«Restituire agli italiani l’orgoglio di essere tali. Dare loro uno stato degno del suo grande popolo, nel quale identificarsi. Un’impresa che oggi sembra impossibile». Eccolo qui, in due righe, il progetto di Giorgia Meloni, consegnato al libro-intervista con Alessandro Sallusti pubblicato da Rizzoli in occasione di un anno dalla vittoria elettorale del 25 settembre 2022.

Un orizzonte meta-temporale e meta-spaziale, oltre la storia e certamente fuori da quella cronaca che anche nelle ultime ore ha messo il suo governo di fronte a questioni molto più prosaiche, dalla crescita economica che vira al ribasso alla scrittura della prossima legge di Bilancio povera di risorse, fino agli sbarchi che un anno fa erano 70mila – ma tanto bastava alla candidata Meloni per invocare il blocco navale – e che nell'ultimo fine settimana hanno superato i 132mila dall’inizio del 2023.

Una questione epocale come lo spostamento del continente africano, ma in forme ancora gestibili (siamo molto lontani dalle previsioni di inizio anno di Europol e Interpol, 800mila migranti pronti a partire per l’Italia, e dai due milioni nei prossimi anni di cui parlano i report arrivati al sottosegretario Alfredo Mantovano), si trasforma nelle parole della premier in una emergenza, da affrontare con i ritmi politici e comunicativi concitati e ansiogeni delle emergenze. Blitz sui luoghi, conferenze stampa lampo, volti scuri e accigliati per dimostrare impegno. O l’epica o l’emergenza.

Assenza di progetto

In mezzo c’è un’assenza di progetto che però per paradosso rassicura le cancellerie e i media internazionali e anche un pezzo del navigato establishment italiano. Nessuna rivoluzione, riecco la cara, vecchia, solita Italia che naviga a vista, tira a campare, gestisce l’esistente, amministra e occupa il potere, soltanto con qualche intemperanza verbale in più, con attorno gli stessi cerimonieri e lobbisti di sempre.

Eppure la prima presidente del Consiglio donna, la prima a provenire dalla storia che parte dalla Repubblica di Salò e arriva al berlusconismo, si era presentata come l’underdog di rottura. La fondatrice di una nuova destra, dopo quella costruita trent’anni fa da Silvio Berlusconi, con la dichiarazione del 23 novembre 1993 di Casalecchio di Reno: «Se fossi cittadino di Roma per il Campidoglio voterei Gianfranco Fini».

Anche Giorgia Meloni avrebbe votato per Fini (all’epoca), se avesse potuto, ma nel 1993 non era ancora entrata nella maggiore età. Oggi il berlusconismo sembra già un ricordo remoto, a soli tre mesi dalla morte di Berlusconi. Quel che il fondatore di Forza Italia ha lasciato ai successori è il suo tratto più significativo. Non esiste il passato, e quindi non esiste neppure il futuro, nonostante le roboanti affermazioni di principio. Esiste solo il presente, è il presente il tempo in cui consumare progetti, ambizioni, vanità.

Senza un orizzonte

Giorgia Meloni è in questo la più fedele erede del berlusconismo (insieme a Matteo Renzi). Non c’è, nel percorso di Meloni, quello che è stato il taglio dei parlamentari o il reddito di cittadinanza per i Cinque stelle, o la riforma costituzionale per Renzi, o il sol dell’avvenire del federalismo e dell’autonomia per la Lega prima maniera, e neppure il sempre vagheggiato taglio delle tasse per Berlusconi.

Meloni vive nel presente, si muove alla giornata, senza un orizzonte definito. Solo questo conta, pasolinianamente, il tempo dell’eterno presente: «Solo l’amare, solo il conoscere conta, non l’aver amato, non l’aver conosciuto...».

Un anno fa, la sua vittoria elettorale arrivò come figlia del Caso, il dissolversi estivo dell’unità nazionale che reggeva il governo di Mario Draghi, e dell’Occasione. Per Giorgia Meloni la congiunzione astrale ha presentato un allineamento di condizioni politiche favorevoli su cui nessuno ha potuto contare negli ultimi trent’anni, neppure Berlusconi, solo (forse) Renzi nel suo primo anno di governo.

Condizioni favorevoli

Un quadro internazionale di guerra che premia anche in Europa la stabilità delle leadership e restringe gli spazi di manovra per le opposizioni, con la centralizzazione dei poteri nelle mani dell'esecutivo e di quel ristretto cerchio che ha accesso al deep state (Difesa, apparati di sicurezza, intelligence). La possibilità di esercitare un’egemonia dentro la maggioranza.

Un’opposizione molto più che lacerata e divisa, è inesistente come possibile alternativa perché almeno due partiti, i Cinque stelle di Giusppe Conte da un lato e Azione di Carlo Calenda dall’altro, non sono neppure disponibili a riconoscersi in uno schieramento con il Pd, considerano la parola sinistra una parolaccia, la coalizione un cappio, il partito di Elly Schlein un campo di conquista.

Melonizzare l’Europa

In queste condizioni Meloni dovrebbe avere le praterie per realizzare il suo programma. Al fondo, il progetto del melonismo del governo si riassume nell’operazione di italianizzare l’Europa e melonizzare il centrodestra europeo. Trascinare Ursula von der Leyen (in campagna elettorale anche lei) a Tunisi o a Lampedusa o nella Romagna alluvionata significa suggerire che l’Europa segue l’agenda dell’Italia.

Reclamare un nuovo bipolarismo europeo, perché l’alleanza popolari-socialisti sarebbe «innaturale», con il patto Ppe-conservatori (già tramontato), consente a Meloni di tenersi in equilibrio sul filo: chiedere più Europa, perché l’Italia non ce la fa da sola, e meno Europa come soggetto politico sovranazionale, perché per i nazionalisti l’Europa è il saloon del far west. Ma quel progetto è nel guado, dopo le elezioni europee 2024 si prevede una maggioranza Ursula allargata, con tutti dentro, o quasi.

Più vaga sembra la riforma della Costituzione in senso presidenziale. Il premier eletto direttamente dal popolo sarebbe la fine della Carta del 1948 e la messa in mora del presidente della Repubblica, ma in assenza di accordi blindati Meloni esita ad attivare strumenti come la commissione Bicamerale o il referendum renziano. Sa bene che, con il parlamento ridotto in questo stato, non è necessario riscrivere la Costituzione, agli occhi dei cittadini i pieni poteri per la premier sono già arrivati, bisogna solo esercitarli. Una caduta degli alibi che per ora non si è tradotta in un calo di consensi elettorali.

Identificare il nemico

In questa palude viene a mancare la figura centrale della narrazione meloniana: il nemico. Come si è visto la settimana scorsa, quando la premier ha cercato di scaricare le difficoltà dell’accordo Europa-Tunisia sulle manovre di una imprecisata sinistra europea, oltre che sui soliti disfattisti interni o sui gufi, oppure quando ha accusato i magistrati di essere «in campagna elettorale per le europee», che fa tanto berlusconismo vintage, mentre nel libro-intervista se la prende con il sempreverde George Soros, 93 anni.

Avversari poco spendibili per mobilitare l’indignazione delle masse. Con l’opposizione in macerie, la società civile anestetizzata, non si vedono girotondi in vista, la stampa in una stagione di grigio conformismo, il nemico di Meloni è in casa: l'elenco di uscite a vuoto, azioni maldestre, gaffe accumulate dai compagni di partito e dai familiari, di volta in volta silenziati.

L’ultima, l’attacco al direttore del museo egizio di Torino Christian Greco, è stata ridicolizzata da un intellettuale certo non ostile come Giordano Bruno Guerri. La mancanza di classe dirigente costringe l’altisonante richiesta di un nuovo racconto culturale del Paese a restringersi in circuiti più asfittici e noti: nomine, cambi di poltrone, organigrammi, cda. La sfiducia porta ad accentrare tutte le decisioni nelle mani dei fedelissimi e della famiglia, come segnalato nelle settimane scorse da Giovanni Orsina ed Ernesto Galli della Loggia.

Giorgia Meloni continua a ripetere che la legislatura durerà cinque anni. La durata a palazzo Chigi è già diventata un fine in sé, perseguito con innegabile abilità e intelligenza, come facevano i cultori della stabilità dorotea di decenni fa. Ma nulla esclude che l’incantesimo possa essere sciolto nel 2024. E che Meloni venga messa di fronte all’alternativa: compiere uno strappo con la sua tradizione, o continuare a ripetere all’infinito di non essere cambiata. E, nel caso, chiamare di nuovo gli elettori al voto, per confermarlo.

Meloni anno zero

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