Nei decenni successivi alla rivoluzione del 1789, per reazione alla radicale e violenta scristianizzazione – il neologismo déchristianiser nasce proprio allora – si diffonde tra i cattolici la definizione della Francia come «figlia primogenita della chiesa». Ma l’espressione fille aînée de l’église, entrata nel lessico papale nel 1896 con il filofrancese Leone XIII, era di molto precedente.

Le sue origini risalgono probabilmente alla devozione dei sovrani franchi per la figlia di san Pietro, la leggendaria Petronilla. Questo legame simbolico voleva sottolineare, a partire dalla metà dell’VIII secolo, il rapporto privilegiato allora stabilito con il papato, che culmina con l’incoronazione imperiale di Carlo Magno – a Roma nel giorno di Natale dell’anno 800 – e non viene dimenticato.

Dalle origini 

Nella realtà storica il simbolo della figlia di san Pietro esprime le antichissime premesse del battesimo, avvenuto nel 496, del sovrano merovingio Clodoveo. Il cristianesimo è infatti presente già nella Gallia romana con figure di prima grandezza. Nel II secolo spicca l’asiatico Ireneo, vescovo di Lione e teologo d’importanza capitale, dichiarato nel 2022 da papa Francesco «dottore dell’unità». Gode poi di una popolarità straordinaria in tutto l’occidente un santo del IV secolo: Martino, il soldato che divide il suo mantello con un povero, si fa monaco e diventa vescovo di Tours.

Se nell’alto medioevo sono dunque i franchi a proteggere e garantire il nascente potere temporale della chiesa di Roma, mezzo millennio più tardi sarà invece Bonifacio VIII a soccombere nello scontro con la nuova monarchia nazionale di Filippo il Bello, che porta il papato ad Avignone.
Dopo la conversione di Enrico IV al cattolicesimo nel 1593, a ogni re di Francia viene assegnato il titolo di canonico onorario di San Giovanni in Laterano, che sarà mantenuto dai capi di stato francesi anche dopo la fine dell’antico regime segnata dalla rivoluzione.

La rivoluzione 

Il 15 febbraio 1798 i francesi sopprimono il millenario potere temporale dei papi, come altre tre volte – nel 1809, nel 1849 e nel 1870 – si ripeterà in poco più di un settantennio, e cinque giorni dopo l’ottantenne Pio VI, costretto a lasciare Roma, viene condotto presso Siena e poi nella certosa del Galluzzo sopra Firenze. Un anno più tardi, ormai semiparalizzato, il papa è trasportato attraverso il Moncenisio innevato nella fortezza di Briançon, poi a Grenoble e a Valence, dove arriva il 14 luglio 1799. Il direttorio vorrebbe farlo proseguire fino a Digione, ma il 29 agosto il pontefice si spegne.

«Sarà l’ultimo papa e la fine della superstizione» assicura uno zelante funzionario. Ma si sbaglia, perché il conclave, riunito a Venezia sotto la protezione dell’imperatore d’Austria, il 14 marzo 1800 elegge il successore, un fragile monaco benedettino.

Pio VII regnerà però ventitré anni e – pur prigioniero di Napoleone dal 1809 al 1814, prima a Savona poi a Fontainebleau – riesce a resistere all’imperatore, che arriva a identificarsi con Carlo Magno e vorrebbe controllare il papato trasferendone la sede a Parigi.

Dopo la restaurazione, la partita tra Francia e Santa sede ha sorti alterne, tra i tentativi monarchici e le quattro repubbliche che si succedono fino a oggi, sommandosi allo scontro tra le «due France» costituite da anticlericali e cattolici, sostenitori devoti e convinti del papato. A ricostruire questi due secoli è ora un libro – dal titolo quasi calcistico (France-Vatican, Perrin) – del giornalista e scrittore Bernard Lecomte, autore tra l’altro della migliore biografia di Giovanni Paolo II.

«Gesù non comandava né proibiva alcuna forma di governo» sostiene Denys Affre, l’arcivescovo di Parigi che nel 1848 muore su una barricata mentre cerca di fare da paciere durante i moti insurrezionali di giugno. E un altro vescovo della capitale, Georges Darboy, viene fucilato nel 1871 durante la «settimana di sangue» che soffoca la rivoluzione della Comune.

La proclamazione dell’infallibilità pontificia nel 1870 e la svolta aspramente anticlericale della massoneria francese nel 1877 vanificano i tentativi di dialogo avviati con la Seconda repubblica e infiammano lo scontro. Fallisce più tardi anche il tentativo di Leone XIII, che per lanciare l’enciclica distensiva Au milieu des sollicitudes concede nel 1892 la prima intervista papale a un quotidiano, Le Petit Journal, molto diffuso. A causa dell’antisemitismo di molti cattolici le tensioni si aggravano durante l’affare Dreyfus e il conflitto si fa durissimo. E dopo la vittoria di socialisti e radicali nelle elezioni del 1902, viene approvata nel 1905 la definitiva separazione tra le chiese e lo stato.

Il legame resiste 

Nel nuovo secolo l’antico legame tra Francia e Santa sede, benché sottoposto a tensioni e sfilacciamenti crescenti, non si spezzerà mai. Durante la prima guerra mondiale rientrano per combattere contro il nemico invasore religiosi e preti espulsi dopo la separazione del 1905.
Due anni dopo il conflitto viene canonizzata, a sottolineare la distensione, Giovanna d’Arco, proclamata nel 1922 patrona secondaria della Francia – quella principale è dal 1638 la stessa Vergine Maria – insieme a santa Teresa di Lisieux dal nuovo papa Pio XI, che un funzionario del Quai d’Orsay aveva intelligentemente indicato come il candidato migliore per la Francia.

La scristianizzazione riduce però in misura crescente il numero dei cattolici e nel 1943 fa sensazione un libro scritto da due preti: Henri Godin e Yvan Daniel – con il sostegno del cardinale Emmanuel Suhard, arcivescovo di Parigi – si chiedono infatti se la Francia non sia ormai divenuta un «paese di missione». E si scopre la stessa diagnosi in tre documenti ecclesiastici che quasi un secolo prima avevano lanciato l’allarme per «la religione perduta» nella capitale.

Alla crisi reagisce un esperimento innovativo e audace, quello dei preti operai, appoggiato da Suhard e che nel 1947 impressiona favorevolmente il giovane Karol Wojtyła in visita a Marsiglia. Pur sostenuta da cardinali e vescovi francesi, nel 1954 la nuova esperienza viene condannata dal Sant’Uffizio e poco più tardi a essere travolti dalla repressione della curia pacelliana sono i maggiori esponenti della «nuova teologia».

Il vento cambia con l’elezione nel conclave del 1958 di Angelo Roncalli, che tra il 1945 e il 1953 era stato nunzio a Parigi, ma soprattutto nel 1963 con quella di Montini per il quale si adopera con discrezione Charles de Gaulle. È infatti Paolo VI – uno dei papi più francofili di sempre – ad affermare nel 1964 che la Francia cuoce «il pane intellettuale della cristianità» e nel 1973 a rendere omaggio a Jacques Maritain appena scomparso e definito «grande pensatore dei nostri giorni, maestro nell’arte di pensare, di vivere e di pregare».

Indubbio è il contributo francese all’«aggiornamento» voluto dal concilio, aperto da Giovanni XXIII e governato da Montini. I nomi dei teologi protagonisti sono notissimi: Marie-Dominique Chenu, Henri de Lubac, Yves Congar, Jean Daniélou. Con loro ci sono naturalmente i vescovi, primo fra tutti il cardinale Achille Liénart, ma – ancora prima dell’inizio del Vaticano II – anche uno storico ebreo ottantatreenne, Jules Isaac, che nel 1960 induce il pontefice a introdurre nei futuri lavori una questione fondamentale: quella dei rapporti con l’ebraismo.

L’epoca della marginalizzazione

L’ultimo papa a richiamare l’antica definizione della Francia è nel 1980 Giovanni Paolo II nel suo primo viaggio nel paese. «Figlia primogenita della chiesa, sei fedele alle promesse del tuo battesimo?» chiede papa Wojtyła. Alla domanda così radicale segue però il silenzio dei decenni successivi, dal «ritorno della diffidenza» alla «marginalizzazione» dei cattolici, nonostante altri sei viaggi di Giovanni Paolo II in Francia, visitata nel 2008 anche da Benedetto XVI.

Devastante si rivela soprattutto lo scandalo degli abusi, che viene affrontato con coraggio dall’episcopato grazie al rapporto del 2021 sulla pedofilia nella chiesa. Ma a Roma il risultato viene accolto con freddezza e scetticismo, come dimostrano l’annullamento all’ultimo momento dell’udienza papale a Jean-Marc Sauvé e i dubbi sul rapporto espressi dal cardinale Matteo Zuppi.

A papa Francesco, «in fondo, la Francia non interessa. Non è la “sua priorità” si dice pudicamente in Vaticano» scrive Lecomte. Oggi a dichiararsi cattolico è un quarto dei francesi (ma la pratica religiosa non arriva al due per cento): dunque, una minoranza. Che però rispetto ai cattolici di altri paesi mantiene ancora un’invidiabile e vivace creatività.

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