Secondo Eurostat, l’Italia è il paese europeo in cui ci si sposa di meno. Il trend, decrescente da molti anni, ha portato il nostro paese ad avere un tasso di 1,6 matrimoni ogni mille abitanti. Del resto ci si sposa sempre meno e sempre più tardi in ogni parte del mondo per una lunga serie di motivi sociali, economici e politici che hanno a che fare principalmente con il fatto che lo status di coppia e di famiglia è considerato accettabile anche se non legalmente riconosciuto e che ci sono meno soldi.

Ci dovrebbe quindi stupire il fatto che il mercato del bridal wear, cioè dell’abbigliamento da matrimonio, abbia un tasso di crescita del 4,4 per cento annuo e si stima che arriverà a toccare gli 80 miliardi di dollari mondialmente entro il 2027.

Questa strana situazione ci racconta uno scenario in cui per sposarsi si va meno in chiesa con i parenti e più su una spiaggia hawaiana con gli amici ma il rito in sé (esattamente come è successo al super instagrammato matrimonio di Kourtney Kardashian a Portofino) prevede quasi sempre uno splendido abito bianco per la sposa e quasi sempre un formalissimo abito scuro per l’uomo. Cioè, forse il matrimonio non è più il coronamento di un sogno d’amore ma il vestito da sposa rimane una parte integrante della sua metafora.

Non molti sanno però che esiste un preciso significato culturale attribuibile al matrimonio e che non solo l’abito ma tutto il cerimoniale, dalla torta al velo, alle damigelle, al pranzo con i parenti, sono una prassi che ci segue (o perseguita) in questa forma almeno dall’Ottocento, un periodo storico in cui attorno ai matrimoni viene costruita una vera e propria rappresentazione teatrale.

Quello che noi oggi chiamiamo matrimonio per interesse o matrimonio combinato era fino a poco tempo fa semplicemente un matrimonio. Le complesse meccaniche di spartizioni dell’eredità o di successioni al trono venivano gestite attraverso unioni consacrate dal rito religioso che erano in realtà fusioni societarie o nel migliore dei casi scritture private o patti parasociali.

Come ci racconta Valeria Pinchera nel volume dedicato alla moda della storia d’Italia, «intorno alla metà dell’Ottocento, dopo la scelta di un candidato idoneo da parte del padre della ragazza, che soppesava i vantaggi di contro alle potenziali richieste di dote, venivano avviate le contrattazioni tra famiglie». A questo punto, la famiglia del futuro marito valutava sia la dote della promessa sposa sia la sua capacità riproduttiva (Dio solo sa come). Poi un sensale avviava i negoziati, che venivano portati a termine con la mediazione di amici delle due famiglie.

Se si giungeva a un’intesa, i genitori dei due giovani sottoscrivevano la cosiddetta «scritta di parentado», quindi finalmente i promessi sposi si incontravano, lui le donava un anello o altre gioie, e la famiglia della sposa offriva una cena per festeggiare l’evento. «Avveniva poi la cerimonia nuziale vera e propria. L’autorità celebrante e lo scenario variavano da regione a regione. Spesso il tutto si svolgeva in casa della sposa, davanti a un notaio che chiedeva ai due di manifestare il proprio consenso d’amore. L’evento nuziale veniva quindi suggellato con l’anello.» La parte finale della cerimonia era costituita dalla traditio (cioè il trasporto) della sposa, scortata da un corteo di cavalieri e musici, e dai bauli del corredo, nella casa natale dello sposo.

Di questo complesso meccanismo, a metà un consiglio di amministrazione e una messa in scena teatrale della perfetta felicità, oggi ci rimane solo la parte visibile, i festeggiamenti, e forse il vero amore, ma è giusto ricordare in maniera chiara quali siano le radici del matrimonio.

Le radici

La Chiesa cattolica dimostra interesse per il matrimonio con il Concilio di Trento del 1563 obbligando a consumare almeno una parte dello spettacolo alla presenza del parroco.

Del resto il matrimonio non è sempre stato un sacramento, per i cattolici: lo è diventato nel 1215 con il Concilio Lateranense IV. Questo per dire che il rito del matrimonio è passato attraverso molti stadi che ne hanno solidificato il significato sociale e ne hanno scritto in maniera sempre più precisa il cerimoniale.

Detto che il matrimonio è un rito che ha radici economiche, è anche vero che a partire dall’Ottocento la sua rappresentazione simbolica si struttura in una maniera molto più chiara e di fatto vicinissima a quella che è ancora oggi e ruota principalmente intorno a un ricchissimo, vaporosissimo e romanticissimo abito.

Anche se l’abito da sposa non è sempre stato bianco, ha sempre avuto un significato fondamentale nella compravendita familiare in atto: dal Medioevo in poi è uno degli oggetti di più alto pregio che la sposa porta in dote.

Il valore che ancora oggi attribuiamo agli abiti da cerimonia, e nello specifico a quelli da matrimonio, discende dal fatto che il corredo di vestiti con il quale una donna andava in sposa a un uomo aveva un costo che era stimato al centesimo e che era parte fondante delle contrattazioni tra famiglie, perché di fatto una donna che arrivava all’età da marito senza possibilità di costruirsi una dote non avremmo mai potuto avere la possibilità di sposarsi.

Il giorno del matrimonio serviva quindi a dimostrare il livello economico di quell’unione e dunque l’appartenenza a una determinata classe sociale o fazione politica.

Sempre più bianco

C’è un momento, però, in cui questo abito diventa per sempre bianco e si trasforma nell’oggetto che ancora oggi conosciamo. Si tratta dell’era vittoriana, tra il 1837 e il 1901. Quando la regina Vittoria d’Inghilterra si sposa con Alberto di Sassonia-Coburgo-Gotha nel 1840 e decide di indossare un vistosissimo e ricamatissimo abito bianco, venendo meno a una tradizione di abiti dalle tinte vivaci o assolutamente neri, l’evento restituisce l’immagine di una donna innamorata, non più di una regina che si sposa per la ragion di stato ma di un fragile essere umano che convola a nozze perché ogni volta che vede il suo promesso sposo sente battere il cuore.

La regina Vittoria, che vive dal 1819 al 1901, sarà la testimone del periodo di maggiore espansione colonialistica e crescita industriale del Regno Unito ed è giusto ricordare come Alberto non abbia mai provato per lei nessun sentimento se non quello della riconoscenza per avergli permesso un’ascesa sociale invidiabile e che la madre di Vittoria, Vittoria di Sassonia-Coburgo-Saalfeld (sì, era un matrimonio tra consanguinei), venne praticamente relegata a vita dalla figlia in una remota stanza di Buckingham Palace perché non interferisse nelle sue decisioni.

La regina sarà sempre molto ferma, durante tutto il corso della sua vita, nel riavvicinare il popolo ai valori tradizionali della famiglia di cui la monarchia si era fatta portabandiera, operazione che, anche attraverso il matrimonio, restituisce credibilità alla Corona inglese riportandola al centro del dibattito politico. Vittoria diventa un esempio per il popolo aderendo in maniera ossessiva all’idea di donna di sani principi, principi che è lei stessa la prima a non rispettare, ma che sono utilissimi per fornire un granitico modello di riferimento in cui il conservatorismo diventa segno di solidità morale, sociale e politica. Esattamente come fanno alcuni politici oggi al ritmo di “Genitore uno, genitore 2”.

Da quel momento in poi l’abito bianco diventa un must assoluto in tutte le corti europee ed è esattamente grazie alla regina Vittoria che ancora oggi si sogna di sposarsi in bianco, anche se sono in molti a pensare che quel colore abbia a che vedere con la verginità della sposa. La Chiesa cattolica arriva in realtà successivamente, per la precisione nel 1854 con Pio IX, avvicinando la figura verginale della sposa a quella della Madonna, e spingendo in questo modo l’abito bianco a simboleggiare l’idea di purezza che ancora oggi alcuni gli attribuiscono.

Questione di genere e di classe

Durante tutto il corso dell’Ottocento si struttura quindi una narrazione molto precisa intorno all’abito nuziale: anche se sempre combinato per interesse, il matrimonio diventa un momento in cui una creatura fragile, virginale e innamorata veniva concessa in sposa a un uomo ricco, bello, potente e protettivo. La normatività ritualistica è così potente da radicarsi in maniera profonda nel sostrato culturale di tutti i paesi occidentali, identificando il matrimonio come il momento in cui la “naturale diversità” tra uomini e donne si ricompone e ogni tipo di opposizione viene sciolta.

La divisione netta tra ruolo femminile e maschile, messa così bene in scena dal matrimonio occidentale, non è in realtà l’unica forma di rappresentazione possibile di questo tipo di unione eterna.

L’imperatore del Giappone Naruhito si è sposato con Masako Owada il 9 giugno 1993 in una cerimonia in cui sono stati alternati abiti tradizionali giapponesi e abiti occidentali. Per la precisione, Masako ha messo un jūnihitoe, che letteralmente significa «dodici abiti sovrapposti», 15 chili di broccato di seta che le sue assistenti hanno impiegato tre ore a farle indossare e che è costato la bellezza di 300mila euro.

L’abito di Naruhito, un gigantesco kimono color arancio fluorescente come il sorgere del sole, in apparenza più semplice, non era in realtà molto dissimile da un punto di vista formale da quello della futura consorte. Entrambi gli abiti risalgono al periodo Heian, tra 794 e il 1185 d.C. Se questa parte della cerimonia nuziale si è svolta secondo il rito scintoista nella più assoluta privacy (nel tempio c’erano solo loro due e l’officiante), nel pomeriggio i novelli sposi si sono cambiati indossando abiti da matrimonio occidentali e con quelli sono andati a trovare l’imperatore padre e si sono fatti un giretto in cabriolet per salutare la folla.

In Giappone i vestiti tradizionali hanno avuto sempre e solo un significato di distinzione sociale e non di genere. Un kimono ha le stesse forme per uomo e donna, e per quanto colori e decorazione possano variare, l’impianto formale è lo stesso. L’Occidente è uno dei pochi posti al mondo in cui c’è stata (e c’è ancora) non solo una distinzione netta tra abiti maschili e femminili, ma anche, storicamente, una precisa coincidenza tra i ruoli sociali di uomini e donne e il loro modo di vestire.

Il meraviglioso abito tradizionale giapponese di Masako comunica la superiorità sociale, politica, intellettuale e anche etica dell’imperatrice consorte rispetto al resto dell’umanità, mentre il suo triste abito da sposa occidentale, vicino a quello del marito, racconta una storia di coppia in cui la parte maschile vince su quella femminile e in cui tutta la narrazione si svolge all’interno del nucleo familiare.

Etimologie

Chiuderei con un cenno all’etimologia della parola matrimonio: mater munus è il «compito della madre» in latino, intendendosi ovviamente l’atto che legittima la procreazione, al contrario di pater munus, cioè «patrimonio», che definisce il compito del padre come quello di sostentare la famiglia. E visto che siamo in vena di etimologie, ricorderei anche che la parola «emancipazione» si riferisce alla pratica latina della mancipatio, in cui si sostituiva all’acquisto della proprietà di beni materiali con l’acquisto dell’autorità maritale sulla donna, la quale diventava di fatto un oggetto posseduto dal marito.

Non esiste evidentemente niente di male né nello sposarsi né nel scegliere un abito bianco ma forse dovremmo ricordarci che i significati simbolici degli oggetti sono molto potenti e che, conoscendoli, possono diventare un terreno di discussione, di riconoscimento dei diritti e magari anche di lotta.

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