Il cibo era solo cibo, la tavola un luogo, non un giudizio. Non immaginavo che di lì a poco il Natale avrebbe cambiato volto, diventando un appuntamento carico di tensione
- Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
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«Avevo 14 anni, dottoressa. Oggi ne ho 43, e le feste di Natale per me sono un campo minato da quasi trent'anni. Dell'infanzia restano pochi ricordi, sfilacciati, come fotografie scolorite: l'attesa di Babbo Natale, io seduta a tavola, il gesto di mangiare ciò che la nonna aveva cucinato, un sorriso che allora non pesava. Ero felice. Felice come da manuale può esserlo una bambina il giorno di Natale.
Era tutto semplice, quasi inconsapevole. Non c'erano conti da fare, né paure nascoste nei piatti, né sguardi da sostenere. Il cibo era solo cibo, la tavola un luogo, non un giudizio. Non immaginavo che di lì a poco il Natale avrebbe cambiato volto, diventando un appuntamento carico di tensione, un tempo da attraversare stringendo i denti.
Da allora, ogni dicembre riapre la stessa ferita e chiudendo la porta alla vita più di quanto quotidianamente non sia. Non con violenza, ma con costanza. Come se il calendario avesse memoria di me, e io fossi costretta ad avere memoria di lui. Arriva l'ansia e la paura: di quella tavola, dei suoi rituali, dei suoi commensali, anche se è la mia famiglia di sempre.
Quando il natale diventa una gabbia
Trent'anni fa è arrivata la mia malattia, il mio disturbo alimentare, come lo chiama lei e tutti i dottori e psicologi che ho visto… Disturbo poi? Mi sono spesso chiesta perché le hanno dato questo nome. Forse perché è un disturbo per gli altri, costretti a seguirti passo passo: a controllare che non vomiti, che non ti abbuffi, che non la fai finita. Io questa maledetta malattia la chiamerei piuttosto tirannia alimentare, perché nasce da una voce che all'inizio sembra rassicurante, ma col tempo diventa tiranna: promette controllo e restituisce paura. Una gabbia costruita giorno dopo giorno con le mie stesse mani, che mi ha tolto il respiro e la leggerezza.
Non è un capriccio, non è una scelta: è una guerra interna che consuma, stanca, ruba spazio alla vita e la riempie di numeri, colpa e vergogna. Eppure, dentro questa voce, io resto. Voglio restare. Anche a Natale. Forse soprattutto a Natale, quando tutto chiede gioia e io mi presento fragile e scoperta. Per tutti è un periodo in cui in cui l'allegria sembra prendere il comando. Ma per me, che sono morta il giorno in cui mi sono ammalata, la malattia vince anche nei giorni di festa.
Perché lei, la mia tiranna, si nutre dei miei momenti: di quelli che dovrebbero essere miei e solo miei. E al loro posto lascia una solitudine feroce. E allora quella frase che ho sentito mille volte, “Sorridi, almeno a Natale”, diventa una richiesta impossibile, un ordine gentile rivolto a qualcuno che sta affogando. Perché non è il sorriso che manca, è la forza. E non è il Natale a non bastarmi: sono io che, in quei giorni, devo fare i conti con una tirannia che non conosce tregua».
Cosa significa stare a Natale da soli
È la storia del Natale di Annamaria (nome di fantasia). Per lei come per tutte le persone con disturbo alimentare (Dca), le feste non rappresentano un momento di gioia condivisa, ma una prova di resistenza, vissuta spesso in una profonda solitudine, anche, e soprattutto, dentro la mischia delle tavole apparecchiate, dei brindisi e delle aspettative.
Annamaria dopo anni di battaglie con parenti e amici, ha alzato ulteriore bandiera bianca, e da circa dieci anni trascorre i giorni di festa da sola, o meglio in compagnia della sua nemica invisibile. «È stata una scelta difficile, ma inevitabile e – continua nel suo racconto – stavo diventando un peso per gli altri e rischiavo di “intossicare” le feste a tutti». È una storia di solitudine, quella di Annamaria, come se ne trovano tante altre in Italia e nel mondo.
Condivisione o contrasto
Il cibo è un linguaggio di condivisione, e a Natale questa centralità aumenta. Pranzi e cenoni diventano il cuore della festa. Commenti su cibo, porzioni o calorie, pronunciati senza cattiveria, mostrano quanto la cultura della dieta sia radicata. Per chi convive con un Dca però, possono scatenare sensi di colpa, generando una solitudine silenziosa, vissuta tra gli altri ma chiudendosi dentro, o visibile, fatta di isolamento e assenze.
Nei giorni di festa, il senso di distanza può farsi ancora più profondo. Ne deriva una solitudine che può assumere forme diverse: silenziosa, vissuta stando seduti a tavola insieme agli altri ma chiudendosi all'interno, e quella più visibile, fatta di isolamento e assenze forzate. In entrambi i casi, proprio nei giorni dedicati alla condivisione, il senso di distanza può diventare ancora più profondo.
Controllo e pressione
Molte persone si sono sentite in allerta già settimane prima delle feste, con un senso di costrizione e ipercontrollo che rendono questo periodo emotivamente difficile. La paura di perdere il controllo è la più dilagante: «Come faccio a resistere a tutto quel cibo?». Le tavole imbandite e la maggiore disponibilità di alimenti possono innescare il timore di non riuscire a contenersi. Il pensiero «Non riuscirò a controllarmi» può avere conseguenze negative sul senso di autoefficacia, confermando l'immagine di sé come persona “debole” e incapacità di resistere alle tentazioni.
Oltre alle sfide personali, le feste comportano una forte pressione sociale. I commenti sul corpo, come «Hai messo su peso» o «Hai perso peso, stai meglio», possono suscitare tristezza, senso di colpa e disgusto verso sé stessi. A questo si aggiunge la pressione a mangiare: invitanti insistenti del tipo «Avanti, prendine ancora» o «Non l'hai nemmeno assaggiato, mangialo» possono far sentire costretti a eccedere, generando ansia anticipatoria in vista delle occasioni sociali.
Se si sceglie di trascorrere il Natale da soli, è importante farlo senza sensi di colpa e, se necessario, comunicare la propria decisione a chi potrebbe preoccuparsi. Organizzare la giornata con piccoli rituali piacevoli, guardare un film, ascoltare musica, leggere, fare una passeggiata o dedicarsi a un hobby, aiuta a ritrovare serenità. Brevi momenti di contatto con amici o familiari, come una telefonata o un messaggio, possono far sentire vicini gli altri senza compromettere la propria tranquillità. L'obiettivo è vivere la giornata rispettando i propri bisogni e trasformarla in un'occasione di cura e rigenerazione.
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