Nel bugiardino di Parthenope andrebbe indicato l’effetto collaterale che può colpire il consumatore: la sindrome di Stendhal. Clinicamente sono i disturbi fisici da sovradosaggio di bellezza. E andrebbero specificate due avvertenze per l’uso: evitare la banalità di definirlo La grande bellezza in salsa napoletana e inibirsi quel deprecabile aggettivo-kleenex, buono per tutti gli usi, che è “visionario”.

Il sesto film di Paolo Sorrentino in concorso a Cannes, il suo decimo lungometraggio e l’unico titolo sotto bandiera italiana in corsa per la Palma d’oro è un esercizio spudorato di libertà. È il tipo di manifesto estetico senza compromessi che puoi permetterti se vanti uno status internazionale più fulgido di qualsiasi altro nostro autore vivente. Napoli (e Capri), ovvio. Ma non come la Roma dell’Oscar: in forma di sterminata metafora, quasi l’avatar fantasy dell’autobiografico È stata la mano di Dio.

Stia in guardia lo spettatore action-dipendente: per il suo palato certe esasperazioni stilistiche sono da eritema cutaneo. «Non c’è rimpianto né nostalgia, c’è il passaggio dell’età, in questo film»,  spiega Sorrentino qui a Cannes «la verità non fa parte della giovinezza, da giovani si fa un racconto epico di sé. Questo racconto si interrompe nella fase che Kierkegaard definisce della “vita etica”, quando accetti quello che sei e l’unica possibilità che hai è quella di stupirti ancora una volta, come accade nel finale».

Donna e sirena

La Parthenope di Sorrentino è una creatura di carne ma anche la sirena del mito, partorita nel mare. Nelle leggende popolari, il Golfo di Napoli è addirittura modellato sulla curva della sua coda. È il doppio binario, reale e simbolico, che struttura il racconto.

Sorrentino: «Nasce dal desiderio di misurarsi con due misteri: la donna e Napoli. In questo caso i due misteri per un lungo tratto si sovrappongono».

Delle sirene Omero diceva che «tutti gli uomini incantano, chi arriva da loro». La Celeste Dalla Porta protagonista del film, viso d’angelo e fisico da top model, ha lo stesso potere. Invade lo schermo e calamita gli sguardi e i desideri maschili. È un monumentale tributo alla bellezza muliebre, esplorata e pedinata al ralenti al limite della molestia, come sicuramente obietteranno le femministe più intransigenti.

Celeste Dalla Porta e Stefania Sandrelli in Parthenope (foto di Gianni Fiorito)

L’occhio del cinema può catturarla, ma nessuno può possederla davvero. L’arco di tempo è suppergiù quello che copre i 54 anni di vita del regista (li compie il 30 maggio), ma in scomposizione cubista. Se in finale compare una Parthenope invecchiata e risolta, con la dolcezza di Stefania Sandrelli, l’intero film è, proustianamente, all’ombra delle fanciulle in fiore.

È anche la definitiva emancipazione dagli standard narrativi convenzionali, da quello schema hollywoodiano del “viaggio dell’eroe” codificato da Christopher Vogler, che appiattisce tutto. La ragazza-sirena è il filo rosso tra episodi di un almanacco storico napoletano resi come tableaux vivants e coreografie di fantasmi. La datazione simbolicamente elenca le tante facce contraddittorie, piaghe e virtù, della miseria e nobiltà urbana.

Il bilancio finale, affidato a Parthenope-Sandrelli, salda vita vissuta e destini collettivi: «Sono stata triste e frivola, determinata e svogliata. Come Napoli». Le citazioni contano perché Parthenope è anche un fiume di parole, scandite fino allo spasimo, enfaticamente declamate, tappe di conoscenza per una meravigliosa creatura che incassa trenta e lode agli esami universitari ed è fermamente convinta, nella sua primavera, di avere una risposta pronta per tutto.

Ma è lunga la strada per la vera conquista. A tempo debito il suo prof di antropologia – e affezionato mentore – Silvio Orlando (che di cognome fa Marotta, come il Gerardo filosofo napoletano) le spiegherà che l’antropologia è “vedere”, e che vedere è difficilissimo. Perché «è l’ultima cosa che si impara». Il prof Marotta è quello che dice che «all’esame si arriva pisciati e cacati», a scanso di bisognini strategici, e che «a un insegnante basta essere avanti di una sola lezione rispetto agli studenti». Sta citando Billy Wilder.

Come nel presepe napoletano

I personaggi del film sono come le statuine del presepe napoletano. Non quelle canoniche, quelle extra, che variano secondo l’attualità. C’è la statuina del Grande Scrittore in sbronza perpetua, un Gary Oldman che parla come un libro stampato e impersona John Cheever, autore di culto della ragazza-sirena.

C’è il mitico Comandante Lauro, quello che ti passava la scarpa numero due se votavi bene e che ai genitori di Parthenope (il padre è un giovane e talentuoso attore di teatro, Lorenzo Gleijeses) regala un letto storico di Versailles. C’è il riccone play boy che corteggia dall’elicottero e quando va in bianco sentenzia: «Non sei intelligente».

Gary Oldman in Parthenope (foto di Gianni Fiorito)

C’è il boss camorrista acclamato come il messia tra i “bassi” dei quartieri spagnoli che invita la bella ad assistere a un coito umiliante tra gli infelici rampolli di due “famiglie” in fusione: è un rito pubblico con tanto di applausi. C’è il vescovo di Beppe Lanzetta (quasi un doppio di San Gennaro) che si tinge i capelli e masturba in mutande Parthenope nuda sotto gli ori benedetti: «Bisogna avvicinarsi lentamente a Dio». «Né provocatorio né trasgressivo», secondo il regista. Al posto del consueto miracolo, in chiesa sgorga un più terreno sangue mestruale.

Isabella Ferrari insegna recitazione, ma un velo fitto nasconde gli sfregi da lifting. Dei due primi amori, inscindibili, il più drammatico era un incesto mancato. Il fratello di P., suicida per gelosia, condanna al degrado la villa avita sul mare e le coscienze dei suoi abitanti.

Ma c’è soprattutto una strepitosa Luisa Ranieri addobbata come Sofia Loren, con i boccoli fulvi (fasulli) di Sofia Loren e gli occhiali di Sofia Loren. «Non è Sofia Loren», sostiene Sorrentino. La Diva delle Dive, orgoglio partenopeo, è messa in caricatura con iconoclasta ferocia.

Pretende trenta milioni per inaugurare una ripugnante scultura ma dovrà accontentarsi di spiccioli dopo un’invettiva fuori copione: «Il problema siete voi napoletani. Siete depressi e non lo sapete. Siete poveri, vigliacchi, piagnucoloni, arretrati, e sempre pronti a dare la colpa a qualcun altro (..) Cari orrendi napoletani, io me ne torno al nord. Io mi sono salvata, ma voi no. Siete morti!». È il ritratto spietato di un viale del tramonto a tariffa, una vecchia calva sotto la parrucca. «Mi vedi felice?», chiede a Parthenope che le ha riportato i capelli. «Eppure io sono la più importante di tutte». Vedremo le reazioni dell’interessata.

Sono solo canzonette?

L’uso delle canzoni fa storia a parte. Pino Daniele suggellava È stata la mano di Dio. Qui c’è tanto Enzo Avitabile, ma le canzoni regine del film sono Che cosa c’è (Gino Paoli, 1964) e Era già tutto previsto (Riccardo Cocciante, 1975). Roba vintage per l’anagrafe di Sorrentino, «ma semplicemente mi piacciono molto», sostiene.

Gli intermezzi musica-e-immagini sono un vecchio espediente furbetto del cinema. Non ricordo però canzoni intere, intro compresa, usate in funzione drammaturgica, tranne forse (ma relativamente) Raindrops Fallin’ on my Head in una scena clou di Butch Cassidy. Qui rimpiazzano, letteralmente, pezzi di sceneggiatura.

C’è un “lento” notturno ballato a tre che è un sensuale, cruciale snodo narrativo. Vale anche per quel Paoli d’annata. Canzoni che ritornano sui titoli di coda, a commento del nuovo sguardo di Parthenope – che ha scelto il nord, l’università e una vita solitaria – sulla sua città ritrovata. Città che sta festeggiando lo storico scudetto.

Il Fellini onirico caro al regista torna, ma più contenuto. Risplende nei secchi illuminati di blu che calano dal cielo in un cortile di prostitute. Riecheggia nel freak gigante, un Buddha latteo, fiabesco e gentile “fatto di acqua e di sale come il mare”, che è il figlio amato e nascosto del prof Silvio Orlando. Ma Parthenope ha già imparato a “vedere”. E dice: «È bellissimo».

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