Anche oggi la Commissione europea – con l’intervento di Michael McGrath, commissario allo stato di diritto, davanti all’Europarlamento – ci ha ricordato che «l’uguaglianza e la libertà di amare chi si vuole sono radicati nel nostro ordinamento europeo». Dovrebbe essere un’ovvietà. Il vero nodo politico è se e fino a che punto Bruxelles abbia fatto valere quei valori comuni europei tutte le volte che l’autocrate Viktor Orbán ha provato a piegarli. La risposta è meno ovvia, come dimostra anche il caso del Pride del 28 giugno: Bruxelles, così come l’amministrazione cittadina di Budapest, tentano di svicolare il divieto orbaniano.

Ma la Commissione europea – come vedremo – non sta utilizzando tutte le leve a sua disposizione. Nel frattempo anche il contesto politico cambia: i governi, così come il Consiglio e l’Europarlamento, si spostano più a destra. Pure oggi, dagli scranni dell’emiciclo Ue, Fratelli d’Italia – i Conservatori in Europa – ha preso le difese dell’amico Orbán; da quando il governo Meloni è subentrato a quello a guida Draghi, l’Italia si è pure sfilata dalla cordata di stati membri che sostiene la battaglia legale della Commissione contro la legge anti lgbt orbaniana. 

La manovra per schivare il divieto

Tornando alla vicenda del Pride: dietro la mossa del sindaco di Budapest c’è in realtà uno stratagemma escogitato dalla Commissione europea per prima.

Il sindaco è Gergely Karácsony, che nel 2019 vince prima le primarie dell’opposizione unita (un inedito in Ungheria) e poi la corsa a sindaco della capitale, strappandola a Fidesz. Da promessa dell’opposizione, Karácsony si trasforma in sindaco in difficoltà a giugno di un anno fa, quando alle elezioni per la guida della città la sua riconferma passa dopo mille travagli e per un soffio.

Sbandieratore di idee ecologiste e liberali, oppositore di iniziative orbaniane come quella dell’università cinese (Fudan) e della “mini Dubai”, il sindaco appartiene comunque a un’èra geologica dell’opposizione apparentemente superata (travolta) dall’arrivo sulla scena di Péter Magyar, che una volta era integrato nel sistema orbaniano e che da quando ha deciso di sfidarlo non fa che salire nei sondaggi. Ha già superato Fidesz da un pezzo.

In vista delle elezioni 2026, c’è grande fermento: la “vecchia opposizione” lotta per evitare l’estinzione, magari aggrappandosi a Magyar; il quale a sua volta provoca grande fibrillazione nel sistema orbaniano. Le svolte repressive in corso – dalla legge anti dissenso, nota come “legge russa”, provvisoriamente rinviata, al divieto di pride, che è un esercizio di divieto di assemblea e di sorveglianza – fanno parte di questo irrigidimento; la torsione repressiva si accompagna a una dura mobilitazione da parte di Orbán, che organizza e predispone all’attacco (anzitutto digitale) i suoi supporter con veri e propri “Fight Club”.

In questo contesto, il sindaco di Budapest – che già aveva espresso il suo sostegno alla realizzazione del Pride e che aveva promesso che si sarebbe comunque svolto – ha ufficializzato a inizio settimana un escamotage che permetterebbe, secondo il suo ragionamento, di indire comunque la manifestazione per il 28.   

«Libertà e amore non possono essere vietati: il 28 giugno organizzeremo un evento comunale nella capitale, il Budapest Pride». Una festa della libertà, pure dalle truppe sovietiche (il che ammicca al passato da giovane liberale di Orbán). E a ben guardare, anche un’idea sulla scia di quanto aveva suggerito proprio la Commissione europea. 

Per citare il bollettino brussellese Politico, che già a maggio aveva strappato alla commissaria Hadja Lahbib (quella del video social sulla borsetta di emergenza), «la Commissione sarebbe per aspettare di vedere se la polizia effettivamente vieta il Pride, e se le corti considererebbero legale un tale divieto». Non solo: per Lahbib l’amministrazione di Budapest «potrebbe organizzare un festival della libertà, invece che una parata Pride».

La mossa di Karácsony sembra seguire almeno in parte questa ipotesi. Ma perché dovrebbe funzionare? E davvero la Commissione non aveva altre leve da usare?

I dispositivi repressivi

Per ricostruirlo, partiamo dal divieto in sé: Orbán aveva già predisposto il disegno, e il divieto non è che una attivazione di quel disegno. 

Nel 2011 József Szajer – poi beccato una decina di anni dopo dopo, in piena pandemia, a un’orgia gay, a Bruxelles, dove si trovava come europarlamentare di punta di Fidesz – riscrive la costituzione e non riconosce le coppie gay. Nel 2021 – dopo che già gli ultraconservatori polacchi del Pis hanno sperimentato la campagna presidenziale più omofoba – Viktor Orbán esporta la propaganda omofoba: quell’anno arriva la legge anti lgbt, seguita nell’aprile 2022 (in contemporanea con le elezioni politiche) dal referendum anti lgbt

La legge del 2021 è già di fatto un dispositivo censorio, tanto che nei primi mesi si parla persino di censura dei cartoni animati. Sotto il cappello della «difesa dei diritti dei minori», il provvedimento inserisce «il divieto di mettere a loro disposizione contenuti devianti rispetto al sesso assegnato alla nascita, o che promuovono l’omosessualità». La legge anti lgbt è anche indirettamente una legge anti ong. Insomma, i presupposti per le svolte repressive attuali sono contenuti in nuce in quella legge, proprio come la legge sulla sovranità è il preludio dell’ultima “legge russa”.

Con il 2025 l’accelerazione repressiva si è concretizzata nel “divieto di Pride”: annunciato da Orbán a febbraio, si è materializzato a marzo in un emendamento atto a vietare riunioni che «promuovano ed esibiscano deviazioni dall'identità di genere corrispondente al sesso alla nascita, la riassegnazione di genere e l'omosessualità», con tanto di multa di 200mila fiorini ungheresi a chi non rispetti il divieto. Dato che il premier può contare su un’ampia maggioranza parlamentare, anche la costituzione è stata cambiata, assegnando al «diritto dei bimbi a un adeguato sviluppo» la precedenza su tutti gli altri diritti.

In questo modo Fidesz – implicato in scandali di pedofilia al punto che l’orbaniana Katalin Novák ha dovuto dimettersi da presidente della Repubblica –  ha di fatto compromesso il diritto di assemblea. E ciò, sommato all’utilizzo della sorveglianza facciale per individuare i “multabili”, costituisce il vero obiettivo del sistema orbaniano nella sua fase critica: il controllo e l’installazione di un potenziale dispositivo repressivo.

Le leve usate (e quelle inattive)

Il sindaco di Budapest si appiglia a un decreto governativo del 2011, stando al quale l’amministrazione locale (il notaio del comune) può autorizzare un evento comunale, senza bisogno quindi che la manifestazione sia segnalata alla polizia. Da ciò Karácsony deduce che l’evento di Budapest non rientri nell’ambito di applicazione della legge sulla libertà di assemblea: la polizia non può né deve autorizzarlo. 

Ipoteticamente quindi i politici pronti ad accorrere da tutta Europa alla sfilata potranno avere il loro momento in cui esibire la bandiera della libertà, mentre Orbán potrà lasciar correre evitando scene truci: questo è lo scenario meno conflittuale. Tuttavia non affronta il vero nodo, e cioè il fatto che il sistema orbaniano – specialmente ora in cui pensa di poter contare sul tacito assenso trumpiano e deve mobilitarsi contro l’avversario interno Magyar – abbia disposto il divieto di Pride anche come esercizio in un più generale e ampio disegno repressivo. La legge russa – la cui approvazione è per ora rinviata – può effettivamente silenziare media indipendenti e forme di dissenso civile e politico. E su tutto questo, Bruxelles cosa fa?

La lista comprende leve utilizzate ma anche leve che la commissione von der Leyen non usa. Tra quelle attivate, c’è la sfida legale contro la legge anti lgbt. Come ha detto oggi il commissario europeo McGrath, «sia l’Europarlamento che 17 stati membri si sono aggiunti alla nostra battaglia». L’Italia di Meloni non è tra quei 17 stati membri. 

Poche settimane fa l’avvocato generale della Corte di giustizia Ue ha dato ragione a Bruxelles e torto a Orbán: a suo avviso la legge anti lgbt del 2021 viola il quadro normativo europeo. Questa è però una strada lunga. Basti pensare che nel 2023 era già stata avviata, e che ancora si attende il verdetto. Nel frattempo l’autocrate ungherese è già andato molto avanti: c’è una legge sulla sovranità, c’è un divieto di pride, incombe la legge russa.

E in tutto questo la Commissione Ue che fa? In attesa del responso della Corte Ue, avrebbe potuto attivare – anche per sbloccare il Pride – una misura provvisoria (la «interim measure») che viene in soccorso, qualora ci sia una procedura di infrazione in corso, per bloccare intanto il provvedimento sospetto (o, come nel caso ungherese, più di uno).

Tuttavia Ursula von der Leyen ha scelto di non farlo. Il che ricorda altri precedenti: quando, in virtù di un compromesso stretto da Merkel con Orbán, ha aspettato che si svolgessero le elezioni ungheresi di aprile 2022 prima di attivare il meccanismo che condiziona i fondi Ue al rispetto dello stato di diritto; o quando – scatenando le rimostranze dell’Europarlamento – ha scongelato fondi a Orbán alla vigilia di un Consiglio europeo in cui serviva un suo via libera su Kiev (all’epoca Scholz suggerì al premier ungherese di uscire dalla stanza «per bere un caffè» e così Orbán salvò le apparenze, gli altri la decisione da approvare).

In conclusione: non basta che una singola manifestazione possa svolgersi in un generale sventolio di bandiere; la Commissione europea, guardiana dei trattati, ha in quanto tale non l’opzione ma il dovere di farli valere. 

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