Quella femminista è stata la più grande rivoluzione pacifica del Novecento. Ha rotto millenni di sottomissione, in cui le donne non godevano di autonomia, non erano titolari di diritti e non avevano facoltà di decidere per sé. 

Ma è incompiuta, non solo perché abbiamo ancora traguardi da raggiungere, ma anche perché in alcuni paesi non ha mai preso corpo, e in tante non sono titolari di diritti. In Afghanistan, dove il ritorno dei talebani ha cancellato venti anni di evoluzione in materia di diritti; in Arabia Saudita, dove la discriminazione e la marginalizzazione di genere sono assai radicate; in Yemen, con le sue spose bambine, ultimo paese al mondo per eguaglianza di genere.

I rampolli delle case reali arabe vengono mandati all’estero per formarsi e aprirsi, ma questo non li salva dall’applicare una visione ottusa e misogina al loro rientro in patria. Una rivoluzione non può dirsi compiuta se i suoi effetti raggiungono solo una parte della popolazione femminile.

Ha affermato Enrico Berlinguer il 4 marzo 1984, durante la VII Conferenza nazionale delle donne comuniste:

Una cosa però noi abbiamo acquisita, come Partito comunista italiano: che in Occidente la rivoluzione […] può esserci solo se ci sarà anche la rivoluzione femminile, e che se non c’è la rivoluzione femminile non ci sarà alcuna reale rivoluzione. […] Ma abbiamo acquisito anche un’altra cosa […]: liberando sé stesse [le donne] contribuiscono a liberare tutta l’umanità. E quindi anche i maschi.

Parole sante, mi viene da commentare. 

Cos’è infatti il femminismo?

È l’esatto opposto di un movimento che prova a spodestare gli uomini, al contrario del maschilismo che è un fenomeno rivolto contro le donne. 
Femminismo è lotta alle discriminazioni e affermazione dei diritti. Delle donne e, di conseguenza, di tutti.

Femminismo non è soppiantare i maschi sostituendosi a essi, ma porre le basi per una società più giusta, inclusiva, capace di cogliere e valorizzare le differenze. Chi crede in questa prospettiva dovrebbe essere naturalmente femminista. Il maschilismo avalla le discriminazioni; il femminismo le rifiuta e le cancella.

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Femminismo non è una parolaccia. Su questo termine, nel nostro paese, è stata compiuta una manipolazione che ne ha stravolto il significato, dando accezione negativa a un movimento che ha avuto una grande forza e un impatto positivo sulla società, rendendo caricaturali le donne che lo professano: cattive, sciatte, non attraenti, mascoline, arrabbiate con gli uomini. E questo ne ha negativamente condizionato la percezione nell’opinione pubblica.
Io sono femminista. E parlo femminista; proprio come è stampato su una felpa che mi hanno regalato in Canada, paese dove nei negozi d’abbigliamento maschile se ne vendono di tanti colori, con la scritta: «Je parle féministe». Come parlano femminista nel Regno Unito, dove è considerato un fatto cool, per cui tutti si fregiano di essere considerati femministi; perfino i conservatori rivendicano la necessità di instaurare una società egalitaria.

Mentre in Italia uomini e politici – tranne rare eccezioni – si guardano bene dall’affermare in pubblico di essere femministi. Innanzitutto perché non lo sono, poi perché non reputano importante doverlo essere, in quanto lo ritengono «roba da donne». Infine, se pure avessero una particolare sensibilità al riguardo, non lo direbbero comunque, perché hanno paura di perdere credibilità agli occhi dei maschi.

E persino tante donne e ragazze in Italia prendono le distanze dal femminismo, ritenendolo un fenomeno superato e inutile. Anche per questa lettura superficiale, che ha generato un crescente disimpegno delle giovani sui temi della parità, dopo aver percorso tanta strada abbiamo subito una battuta d’arresto, e per la prima volta dal 1946 i nostri diritti sono a rischio. Quelli già conquistati e quelli ancora da conquistare.

Il protofemminista italiano Salvatore Morelli aveva auspicato un «Risorgimento delle donne». Faccio mio il suo auspicio e dico che noi, oggi, dobbiamo dare vita a un Nuovo Risorgimento delle donne, a una Nuova Rivoluzione Femminista. È tempo di rilanciare i diritti riconosciuti nei codici e praticare nella quotidianità la parità tra uomo e donna. Un percorso di consapevolezza che comincia a scuola e ci deve accompagnare nel nostro modo di vivere, di pensare, di parlare. Un cambio di prospettiva e di paradigma per aprire la strada a una società più giusta e sostenibile.

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E abbiamo bisogno anche di una nuova stagione di mobilitazione generale delle donne, soprattutto di superare le frammentazioni del movimento femminista, che non riesce a impattare come si dovrebbe sull’opinione pubblica proprio a causa di queste tante divisioni.

«Io ho troppo vissuto, per non avere un forte scetticismo sulla efficacia dell’opera collettiva femminile» scriveva Matilde Serao nel 1916 in Parla una donna. Diario femminile di guerra:

Come negare l’ardore, lo zelo, la buona volontà di ogni donna, in tutti i comitati e sottocomitati, in tutti i patronati, in tutti i protettorati? Ma quando questi ardori e queste buone volontà femminili si riuniscano, in quindici, in trenta, in cinquanta, esse sono così diverse e contrarie, così svariate e ostili, che finiscono per dissolversi scambievolmente. […] e più cresce il numero delle intervenute a queste raccolte femminili, più diventa quasi invitta una resistenza passiva, a ogni proposta che non sia antiquata e trita, a ogni progetto, che non sia segnato e consunto dal tempo e dall’uso. È esagerato, forse, il mio pessimismo? Facciamo che non sia più così.

Siamo milioni, e dobbiamo riuscire a generare quella forza capace di trasformarci in un’unica rete. Su questo noi donne dobbiamo concentrarci: essere unite e strategiche. E puntare verso uno scopo ben preciso: il diritto a vivere bene, non quello a esistere e basta. Il diritto ad avanzare ed essere rispettate.

Tenendo a mente un punto: se non cambiamo innanzitutto la nostra quotidianità, se non rifiutiamo le tante piccole e grandi ingiustizie avallate come normali da millenni di pregiudizi, non vi sarà mai quel mutamento necessario, appunto, per vivere bene e non esistere e basta.

Lo faremo?

Investiremo le nostre energie per impedire che quello che ci danneggia si ripeta? Siamo disposte ad affrontarne le conseguenze?

Questo testo è un estratto del libro di Laura Boldrini Questo non è normale. Come porre fine al potere maschile sulle donne, edito da Chiarelettere (272 pagine). 

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