La meritevole inchiesta del quotidiano Haaretz svela una relatà ben chiara a tutti: la somalizzazione di Gaza, dove Israele non ha alcuna strategia e conduce una guerra sfociata in un caos senza scopo. Qualcuno tenterà di sminuirla, ma dice cose note a chiunque voglia vedere. Ma dal caos si staccano strategie di esportazione del conflitto, che fanno leva su pregiudizi radicati in duemila anni e più di storia
Non si può tacere sulla valorosa inchiesta condotta dal quotidiano Haaretz, in cui si denuncia la morte indiscriminata di civili palestinesi in fila quotidiana per il pane dall’inizio delle attività della Gaza Humanitarian Foundation, con cui Israele, in collaborazione con la lobby ebraico-evangelista che la sostiene negli Usa, sperava di portare ordine nel caos della distribuzione degli aiuti per la stremata popolazione dopo l’incapacità, per alcuni causata da infiltrazioni di ogni sorta, delle Nazioni Unite di tenere gli aiuti al riparo dai sequestri di Hamas.
Si dirà che Haaretz usa fonti anonime. E ci mancherebbe, verrebbe da pensare. In modo più moderato, altri diranno che l’inchiesta denuncia casi specifici, concentrandosi in modo particolare sull’attività della Divisione 252, sotto gli ordini del generale di brigata Yehuda Wach, classe 1979, nato e cresciuto a Kyriat Arba (Hebron), uno degli insediamenti più antichi, problematici e a maggiore valore simbolico di tutta la Cisgiordania.
Formatosi alla yeshivà sionista-religiosa Bnei David ad Eli, che è anche mechinà (campo) di addestramento pre-militare per giovani religiosi. Insomma, paradigmatica espressione di quella strategia pluridecennale di penetrazione dell’esercito israeliano condotta dai gruppi estremisti stanziati in Cisgiordania.
L’inchiesta, sia chiaro meritevole e doverosa per un giornalismo che voglia definirsi tale (almeno diamo atto alla società civile israeliana che una coscienza le è rimasta), in realtà accende i riflettori su ciò che è palese a chiunque non abbia gli occhi foderati dai pregiudizi: a Gaza regna il caos, con bande armate, spesso finanziate da Israele stesso, che vogliono prendersi un pezzo di territorio che l’esercito non ha mai controllato perché Bibi dovrebbe mandare lì centinaia di migliaia di uomini, che non può permettersi di inviare perché porterebbe a casa tante bare, che comunque, arrivano e arriveranno, come insegnano tutti i conflitti urbani prolungati nel tempo.
Hamas e Netanyahu
Poi, c’è Hamas, che ruba, spara e minaccia chiunque per sopravvivere, per dimostrare che comanda ancora lei. È una Libia, una Somalia, un caos senza fine che peggiora ogni giorno. Un magma sostenuto dalle due leadership al potere, che hanno uguale bisogno della guerra infinita per sopravvivere politicamente, e non solo. Da un lato il bisogno di Netanyahu di calciare la lattina un po’ più in là per evitare di fare i conti con le sue responsabilità storiche, fino alla speranza di vincere la sua guerra in atto da anni contro tutti i poteri dello Stato e consolidare definitivamente il suo potere attraverso la svolta illiberale che lo metterebbe al riparo da processi, inchieste e gli eviterebbe di assecondare il suo destino: essere il capro espiatorio di ogni male, in realtà assai profondo, che la società israeliana ha sviluppato negli ultimi tre decenni, da quel fatidico 1994 in cui Rabin è stato ucciso.
Chiaro che Israele lo processerebbe, sia perché se lo merita e i suoi rivali politici lo odiano come il demonio, ma anche perché eviterebbe al Paese quelle inchieste internazionali che assomigliano ad un marchio di infamia. Ben venga il capro espiatorio (mi perdoni René Girard), se servisse a un nuovo inizio per un Paese che avrebbe la possibilità storica di essere legittimato nell’area in cui vive. Non piangeremo per lui.
Dall’altro, ci si chiede perché Hamas non consegni gli ostaggi e si arrenda, come chiesto a gran voce da tutte le cancellerie arabe e dall’ANP. Forse pensa di vincere la guerra? Domanda retorica, la risposta è nota. Un magma terribile da cui si staccano le logiche di esportazione del conflitto, in cui gioca un ruolo preminente l’immaginario antigiudaico su cui fa leva da sempre la propaganda islamista. Solo a Milano, nell’ultima settimana due ragazzini ebrei picchiati e sputati per la strada e l’inquietante comparsa di cartelli con la scritta «Israeli are not welcome» che hanno tappezzato la città. Azioni di gruppi organizzati, che disegnano, stampano in centinaia di copie e disseminano in una notte in tutta la città. Per i professionisti dell’«È colpa di Netanyahu», ci si limita a ricordare che non c’è traccia di cartelli simili contro i turchi perché c’è Erdogan, o contro i cinesi per gli uiguri (e tanto altro). Lì non c’è la mostrificazione di un intero paese e certo non abbiamo i livelli di mobilitazione sociale che vediamo in Israele. Sarebbero, invece, da sostenere le fazioni di entrambe le parti che si ribellano alle proprie leadership, ma i pregiudizi sono troppo radicati. Caos, su caos, su caos.
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