E già. È uscito il disco più bello dell’anno. È Relax, la nuova “prova” (si diceva, ricordate?) di Calcutta dopo cinque anni. E la prova è superata, hai voglia. Con tranquillità, aspettando, quietando. Il contrario dei “feat”, dell’esserci praticamente mensile sempre e comunque, del rullo compressore che strenua tutti gli altri lavoratori del pop mondiale, e tantissimo quelli italiani.
Compresa, a proposito, quella prova del nove dell’obbligatoria presenza al Festival di Sanremo, che Calcutta con tanto di coro di alpini prende immediatamente per il culo (salvo razzolarne ogni tanto le quinte come autore, va detto).

Dna complesso

Quando la Francia si interessa a qualcuno dei nostri – c’è una sua intervista di questi giorni data a Le Monde – vuol dire che musicalmente non c’è nessuno in giro come lei/lui, piaccia o meno (vedi secoli fa il pre-postmoderno di Paolo Conte). E infatti è proprio così, e in modo assolutamente misterioso.

Perché quella di Calcutta è una pasta sonora lievitata con frammenti di Dna che mamma mia. In Relax ci sono: il solito Battisti veneratissimo dalla decennale nuova generazione dei nostri artisti ye-ye (in questo caso, in particolare, Prendila così e anche il periodo “bianco” con Panella e pure volute imitazioni d’intonazione, assai buffe), l’intera impalcatura dei Tame Impala, certi giri del funk nostrano (quello dei bassi dei Change di Mauro Malavasi e delle altre produzioni di questo maestro assoluto, con Carboni e altri).

E l’altro clamoroso Lucio, specie la fase iniziale completamente free fino allo spartiacque di Dalla (1980), e pure una certa new wave/no wave fuorisede uscita dal Dams negli anni buoni. Evidentemente la scelta di vivere a Bologna è stata una buona idea. Sembra di vederli, i quartieri normalissimi fuori dal centro storico, e la stazione (cani-poliziotto compresi) e sembra di sentire l’odore dei sedili di tanti Frecciarossa presi tra Roma e una Milano dove sono «tutti a fare la musica».

E poi, vediamo un po’, ci sono nella miscela le cose ascoltate da adolescente in cameretta, negli anni Novanta: dall’Inghilterra degli Happy Mondays ma anche The Streets fino a certi microscopici passaggi forse persino di Aphex Twin, e certe sciccherie successive francesi anni duemila, mollemente retrò (e di fatto uno dei Phoenix è salito a bordo sul serio dentro Relax, e voilà).

E poi arrivano i fondamentali, i pilastri veri, tutti frullati nell’amalgama: Brian Wilson e i Beach Boys, e certa California morbissima, e ovviamente George Martin coi Beatles. Ma anche i Toto (sempre adoratissimi dai turnisti) e una montagna di soul afroamericano, anche più indietro nel tempo, Supremes ecc. E infine Pino Daniele e tanta Napoli, con la solita fola di Liberato e 9 Maggio, appena cantata insieme in piazza Plebiscito a settembre. Troppa roba, che per la maggior parte si deduce con gioco facile dalle playlist che Edoardo D’Erme lascia come sassolini su Spotify. Tant’è.

Tenerezza

Quello che viene fuori è il migliore autore di canzoni italiane da un bel po’ (con Cremonini, ma abita dentro una Bologna diversa, in tutti i sensi). Da qui una riconoscenza enorme da parte della gente, che subito ha rasato sold out in un secondo il tour deliziosamente “natalizio” in arrivo dentro i palazzetti di tutta Italia.

Perché? Perché come sempre Calcutta parte dai tinelli di casa, come ben si vede dai videini da piattaforma appiccicati ai nuovi pezzi, che fanno troppa troppa tenerezza: mani che fanno il pane, due fidanzati che se la dormono a letto insieme ma con lui che le gira la schiena, bustine di tisana pucciate dentro tazze alla sera… Il racconto dell’intimità della coppia – che si prende e ogni tanto si lascia, e a volta uno dei due si ricorda di chi è rimasto indietro, nei singoli curriculum sentimentali – è canonicamente centrale.

E dell’amarsi, tanto o un po’, che trova parole disangolate per essere detto, frutto magari di sciabattate al Carrefour illuminate da fulminazioni improvvise («mi spezzi come pane Carasau»). Però, per fortuna, esiste anche l’esterno: le strade appunto, la città ovunque, i palazzi (come quello del tetto della Rai dove ha suonato la scorsa settimana, con i vicini dai balconi a guardare), e tutto questo paesaggio c’era in parte già nel canzoniere precedente.

Ma Calcutta sta ora nasando chiaramente l’aria che la gente ha silenziosamente vissuto in questi cinque anni: una malinconia strisciante e terribile, una mancanza grave di speranza, l’assenza di un progetto verso un destino decente tutt’altro che generazionale («Tutti falliti»), l’ossessione di diventare davvero poveri. 
Dentro Relax, ci sono nascosti interi rapporti del Censis di questi anni, e pure quello Eurostat sull’aumento dell’indigenza nel paese della settimana scorsa.

C’è la voglia di meritarsi ancora una vita aperta, fuori dal soffocamento delle relazionalità inscatolate, dell’intelletto generale, senza ossigeno. È qui che Calcutta diventa capace di comunicare fin dentro alla panza nostra, e a quello che lì dentro coviamo chissà da quanto. E di infonderci in controtempo una gioia sbilenca di esistere a pieno, ecco. Si chiama biopolitica.

Che poi sul piano strettamente musicale diventa godurioso piacere di suonare tanto, con gli strumenti veri e pure i soli di tastiere/synth, e il basso bello fuori e persino ritmiche forse addirittura Casiotone e Roland 808. Insomma: non è finita, la vita verso l’Aperto. «Prima che arrivi l’apocalisse», bisogna godersela. «Per tutto il tempo che resta da vivere». Possiamo ancora sperare di morire contenti. Non è poco, affatto.

© Riproduzione riservata