A molti questo nome non dirà nulla. Eppure Sirio Giannini è stato uno degli scrittori più talentuosi e promettenti del nostro Novecento. Perché allora nessuno, o quasi, lo ricorda? La colpa è di un’editoria pigra e smemorata, ma anche della terra in cui l’autore è cresciuto.

Giannini nasce nel 1925 a Corvaia di Serravezza, una frazione di Lucca. In Versilia, quindi. Ma non la Versilia più nota, quella costiera e chiassosa degli stabilimenti balneari a palafitte dove trascorrevano l’estate D’Annunzio, Dina Galli, Pirandello o Puccini. La Versilia di Giannini è una valle buia alle pendici delle Alpi Apuane, in cui la vita è scandita dall’estrazione del marmo. Un luogo di fatica, dove se non ti danni sei perduto. Sirio lo capisce subito, gli basta osservare suo padre Gino, impiegato nel trasporto al piano delle rocce. Vuoi per la tempra anarchica di quelle genti, vuoi perché già da ragazzo ha il fisico di un uomo, a Sirio la fatica non pesa. Anzi, inorgoglisce.

E così a quindici anni abbandona gli studi e trova lavoro come meccanico, e poi come renaiolo. Dal luglio 1944 al giugno 1945, quando i tedeschi trasformano la zona apuo-versiliese nella Linea Gotica, sfolla nella pianura padana e sbarca il lunario come contadino. Sempre lavori di braccia e sudore. Sotto sotto, però, il ragazzo sogna altro.

Da contadino a scrittore

Ama leggere, Sirio. E scrivere. A poco più di vent’anni si lancia nei primi tentativi. Nel 1949 il racconto Binario morto vince il secondo premio indetto dalla rivista bolognese “Sodalizio”. Nel 1951 si porta a casa il premio Lavoratori Apuani a Marina di Massa. E nel 1953 il salto nella letteratura che conta: Mondadori pubblica la sua raccolta di racconti Prati di fieno nella celebre collana “La Medusa”. Un critico di vaglia come Pietro Pancrazi lo nota. Tre anni dopo, un altro riconoscimento, il Premio Firenze.

Da contadino a scrittore laureato. Come ci è riuscito?

Una possibile risposta sta nelle prime righe del racconto che dà il titolo alla raccolta: «Era un buon lavoratore, e nessuno sapeva capacitarsi di come potesse lavorare tanto quella figura di uomo asciutta e ricurva e gialla che a prima vista sembrava in attesa del becchino». È la propensione alla fatica, al lavoro quotidiano, ecco dove risiede il segreto di Giannini. La sua letteratura è la cronaca di una vita china: a trasportare fascine e rocce sulla schiena, a cavare patate dalla terra e nella terra seminare meloni. Una vita-giogo, che morde ma tiene saldi.

Nel proseguo del racconto il buon lavoratore muore, lasciando orfano e senza mezzi il figlio Giorgetto. La comunità si occupa della sepoltura ma, quando la luce del giorno si infiacchisce, abbandona il giovane a se stesso. Perché è «figlio di un tisico e tisico sarà anch’egli». Solo un contadino mostra un briciolo di umanità. Gli sfila i vestiti, li getta nel fuoco e gli spiega che vive nei campi da solo, perché ancora non ha le possibilità di trovarsi moglie.

Andrea, così si chiama, non gli chiede di seguirlo, ha parlato fin troppo. Compie invece un gesto minuto: gli mette una mano sulla testa e gli passa le dita tra i capelli. Una carezza che sciacqua via le offese di quegli uomini gretti e superstiziosi. Un gesto muto e antico come quei monti Apuani a ridosso del mare, che anticipa di pochi anni uno dei gesti più amati della nostra letteratura: il pollice di un padre che si muove come una formica sul collo del figlio, nel finale de Il gorgo di Beppe Fenoglio. Come a dire, senza dirlo: d’ora in avanti potremo contare l’uno sull’altro.

Silenzio e amore

Dopo il primo libro anche Giannini sente di poter contare su qualcosa, e quel qualcosa è la scrittura. Così inizia a sfornare racconti per il settimanale “Il Mondo” di Mario Pannunzio. I protagonisti sono braccianti, macchinisti, tecchiaioli, cavatori. Uomini e donne fini come canne palustri, figli di Faulkner più che del neorealismo nostrano.

Come il manovratore ferroviario che in Sala d’aspetto regala del cibo a una donna che non conosce e che mai avrebbe rivisto. O i due barcaioli che, in A primavera, si chiamano per nome a gran voce, perché non sanno come esprimere quella congerie di sentimenti che provano.

O i due innamorati che passeggiano in Pomeriggio d’autunno senza parlare, perché temono «di sciupare il breve sogno che stavano vivendo». Silenzio e amore sono i due binari della narrativa di Giannini. Il silenzio di una gens versiliana fiaccata dalla fatica. L’amore di chi nella miseria si riconosce e si stringe, come i salvati di un naufragio.

Dal racconto al romanzo

Nel 1958 Giannini compie l’ultimo salto che gli manca, quello al romanzo. Il cambio di forma non gli nuoce. Anzi. La Valle bianca esce ancora per Mondadori e si porta a casa il Premio Hemingway, nella cui giuria militavano Buzzati, Cantoni, Debenedetti, Montale e Pivano. Per alcuni è un romanzo neorealista, per altri socialista.

Comunque lo si guardi, ha un merito indiscutibile: quello di mostrare a tutti l’antico mondo dei cavatori (a cui Giannini dedicherà anche un film, molto apprezzato da Cesare Zavattini). Qui la fatica e la paura dei racconti vengono stemperate dal sogno di alcuni uomini che si uniscono in una cooperativa per riscattare una vecchia cava, mentre le donne «ginocchioni, su di un poggio, falciano l’erba» o «sferrucchiano a maglia», pregando che vada tutto bene.

La scrittura si inspessisce di venature gergali, ma la struttura è snella e i capitoli sembrano quadretti impressionisti usciti dalla mano di Giovanni Fattori. Quanta letteratura si respira qua dentro. Quella inetta e lirica di Federigo Tozzi. Quella scarna e operaria di Romano Bilenchi. Quella più pausata di Joyce, come nel finale del romanzo in cui una pioggerella di polvere bianca inizia a posarsi ovunque, sulle cose morte e su quelle vive, «sui cappelli, sugli abiti, sui volti degli uomini che guardavano estatici quella loro ricchezza». Come se volesse assolverli dalla fatica, e lasciarli riposare in silenzio.

Versilia nell’animo

Nel gennaio 1960, a trentacinque anni non ancora compiuti, in seguito a un’operazione chirurgica per l'asportazione di una cisti, Sirio Giannini muore. A Firenze, lontano dalla sua Versilia. Lui che più di tutti i cantori novecenteschi di questa terra (di sicuro più di Ermanno Pea o di Mario Tobino che lì trovarono fama e successo), l’ha incarnata in una scrittura schietta e casta.

«Se altre terre anche amo per bellezza di paesaggio o per carattere di gente, questa [N. d. A la Versilia] senza dubbio mi è più nell’animo, ed è quasi come se mi accingessi a scrivere di mia madre», dice in Versilia intima, pubblicata per la prima volta nel 1971 grazie alla Biblioteca Comunale di Serravezza che, guarda caso, porta il nome dello scrittore. Oggi quella sua Versilia lo tributa come un figlio. Dal 1986 esiste un Circolo Culturale che ha curato la ristampa di alcune opere assieme all’editore fiorentino Polistampa. E dal 2011 anche il Centro Internazionale di Studi Europei Sirio Giannini.

Nel finale di Prati di fieno Andrea è diventato un fratello maggiore per Giorgetto, quasi un padre. Lo ha difeso dai contadini, gli ha insegnato tutto quello che sa. Ora, notando la sua simpatia per una ragazza, per la prima volta alza la testa dalla terra e drizza lo sguardo in avanti, al futuro.

«Quando avremo falciato tutto questo prato, avrai già imparato anche tu, allora potrai considerarti un uomo. Niente potrà più spaventarti ché sarai capace da te di guadagnarti la vita. Intanto potremo sfruttare di più questa poca terra. Un giorno forse avremo i mezzi di comperare una falciatrice meccanica. Ma abbiamo tante altre cose a cui provvedere prima, e dovranno passare degli anni, e fino ad allora solo le nostre braccia avranno valore.»

Di anni ne sono passati molti. Abbiamo braccia e mezzi per far leggere Giannini fuori da quei monti.

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