Questa elezione presidenziale presentava una novità assoluta: l’inesistenza di una maggioranza politica. La coalizione che sostiene il governo Draghi non ha connotazioni politiche, estendendosi da Speranza a Salvini: è stata fermamente proposta dal presidente Mattarella per sbloccare una situazione di stallo.

L’incarico a Mario Draghi nasceva con una latitudine politica così ampia perché si doveva “limitare” a perseguire due obiettivi: gestione della pandemia e  messa in cantiere del Pnrr.  Una sorta di riedizione dei governi di emergenza e di solidarietà nazionale come già altri nel passato. 

Di conseguenza, nella scelta del Quirinale la coalizione governativa poteva indirizzarsi consensualmente solo su due figure, il presidente del Consiglio e il presidente della Repubblica. Ogni altra opzione o emergeva da una lunga, e inevitabilmente laboriosa, trattativa tra tutte le parti, o provocava lacerazioni inguaribili. 

Nel passato, in tutte le elezioni presidenziali – meno una –  il presidente nasceva da un accordo politico interno alla maggioranza di governo. In un solo caso , nel 1971, nell’elezione più lunga della storia, protrattasi per 23 votazioni, la maggioranza si divise e, alla fine, il presidente emerse grazie ai voti, decisivi, dei neofascisti del Msi. Quello strappo provocò un terremoto politico: rapida caduta del governo in carica, elezioni anticipate (le prime), e una nuova formula politica più sbilanciata a destra, con l’esclusione dei socialisti e il ritorno del Partito liberale nell’esecutivo post-elettorale.

In seguito, anche dopo il 1994, i presidenti sono sempre stati espressione delle maggioranze politiche, a volte votati solo dalle forze di governo, Napolitano e Mattarella, altre volte con un consenso molto più ampio, Ciampi.

Il caso ha voluto che quando si arrivava all’appuntamento con il Quirinale il timone del governo fosse in mano al centrosinistra. E quindi il centrodestra non ha mai avuto voce in capitolo.

In questi giorni i leader di questa area, confortati da sondaggi favorevoli, hanno ripetutamente reclamato il diritto ad eleggere un loro candidato. Una rivendicazione di pari dignità un po’ lagnosa, nella quale risuonava un certo inferiorty complex, una richiesta di pieno riconoscimento.

In effetti, il problema esiste. Ma non per cattiveria degli avversari. È il Dna della destra nostrana a presentare un deficit strutturale quanto a cultura delle istituzioni, rigoroso rispetto dello stato di diritto, e collocazione internazionale europeista.

La destra forzaleghista si è sempre posta in una posizione borderline rispetto ai fondamentali del sistema politico democratico, contrapponendo la forza della volontà popolare alle logiche della rappresentanza. Da questo humus non possono sorgere figure con una caratura istituzionale inattaccabile.

Il solo pensare che Silvio Berlusconi presentasse un profilo adeguato dimostra quanto questo mondo sia lontano dall’idea di quali sono i requisiti minimi per svolgere una funzione di garanzia istituzionale.

Nonostante ciò, e a dispetto dei numeri, i partiti di destra si sono ritenuti in diritto di imporre un loro candidato. E così sono andati a sbattere. Il naufragio della Casellati è stato degno del Titanic.  E ora tutto il centro-destra è in subbuglio.

In Forza Italia è partita la caccia a chi ha lanciato i siluri contro la presidente del Senato affossando ogni speranza di ritornare ad essere un partito centrale.

La Meloni ha perso la grande occasione per passare da capopolo a leader politico di uno schieramento: è rimasta inossidabile nella sua opposizione a tutto e a tutti, un misto tra il grillismo d’antan e il vecchio Msi.  

Salvini ha dimostrato di essere un capitano alla Schettino visto che ha condotto la sua nave ad arenarsi per sicumera e arroganza. Il leader leghista è comunque tenace e pur di sopravvivere scaricherà le tensioni interne sul governo chiedendo di contare di più e soddisfare così la sua ala governista.

Anche tra i 5Stelle si levano venti di guerra. Di Miao ha subito chiesto conto della disastrosa gestione di Giuseppe Conte.  Le sue giravolte hanno oscurato l’indicazione che i gruppi parlamentari pentastellati avevano dato, a sorpresa, già prima delle votazioni, per la rielezione di Mattarella; nonché il loro contributo silenzioso a far lievitare il consenso parlamentare al presidente, voto dopo voto. Invece di intestarsi una primogenitura dell’esplicito invito alla rielezione, il capo politico del M5s si è perso in una girandola di posizioni fino a minare l’intesa con Letta. Se c’è un leader politico in bilico, questo è proprio Conte.

L’unico che può dormire sonni tranquilli sta al Nazareno. Enrico Letta ha potuto dar seguito al suo iniziale auspicio: «Mattarella sarebbe il massimo», aspettando sulla riva del fiume i resti dei suoi avversari.  Ha giocato di rimessa. Ed è persino riuscito nell’impresa di tenere unito un gruppo frammentato come quello dei democratici. 

Al di là delle scosse immediate si impongono alcune scelte strategiche. A destra la Lega dovrà scegliere se contrastare l’ascesa della Meloni radicalizzandosi ulteriormente o ammorbidirsi per inglobare i resti di Forza Italia. A sinistra i 5Stelle dovranno decidere chi e cosa sono: ancora populisti anticasta, interpreti delle fasce sotto-privilegiate del mezzogiorno, alfieri della transizione ecologica e digitale, araldi della democrazia diretta? Oppure vogliono diventare espressione di un centrismo protodemocristiano solidale che “guarda a sinistra”?  Il sistema partitico è alla vigilia di un’altra mutazione.

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