In totale 40 missioni militari nel 2021: 38 già in atto in tre continenti e due nuove (nello Stretto di Hormuz e in Somalia). Una grande attenzione soprattutto all’area africana (17 missioni) e al quadrante mediorientale con il Golfo Persico in prima fila (9 missioni). Sono questi i primi scarni dettagli della deliberazione del consiglio dei ministri della scorsa settimana sulle missioni internazionali e iniziative di cooperazione allo sviluppo (che sono però del tutto residuali).

Una decisione che per legge dovrebbe arrivare a inizio anno, ma che nel 2021 registra quasi un mese di ulteriore ritardo rispetto al 2020, anno in cui il parlamento ha potuto votare il proprio parere definitivo solo a dicembre (con il paradosso quindi di una decisione ampiamente “retroattiva”).

Eppure il ritiro dall’Afghanistan dopo 20 anni di nostra presenza militare, con risultati fallimentari sotto diversi punti di vista, dovrebbe stimolare un dibattito ampio e importante sugli obiettivi e gli impatti delle missioni militari e del loro dispendioso impegno (quasi 1,5 miliardi stanziati). Forse un illusorio miraggio, che però impedisce una seria analisi non solo del dispiegamento militare ma anche degli interventi di cooperazione internazionale inseriti nel quadro del medesimo provvedimento (nominalmente circa il 20 per cento dei fondi, in realtà poco oltre il 10 per cento se andiamo a sottrarre i 120 milioni destinati proprio alle forze armate e di polizia afghane).

La cooperazione internazionale

Su quest’ultimi, occorrerebbe un cambio di approccio: da qualche anno la gran parte dei fondi vengono destinati ad agenzie internazionali o multilaterali, tagliando fuori i soggetti di cooperazione della società civile italiane, la loro conoscenza della realtà sul campo e il sistema di rapporti costruiti con le comunità locali. Confermando l’impressione che si tratti solo di un tentativo di “indorare la pillola”, consentendo quindi l’approvazione senza troppe contestazioni dei ben più cospicui finanziamenti di natura militare.

Negli ultimi anni gli interventi militari hanno avuto il focus in particolare del “Mediterraneo allargato”, al centro anche delle decisioni appena confermate in consiglio dei ministri. In tale prospettiva, il caso libico è quello più emblematico: dal 2017, anno dell’accordo siglato dal governo Gentiloni, l’Italia ha speso 755 milioni di euro tra missioni navali e missioni in Libia.

La sensazione, da confermare una volta resi noti i dettagli del provvedimento dell’esecutivo, è che per il 2021 la cifra stanziata per il paese nord africano sia superiore ai 58 milioni spesi nel 2020. Le dichiarazioni del ministro della Difesa Lorenzo Guerini, i viaggi del ministro degli Esteri Luigi Di Maio e di quella dell’Interno Luciana Lamorgese, spingono a ipotizzare che l’Italia voglia far seguire i fatti rispetto alle dichiarazioni di sostegno al (transitorio?) governo libico.

I soldi alla Libia

Eppure sarebbe giunto il momento di invertire la rotta di queste decisioni, interrompendo per prima cosa il finanziamento diretto alla cosiddetta guardia costiera libica costantemente in aumento, fino a toccare nel 2020 i 10 milioni di euro. Tale sostegno è già previsto anche all’interno della missione bilaterale Supporto Libia, nella missione navale Mare Sicuro e nella missione navale europea Irini ma senza che ne sia definita precisamente la portata (e il costo). Non a caso da almeno due anni le organizzazioni della società civile chiedono l’istituzione di una Commissione di inchiesta, che indaghi sul reale impatto dei soldi spesi in Libia e sui naufragi nel Mediterraneo.

Per ora i soli dati certi riguardano le persone intercettate e riportate in Libia: nel 2021 sono già oltre 14.000, numero superiore all’intero 2020, con un totale di più di 55.000 negli ultimi 4 anni. Persone purtroppo destinate e rientrare nel ciclo di abusi e torture sistematiche dalle quali stavano cercando di scappare. Anche i morti quest’anno sono di nuovo in crescita nella rotta del Mediterraneo centrale: quasi 700.

Tra le 4 missioni navali attive nel Mediterraneo (oltre 540 milioni spesi) nessuna prevede compiti di ricerca e soccorso, una carenza inaccettabile. Si dovrebbe dunque dare seguito quantomeno alla proposta fatta dal segretario del Pd, Enrico Letta, rispetto alla missione Irini che dovrebbe «diventare la missione che consente di gestire il salvataggio in mare». Non sarà facile che ciò avvenga, dato che la missione, nonostante i forti dubbi sulla sua efficacia, è stata appena rinnovata in sede europea e dunque servirebbe uno sforzo diplomatico deciso perché il tema possa venire riproposto prima della sua scadenza (marzo 2023).

La domanda che invece permane è come la classe politica italiana e quella europea possano continuare a perpetuare lo schema (da loro impiantato) che legittima l’esistenza di una zona di ricerca e soccorso al largo della Libia (Sar) affidando ai libici competenze che non dovrebbero essergli affidate. Un tragico escamotage utile agli europei per non incorrere direttamente in accuse di respingimenti e di violazione del principio di non refoulement. La Libia, cosa da anni ben evidente, non è infatti un porto sicuro e non può costituire una soluzione per i salvataggi in mare.

Paolo Pezzati, coordinatore advocacy Aoi - Associazione delle ong Italiane

Francesco Vignarca, coordinatore campagne Rete italiana pace e disarmo

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