«Dopo un’epidemia tutti coloro che sono ancora vivi sono sopravvissuti». Leggo questa frase in un libro del teorico della politica Ivan Krastev, scritto durante le prime fasi della pandemia di Covid-19. Lo studioso bulgaro si chiedeva se l’esperienza fatta in quei mesi fosse un’occasione «per aprire gli occhi sul mondo in cui viviamo».

A due anni di distanza mi pare di poter dire che le cose non sono andate in questo modo. L’occasione è andata sprecata. A differenza dei protagonisti del romanzo di José Saramago cui Krastev si riferisce nella pagina di apertura del saggio, non possiamo dire che «siamo ciechi ma vediamo», perché stiamo cercando in tutti i modi di lasciarci alle spalle l’esperienza della pandemia, senza fare i conti con la consapevolezza, che a questo punto non è soltanto un’ipotesi, che la diffusione globale di virus letali è molto più probabile che in passato. Un evento altamente probabile, e potenzialmente catastrofico, che tuttavia ci ha colto di sorpresa.

Fallimento collettivo 

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Come mai? Come è possibile che fatichiamo a figurarci ciò che sappiamo potrebbe accadere? Viene da pensare che si tratti di una rimozione psicologica: in fondo anche alla morte preferiamo non pensare. Ma se fosse solo un fallimento della razionalità individuale si potrebbero trovare rimedi. Come le assicurazioni.

In realtà la cancellazione in atto della memoria della pandemia – un fenomeno che, come osserva Krastev, ha un precedente storico relativamente recente, l’epidemia di influenza dei primi del Novecento – è un fallimento della razionalità collettiva, non individuale. Questo fa pensare a una resistenza, più che a una rimozione, che ha a che fare con il modo in cui sono organizzate le nostre società.

La risposta collettiva alla pandemia richiederebbe la predisposizione di risorse di emergenza, che potrebbero rimanere inutilizzate, o sottoutilizzate. Questo tipo di rimedio, che guarda al lungo periodo e all’interesse collettivo, è poco compatibile con il modello neoliberale. Una società dominata dalla brama del consumo non è predisposta a mettere in atto misure che distolgano risorse dalla soddisfazione di bisogni immediati, in favore di bisogni, sia pur vitali, futuri.

La visione della società

Belgium's Prime Minister Alexander De Croo arrives for an EU summit in Brussels, Friday, Oct. 22, 2021. European Union leaders conclude a two-day summit on Friday in which they discuss issues such as climate change, the energy crisis, COVID-19 developments and migration. (Olivier Hoslet, Pool Photo via AP)

Non è soltanto la sfera economica a opporre resistenza agli interventi che sarebbero necessari. Predisporsi ad affrontare una nuova emergenza sanitaria globale richiede una visione della società che è molto diversa da quella che si affermata dopo il 1989, ed è diventata egemone nei primi anni del nuovo secolo.

Forse qualcuno ricorda le reazioni indignate che ci furono, nella fase più drammatica della pandemia, quando alcuni economisti sostennero che il modo migliore per assicurarsi le mascherine necessarie a proteggersi dal contagio fosse affidarsi al mercato.

Lasciar andare in alto il prezzo, in modo da fornire l’incentivo ai privati per aumentare la produzione. Una risposta “normale” per il senso comune neoliberale, e in un certo senso corretta, ma scandalosa per buona parte di noi, anche per quelli che comprendono il modello idealizzato di mercato su cui essa si basa.

Lo scandalo non era dovuto a ignoranza, ma alla consapevolezza istintiva che la “mano invisibile” non fosse in grado di gestire una situazione “non normale” in modo ordinato.

Di fronte a una minaccia attuale e concreta siamo tornati a una disposizione psicologica simile a quella dello “stato di natura” di Thomas Hobbes. L’istinto di sopravvivenza ci ha spinto a chiedere una risposta collettiva – la protezione dal pericolo – che poteva venire solo dalla mano visibile del potere pubblico.

Si è parlato, a questo proposito, di “ritorno dello stato” (lo ha fatto Paolo Gerbaudo, in un libro che sta avendo un grande successo). Ma in realtà, almeno nelle società di mercato, questo ritorno c’è stato solo in misura limitata, condizionata alle esigenze immediate dell’emergenza. Mano a mano che l’attenzione per il virus si va attenuando, anche se esso continua a mietere vittime, i vincoli all’intervento pubblico che erano stati allentati stanno tornando a farsi sentire. Complice anche una nuova crisi, provocata dalla guerra tra Russia e Ucraina, che alcuni vogliono vedere come la riedizione dello scontro tra democrazia liberale e autocrazia che, in momenti e forme diverse, ha scandito il Novecento.

Punto di non ritorno

Nei giorni scorsi il quotidiano britannico The Guardian (27 ottobre) ha pubblicato un lungo articolo di Damian Carrington (l’editor per le questioni ambientali) che riprendeva i risultati di indagini svolte da tre agenzie delle Nazioni unite, secondo le quali le misure prese finora per rallentare il cambiamento climatico non stanno avendo gli effetti desiderati.

Nell’articolo Carrington riporta il parere di Johan Rockström, direttore del Potsdam Institute per la ricerca sull’impatto climatico, che afferma: «Siamo in un momento davvero deprimente, non solo perché i rapporti mostrano che le emissioni sono ancora in aumento, quindi non stiamo rispettando né gli accordi sul clima di Parigi né quelli di Glasgow, ma anche perché abbiamo così tante prove scientifiche che siamo molto, molto vicini a cambiamenti irreversibili – ci stiamo avvicinando a punti di non ritorno».

Spettri ignorati 

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Lo spettro di diverse crisi che si sovrappongono, come ha scritto Adam Tooze, si aggira per il mondo. Eppure la politica sembra paralizzata. Sia la destra sia la sinistra moderata, erede dello spirito della Terza Via, per motivi diversi eludono il problema. La prima perché affrontarlo richiederebbe una profonda revisione del modo in cui funziona attualmente il capitalismo, la seconda perché è terrorizzata dall’idea di apparire radicale.

Rimettere in discussione i dogmi neoliberali non è qualcosa che i riformisti odierni sono disposti a fare, a Washington come a Londra, a Roma come a Bonn. Colpisce il contrasto stridente tra i pannicelli caldi proposti oggi e le misure incisive con cui Filippo Turati, che allora guidava il partito socialista da una posizione saldamente riformista, proponeva per rilanciare l’economia italiana in un discorso tenuto alla Camera nel 1920, poi passato alla storia con il titolo Rifare l’Italia.

Rileggerlo oggi è istruttivo perché mostra che la capacità di visione, e la disponibilità a rimettere in discussione l’esistente in vista di una società più giusta, non esclude il radicalismo, ma se ne alimenta, per un’azione più incisiva.

La sinistra oggi non dovrebbe guardare agli elettori di mezza età delle Ztl dei grandi centri urbani, per i quali la crisi climatica è una seccatura ai cui effetti immediati ci si può sottrarre andandosene al mare o in montagna, ma ai giovani che partecipano alle manifestazioni ecologiste, anche quelle sopra le righe, che tanto disturbano i ben pensanti. Sono loro infatti gli unici ad aver ben chiaro che la questione del clima e quella della giustizia sociale non sono più, come si diceva negli anni Ottanta, due cose diverse, che spaccano la sinistra, ma una cosa sola. Che una società equa e sostenibile è «il movimento reale per abolire lo stato di cose presente».

Sveglia, compagni

In questi giorni si parla del congresso che dovrebbe ridisegnare il profilo politico del Pd. Per ora pare che il tema sia soprattutto quello del leader, come è stato in questi anni, e poco si discute delle questioni centrali, che riguardano l’identità e le idee. Chi segue la politica da anni si prepara a una nuova delusione.

Resa più cocente dalla convinzione che il tempo stringe, e che di fronte alle conseguenze drammatiche prospettate dai rapporti delle Nazioni unite la questione non è se ci saranno cambiamenti radicali nel nostro modo di vivere, ma quale segno avranno.

Se quello dell’eguale libertà e della solidarietà, o quello dello sfruttamento e dell’autoritarismo. Verrebbe da gridare «svegliatevi compagni! E non abbiate paura di andare contro il senso comune». Potrebbe essere già troppo tardi, come fu per Turati un secolo fa, ma almeno potremmo dire di averci provato.

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