È un libro che sembra il tentativo di riparare al torto subito dalla madre dell’autrice. Ma forse è anche qualcosa di più e in fondo nessuno sa perché scriva una cosa anziché un’altra. Ogni gesto è risultato di pulsioni contraddittorie. Questo, quindi, prima ancora che un romanzo sul colonialismo o un tentativo di riscatto della figura materna, è la storia di due ragazzi
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani e in edicola.
Un regolamento di conti con il sistema coloniale e la sua crudeltà, un modo per vendicare la madre, per renderle finalmente giustizia, la giustizia simbolica della letteratura. È questo Una diga sul Pacifico, almeno in certe dichiarazioni di Marguerite Duras: il tentativo di riparare al torto enorme subito da sua madre, il torto che, rovinando la vita all’intera famiglia, segnò la sua infanzia, uno stigma, un imprinting, la ferita originaria da cui sarebbe sgorgata la scrittura come un’emorragia.
La madre però non si sentì vendicata. «Avresti dovuto aspettare la mia morte», disse alla figlia, che l’aveva trasformata in un personaggio eroico e tragico in preda alle avversità del fato. Credendo di celebrarla, la figlia aveva reso pubblico il suo fallimento, dando in pasto a chiunque la storia della sua sciagura, della sua pazzia, delle sue stesse mancanze di madre.
Del resto, trasformare qualcuno in un personaggio letterario significa necessariamente (re)inventarlo, sostituirlo, farlo (ri)nascere, annientare la sua verità organica a favore di una verità narrativa, ossia fantasmatica, in questo caso pressoché leggendaria. «Il problema, ancora una volta, è stato per me farla sparire dietro sé stessa, superare la sua singolarità, assassinarla e farla rinascere dalle sue ceneri», scrisse Duras nel 1958, all’uscita del film di René Clément tratto da Una diga sul Pacifico. Per rendere universale la rabbia della madre, per raccontare che cosa significa perdere la speranza, essere stati derubati della possibilità stessa di sperare, per fare di sua madre letteratura, insomma, lei l’ha uccisa.
C’è nel venire al mondo una violenza che non è solo della madre – (pro)creare implica condannare alla morte – ma è anche del bambino, che spinge per uscire, e in questa tensione verso il fuori, in questa spinta alla separazione dal corpo di lei, le provoca un dolore acutissimo, rischia perfino di ucciderla. C’è nel crescere, nella progressiva riduzione della simbiosi con la madre, nella distanza presa da lei, la stessa violenza della scrittura, che comporta una radicale separazione dagli altri, un’inaccessibile solitudine, un’affermazione di sé a ogni costo.
In fondo nessuno sa perché scriva una cosa anziché un’altra, e Duras stessa diceva di sentirsi un colino attraversato dalla scrittura, che arrivava da un altrove ignoto, dall’«ombra interna». Ogni gesto umano, poi, è il risultato di pulsioni e bisogni contraddittori. Ecco perché io credo che, prima ancora che un romanzo sul colonialismo, o il tentativo letterario di riscattare una madre, Una diga sul Pacifico sia la storia di una ragazza, anzi di due ragazzi, un fratello e una sorella che, per poter cominciare a vivere, quella madre la assassinano.
Nata da nessuna parte
«Con Una diga sul Pacifico mi sono sbarazzata completamente della mia infanzia», disse Duras in un’intervista del 1963.
Credo che con «sbarazzarsene» non alludesse a «liberarsene» o ad «accantonarla». Credo intendesse, piuttosto, che solo dopo aver rivelato la tragedia della madre, principio di ogni cosa, coagulandola in una storia, solo allora aveva potuto lasciare che le tracce di quell’infanzia esplodessero, e che le schegge dell’esplosione generassero un immaginario letterario unico, irripetibile, riconoscibile: l’universo durassiano, in cui si muovono madri, figli, fratelli, amanti, donne e uomini serrati in una specie di assenza da sé, o che esistono esclusivamente nel desiderio o volere dell’altro, nell’offrirsi all’altro, alla sua mercè; uomini e donne scartati, marginali, sospesi sulla soglia del lecito o in procinto di essere rigettati dalla comunità umana.
Da quell’infanzia derivano Lol V. Stein, il Viceconsole, Anne-Marie Stretter, la mendicante, Ernesto e Jeanne, Agatha e suo fratello… Io credo che perfino Yann – l’ultimo compagno di Duras – venga da lì, benché sia esistito in carne e ossa: nel momento in cui lei l’ha reso un personaggio letterario, è diventato anche lui un discendente di quella famiglia in cui la pulsione di morte (la voglia di morire, la voglia di uccidere) si mescolava al fou rire. È diventato un fantasma di quell’infanzia verso la quale Duras provò sempre sgomento, e che pure riteneva la sua ricchezza.
Duras chiama infanzia tutto il periodo trascorso in Indocina, il suo paese natale, con la madre e i due fratelli; il padre morì quando lei aveva sette anni. La fine dell’infanzia coincide con il viaggio che la portò in Francia. È questa la cesura, lo strappo mai ricucito con la terra dei manghi, i frutti proibiti dalla madre, che possono dare la morte (la morte fisica, immediata, non la morte eterna che consegue alla scelta di assaggiare il frutto dell’albero della conoscenza), una terra dove ciò che nutre può uccidere, com’è sempre per chiunque sia vivo, la terra dei fiumi in cui Marguerite aveva nuotato con i fratelli cacciatori, la terra delle foreste dove aveva camminato a piedi nudi nonostante le serpi (immancabili, in un paradiso), temendo le tigri, le cui tracce erano i cadaveri degli uccelli scannati, e cercando coccodrilli, e uccidendo scimmie, una violenza innocente, primitiva, preistorica. Mai più lei avrebbe rivisto quella terra, al punto che ne La vita materiale sarebbe arrivata a dire: «Non sono nata da nessuna parte».
L’infanzia è dunque un tempo selvaggio e primordiale, anteriore alla civiltà, premorale. Abbraccia anche l’adolescenza, la prima giovinezza; per i personaggi di Duras non è una condizione anagrafica, ma una condizione psichica: persiste negli adulti che dell’infanzia portano le «stimmate». È nel rapimento di cui è vittima Lol, che «ogni giorno si ricorda di tutto per la prima volta», come se ci fossero, tra i suoi giorni, «baratri insondabili di oblio»; è in Ernesto de La pioggia d’estate, il bambino che ha dai dodici ai vent’anni e che leggendo, seppure analfabeta, il libro dei re d’Israele ha capito che lo scacco degli esseri umani è la diserzione di Dio, e ha perso il senno; è nella verginità, a venticinque anni, di Francine, protagonista e voce narrante de La vita tranquilla; è nella «spaventosa» astinenza del Viceconsole, che non ha mai conosciuto l’amore. È nell’astinenza della madre di Duras, che dopo la morte del marito ha per sempre abdicato al godimento.
L’intelligenza nuova cui si accede attraverso il sesso recide l’infanzia, perché il corpo che ha conosciuto l’estasi sessuale è un corpo definitivamente separato da quello materno. È un corpo che va incontro all’altro da sé, all’estraneità, ricercando con l’altro da sé l’unione fusionale da cui è fuggito, la somiglianza che si ha con il sangue del proprio sangue, pur sapendo che è una ricerca vana, che la fusione è impossibile, che solo nella gravidanza i corpi sono l’uno dentro l’altro; che mai più saremo, insieme, un unico corpo.
Tutto su mia madre
La rinuncia al desiderio che fa la madre di Suzanne e Joseph, alter ego della madre di Duras, è simboleggiata dall’Eden Cinéma, il cinema in cui lei ha lavorato per dieci anni, suonando il pianoforte in una fossa sotto lo schermo, senza poter dunque mai vedere i film. Era una vedova con due figli, e li teneva accanto a sé addormentati sulla panca, avvolti da coperte domestiche, per impietosire il direttore della sala e scongiurare un licenziamento. In quei dieci anni si innamorò una volta di un impiegato del cinema, racconta Joseph, ma non andò mai a letto con lui, perché «credeva come una stupida di non averne il diritto, affinché loro due», i suoi figli, «potessero farlo un giorno». A questo pensa Joseph mentre fa sesso con Lina, la donna che ha incontrato proprio all’Eden Cinéma. Una donna più grande, quasi una madre, una donna con un marito di nome Pierre, lo stesso del fratello maggiore di Duras.
La madre di Duras si chiamava invece Marie, come la Madonna, e come lei aveva partorito senza mai conoscere il piacere. La madre di Suzanne e Joseph non ha nome, è la madre per antonomasia, esattamente come Maria, ed è «vergine di qualsiasi familiarità con le potenze del male». Nella lettera che scrive agli agenti di Kam, responsabili della sua disgrazia, la madre racconta del giorno «glorioso» in cui, «devotamente», consegnò loro tutto il denaro che aveva risparmiato: «Come se Le avessi portato il mio stesso corpo in sacrificio», dice, «come se dal mio corpo sacrificato stesse per fiorire un intero avvenire di felicità per i miei figli».
La madre diventa, in questa lettera, l’agnello sacrificale, che si immola per i figli: «Martire d’amore per noi», è scritto ne Il nero Atlantico. Ma quei figli sono suoi e basta, non sono tutti i figli di Dio, l’umanità intera. E quel sacrificio non è un disegno divino da compiere.
Se può sembrare che a tradirla sia stata, paradossalmente, la sua innocenza, l’ingenuità che ha consentito ai funzionari coloniali di truffarla, io credo che la condanna venga in realtà dalla sua stessa hybris. Lei, una donna, un essere umano, ha preteso di costruire un Eden per i propri figli, neanche fosse stata Dio. La madre si è sostituita a Dio. Un peccato mortale, punito con una terra sterile. E con la morte, che aleggia nel romanzo fin dalla prima pagina. Ne è un preludio la sorte del cavallo, «ben più vecchio della madre», che come lei «ne aveva abbastanza di vivere, preferi[va] lasciarsi morire».
A onor del vero, non sempre la madre si lascia morire. È colpita da una crisi, poi riemerge: deve nutrire i suoi figli, che importa se con «quella porcheria di fenicottero», deve lottare senza tregua per manutenere il suo Eden, nella speranza che un giorno diventi fertile e che i figli, novelli Adamo ed Eva, possano prosperarvi, se non in eterno, almeno finché lei non esalerà l’ultimo respiro e chiudendo gli occhi smetterà di vederli. Di sorvegliarli.
La madre lotta, ma Adamo ed Eva scalpitano per oltrepassare il recinto. La diga crolla, la terra è inondata, è una terra di sale. La giovinezza pulsa nelle tempie come un uccello ingabbiato. E alla fine muore, la madre, perché – anche se ha avuto l’arroganza di costruire un Eden terreno – lei non è Dio. Come noi, è mortale.
È sintomatico che un ventenne pensi a sua madre mentre fa sesso, anche se con un sentimento di pietà, o di colpa, perché sta per abbandonarla, perché nella notte in cui al cinema ha conosciuto Lina il miscuglio di alcol e bramosia l’ha reso di colpo intelligente, e quell’intelligenza contiene la crudeltà inevitabile, ragionevole, dell’abbandono. Nella sincronia tra coito e pensiero rivolto alla madre, c’è qualcosa di incestuoso.
Il cinema è connesso al desiderio erotico, è il personaggio di Carmen a decretarlo: «Prima di far l’amore veramente, lo si fa al cinema, diceva. Il grande merito del cinema era di far venire la voglia ai ragazzi e alle ragazze di fuggir di casa, di renderli impazienti».
Vagando per la città coloniale con il vestito stretto e corto di Carmen, un vestito da prostituta, in testa un cappello di paglia e in mano la borsetta di sua madre, Suzanne si sente osservata come «una bestia indecente», e per nascondersi allo sguardo altrui si rifugia proprio in un cinema, dove assiste a una scena d’amore, benché mostruosa. La «notte artificiale e democratica» del cinema la tranquillizza, è benefica più «di tutte le chiese», consola di ogni vergogna, come il sacramento della Confessione, lava la giovinezza delle sue macchie.
È il sesso a rendere uguali, a far piangere di gioia? È il desiderio – che chiunque prova (pure la madre, sebbene non lo soddisfi) – a essere democratico?
Uscita dalla sala, Suzanne cerca Joseph: il bisogno di incontrarlo è ormai irresistibile. Anche questa è un’allusione incestuosa. Se facendo l’amore con Lina, d’altronde, Joseph pensa alla madre, quando si fa vedere nuda da M. Jo Suzanne pensa al fratello: è a lui che vuole dare il grammofono, moneta dello scambio tra lei e il suo spasimante.
Il cinema è però anche il nido in cui, mentre suona il piano, la madre custodisce i propri bambini. È un luogo che evoca il suo fantasma di fusione con i figli e il loro fantasma di ritorno nell’utero.
Si chiama appunto Eden, questa sala, porta cioè il nome di qualcosa che viene prima della vita vera, il nome del luogo in cui si vive solo fra consanguinei, sottratti alla conoscenza del mondo.
La madre vuole i figli accanto a sé: quantomeno Joseph, la cui assenza le farà scoprire un dolore nuovo, più profondo del dolore sopraggiunto al crollo della diga; con Suzanne è diverso, ha sempre progettato di sposarla, ma è pur vero che dubita possano chiederla in moglie, priva com’è, quella diciassettenne, di dote e di grazia. Nell’accanimento con cui li trattiene, inconsciamente incestuosa nei confronti del figlio maschio, la madre diventa inconsciamente complice dell’incesto tra fratello e sorella.
Sperare stanca
L’infanzia nella piana è una «calamità». I bambini sono come le piogge, le inondazioni, arrivavano «a maree regolari», ne muoiono così tanti che la melma è piena dei loro corpi sepolti, così tanti che non li si piange più. Sono troppi, i bambini, se non morissero infesterebbero la piana, e i genitori li darebbero ai cani, li abbandoneranno al margine della foresta: «Bisognava pure che ne morissero. La piana era stretta e il mare non si sarebbe ritirato per secoli ancora, contrariamente a ciò che la madre continuava a sperare»; è stata quella speranza «infaticabile, inguaribile», a logorarla.
L’infanzia nella piana racconta la lotta per la sopravvivenza e la condanna a morte di ogni essere vivente. È un tassello del mosaico con cui, libro dopo libro, pièce dopo pièce, film dopo film, Duras ha composto la sua ontologia del dolore.
Non è un Eden accogliente, la piana, è uno spazio concentrazionario, da cui Suzanne e Joseph vogliono evadere, e pur di riuscirci sono disposti a uccidere chi lo ha creato, la loro unica, adorata divinità mortale. La loro madre.
«Tutte le paure dei bambini venivano di là, da Dio. […] Amavano la crudeltà della madre. Amavano la madre. […] La madre era causa di molta della loro paura, della loro paura infantile», scrisse Duras ne La pioggia d’estate. Joseph e Suzanne la vincono, quella paura, perché non possono fare a meno di sperare. Per questo abbandonano l’Eden: non è una cacciata, è un’autoespulsione.
In fondo, neppure Adamo ed Eva sono rimasti: hanno violato la comunione con Dio perché neppure loro potevano macerare nell’infanzia, nella stasi eterna che somiglia alla morte, non alla vita.
La diga edificata dalla madre era un argine per trattenere i figli, tutto ciò che lei aveva, il suo unico tesoro, il suo unico potere. Ma l’impeto del mare, l’impeto con cui il desiderio spinge ogni individuo verso il fuori, verso l’altro, è stato più forte. La madre non è stata tradita soltanto dal mare, è stata tradita anche dai figli.
Per loro era l’unica maniera per staccarsi dall’utero, per non morire assieme a lei. «Io non potrò mai ridiventare un bambino», dice Joseph, «anche se lei muore me ne andrò». Nessuno di noi, nessuno, può ridiventare un bambino: ecco perché la logica elementare delle sue parole ci sbrana.
Una diga sul Pacifico di Marguerite Duras è pubblicato da Einaudi nella traduzione di Giulia Veronesi.
Da millenni l’oceano invade la piana. Non ci si può fare nulla perché nulla cambia mai davvero in quella terra liquida e sconfinata, dominata dal sole: è questa la verità a cui non vuole rassegnarsi la madre di Joseph e Suzanne. Il Pacifico le ha già portato via tutto, lasciandola sola con la miseria, coi suoi debiti e coi suoi figli, eppure lei non rinuncia a sperare di poterlo arginare, di poter coltivare quel terreno preso in concessione ed essere un giorno ricca, forse anche felice. E così aspetta. Ma Joseph e Suzanne invece sono stanchi di aspettare, hanno fame di una vita che sentono sfuggire via dalle mani e che temono di non poter più riafferrare.
Un libro in cui risplende nitida, spietata e dolente tutta la luce della grande letteratura. Il romanzo che ha rivelato al mondo Marguerite Duras, una delle scrittrici più importanti del Novecento.
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