabole.

Wilson è stato il grande teatrante del disimpegno e della fine delle ideologie degli anni Settanta, del liberante ritorno collettivo ai riti infantili. Ha riportato in teatro il bisogno di smettere di ragionare, di liberarsi delle metafore: tornare a giocare, a sognare.

Nei lavori di Wilson il teatro diventava musica, e ogni elemento – dalla luce al costume – era parte di un unico linguaggio. E infatti con grandissimi musicisti aveva lavorato per tutta la carriera: Brian Eno, David Byrne, Tom Waits, Lady Gaga. Ricordo come una magia, al Piccolo Teatro di Milano, nel 2015, la magnificenza del suo Odyssey: ai colleghi che ne avevano già visti venticinque tutti simili (e che tuttavia, quasi riottosi a se stessi, non se ne sono mai persi uno) dissi che non avevo mai visto niente del genere, prima.

L’apparizione di Polifemo, una testa gigante sospesa nel blu, mostruosa come quelle creature aliene che ci affascinano da bambini, è una di quelle immagini che non dimenticherò mai; così come quella di Adriana Asti a Napoli, immersa in uno sfranto vulcano di cemento in Giorni felici di Samuel Beckett con alle spalle un vasto, surreale, fintissimo paesaggio svizzero: per una malinconica coincidenza anche lei scomparsa quasi lo stesso giorno, all’età di novantaquattro anni.

Chiunque ne abbia avuto la fortuna, ricorderà l’ultimo spettacolo di Wilson che è riuscito a vedere. Il mio: Mary said what she said, su testo di Darryl Pickney, al Teatro della Pergola di Firenze, l’11 ottobre 2019 (è il bello del teatro, quello di dare valore alle singole date, alle singole sere): una straordinaria Isabelle Huppert, capace per un’ora e dieci di recitare come una macchina, sincronizzata su movimenti robotici eppure pieni di grazia e di ironia, potente e insieme illusoria come la maga di una storia di Perrault: la storia della tragica esecuzione della regina Mary raccontata come se si svolgesse in un teatrino delle marionette, e Isabelle Huppert fosse solo un pupazzo mosso da fili esterni, una bambola agita dalla Storia.

L’arte come rifugio e riscrittura del reale

A Wilson piacevano le cose meccaniche, le recitazioni fredde e anzi gelide: la fedele ripetitività dei dispositivi artificiali lo confortava. In fondo questo hanno in comune, le favole e le macchine: che, a differenza delle cose organiche, sono estremamente prevedibili, e mantengono sempre le promesse.

Wilson non si fidava della natura, né dei suoi infidi attributi: ciò che è realistico, plausibile, naturalistico lo ha sempre tenuto lontano. Wilson era, insomma, uno di quei grandi artisti convinti che il verosimile sia nemico della verità, e che l’unico modo per raggiungere le zone profonde della mente sia parlare, alla mente, in un altro linguaggio: quello magico, straniante e notturno dell’inconscio.

Bob Wilson aveva, dei grandissimi artisti, quel senso di una disperazione che si allevia solo nelle soluzioni dell’arte; come il corpo durante la danza, si aveva l’impressione che la faticosa, nevrotica sofferenza del lavoro intellettuale avesse il solo scopo di raggiungere quel saltello al di là delle cose in cui consiste la Visione, quella lunare grazia che traspariva dai suoi spettacoli: l’impressione di andare oltre le leggi del mondo, e ricrearlo con la stessa materia di cui sono fatti i sogni.

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