Nel linguaggio si fa esperienza dell’alterità. Quando si dà forma linguistica a pensieri ci si colloca in una dimensione dialogica. La presenza di altri è caratteristica fondamentale dell’esperienza linguistica originaria. Nel verbo comunicare vi è un elemento che si trova anche nel nome latino munus, “bene prezioso”: è “dono”, ricevuto come “ricchezza” da far fruttare. La parabola evangelica dei talenti può aiutare a comprendere i vari significati di munus: vi si auspica che le ricchezze non siano inerti, ma siano generatrici di altre ricchezze.

Così è per le parole scambiate nella comunicazione. Gli interlocutori, agendo verbalmente, possono arricchire la società. Munus si trova, fra l’altro, nel titolo di un’enciclica di Benedetto XV: Pacem, Dei munus pulcherrimum, “la pace, bellissimo dono di Dio”.

Nell’attività del parlare si manifesta anche la capacità umana di comprendere la realtà: nelle e con le parole, condividiamo con altri uno sguardo sul mondo. Con le parole, inoltre, un individuo attesta sé stesso e pone obblighi verso di sé e verso gli altri: l’attività linguistica stabilisce – e cambia – anche i rapporti interpersonali. Essa è dunque caratterizzata nella relazione e nel confronto con la realtà e con gli altri soggetti.

Queste due componenti dell’attività del parlare – la semantica (con le parole verso le cose) e la pragmatica (con le parole verso gli altri) – costituiscono il potere della lingua. In italiano, potere è verbo ed è nome e questo fatto ben descrive la capacità umana del parlare: essa si concreta in un’attività che produce risultati, e questi ultimi guidano, delimitano, condizionano (bedingen) altre attività umane.

Nella comunicazione verbale, chi parla si serve di “utensili” linguistici che circolano nella comunità dei parlanti. Con il risultato dell’atto di parola, gli utensili sono restituiti alla comunità, ma sono – pur impercettibilmente – cambiati, sviluppati, siano essi arricchiti oppure impoveriti. Vi è un repertorio di strumenti linguistici condiviso socialmente e vi sono gli atti creativi individuali. Il repertorio delimita l’ambito d’azione della creatività individuale, e quest’ultima può cambiare la “lettura” delle cose predisposta nel repertorio.

Leggere il mondo

La tensione fra creazione nell’atto di parola e tradizione sviluppata in un repertorio di mezzi espressivi è al centro della riflessione linguistica in ogni epoca. Lingua è il nome che di solito è dato al repertorio, in qualche modo organizzato, di strumenti verbali che sono accessibili a una data comunità umana. Senza le persone che si coinvolgono e si compromettono nella comunicazione, le lingue non esistono.

Secondo Vittore Pisani (tra i maggiori linguisti del Novecento), le lingue sono astrazioni – sono sì elaborate come istituzioni sociali o culturali e hanno funzioni essenziali per la società e la comunicazione pubblica; restano comunque astrazioni. Quel che si osserva è l’atto linguistico, e ogni atto linguistico è di qualcuno e per qualcuno (un altro, che può coincidere con il parlante stesso). Questo vale pure quando, a parlare o scrivere, sia una pluralità di soggetti o sia un individuo che intervenga in quanto riveste un ruolo pubblico oppure ancora dia voce a parole preparate da altri (come avviene per gran parte dei discorsi pubblici).

Ma la lingua non è solo astrazione, perché nelle strutture del repertorio è depositata anche una possibilità di “lettura” del mondo: è la cultura, intesa da Jurij Lotman come il patrimonio trasmesso per via non genetica da una generazione all’altra – un patrimonio in costante riorganizzazione, a seconda degli impieghi fatti dai parlanti.

Il potere della lingua, nella dimensione semantica e in quella pragmatica, può dunque essere rilevato sul piano dell’attività individuale e su quello del repertorio “istituzionale”. Sul piano individuale, l’attrattiva di un messaggio concreto è legata alla novità del punto di vista e al prestigio sociale e culturale di chi lo diffonde. Sul piano del repertorio linguistico, vi è una tradizione che influisce – per lo più in modo inconsapevole – sull’esperienza e sul modo di comportarsi nella vita quotidiana: la lingua si pone come “mondo intermedio” (Zwischenwelt) tra gli individui e “le cose”, è una “ipotesi di lettura” che è costantemente verificata e cambiata nell’attività individuale.

Mode linguistiche

Il prestigio sociale provoca imitazione: anche nella lingua, la moda è motore del cambiamento. Giuliano Bonfante riteneva di poter concludere che la lingua è fatto estetico: obbedisce al gusto, più che al bisogno. Forse esagerava; coglieva, peraltro, un elemento cruciale nella comunicazione verbale: molto di quel che si dice è “parola d’altri”. Michail Bachtin notava che le parole hanno una pluralità di autori e hanno forme cariche di storia e di contesti.

Di solito, non ce ne rendiamo conto, ma ogni nostro atto linguistico è inserito in una comunità discorsiva; in ogni nostra comunicazione attiviamo un mondo condiviso da altri e, spesso, il nostro contributo è limitato a un riecheggiare creazioni linguistiche diffuse da altri. Seguiamo la corrente, aderiamo ai messaggi di coloro che presso il vasto pubblico godono di prestigio, forse anche per paura di essere isolati, di esser tenuti fuori dal “noi” che stabilisce quel che deve essere accettato come autorevole; qui interviene la spirale del silenzio di chi si crede minoranza.

Punti di vista

Grande è il potere di chi abbia prestigio sociale. In ogni epoca, costoro possono usare le parole per influire sulle abitudini linguistiche e diffondere un’interpretazione della realtà. Siamo davvero collocati in un mondo intermedio che ci offre gli strumenti per descrivere il mondo. E sono strumenti elaborati da un centro diffusore, animato da individui autorevoli.

Consideriamo, a titolo d’esempio, alcune espressioni apprese nei primi anni sui banchi di scuola: invasioni barbariche, rivoluzione, restaurazione, progresso e reazione, risorgimento… Sono rivelatrici di punti di vista che si sono affermati nel discorso quotidiano. La prima è stata cambiata di recente: non più invasioni, ma migrazioni, e non di barbari, ma di popoli, come peraltro dice la versione tedesca (Völkerwanderungen).

A seconda della comunità linguistica, la lettura può essere diversa: gli eventi indicati come Seconda guerra mondiale, termine condiviso in gran parte dei paesi europei, sono caratterizzati in Russia come “grande guerra patriottica” (velíkaja otéčestvennaja vojnà); in Finlandia, invece, nella seconda guerra mondiale si distinguono prima una “guerra d’inverno” (in finnico talvisota) e poi una “guerra di continuazione” (jatkosota) che indicano il conflitto tra finlandesi e sovietici.

E certe espressioni fortunate varcano i confini, anche grazie a chi le diffonde. Il termine cortina di ferro è una immagine efficace del confine tra i due blocchi in Europa. La versione originaria era iron curtain e a diffonderla (non però a crearla) fu sir Winston Churchill, in un famoso discorso del secondo Dopoguerra. E il Muro di Berlino? È un’altra invenzione di prestigio internazionale. Nel blocco sovietico, però, la versione ufficiale parlava di un “vallo difensivo antifascista” (antifaschistischer Schutzwall). Punti di vista. Il vallo cadde e si sa come andò.

In modo forse sbrigativo, nelle cronache politiche italiane recenti si è impiegato il termine grande coalizione. È stato ripreso il modello tedesco Große Koalition che, ai tempi della Repubblica di Weimar, denotava una “coalizione ampia”, più larga di quella che c’era di solito nella Weimar dei primi anni. Poi, nella Repubblica Federale, durante gli anni Sessanta, il termine fu ripreso con un senso simile. Giunse in Italia, e nel ricalco l’aggettivo grande è prima del nome, come è nel modello tedesco, la cui storia però sfugge all’esito italiano. A imitare gli altri, non sempre riesce quel che tanto piaceva a Bachtin: il profumo del contesto è evaporato.

Così avviene spesso, quando riprendiamo le parole altrui: riecheggiamo le forme, ma non sempre ne abbiamo compresi i significati. Questo ci basta, perché così, per lo meno, siamo dalla parte di chi ha prestigio.

Strategie

Qui, però, dobbiamo chiedere consiglio a un autorevole studioso tedesco: è Josef Klein, linguista e uomo politico (dei Verdi). Egli ha individuato una serie di strategie tipicamente impiegate nel linguaggio dei politici, ma che possono essere rilevate in molti altri ambiti della comunicazione verbale rivolta a un largo pubblico. Vi sono le strategie di base, che servono per esaltare una posizione e attrarre il pubblico, cementando la solidarietà tra gli aficionados: basti citare l’uso del noi rispetto a loro, o l’accento sull’unità in opposizione alla frantumazione degli avversari (la sinistra unita opposta alle destre divise; oggi, in Italia, la lettura è forse diversa).

Vi sono poi le strategie usate per nascondere elementi scomodi o in contrasto con il punto di vista da propugnare. Tuttavia, si sa che mentire è rischioso: se si è scoperti, si rompe la fiducia con il pubblico. Meglio è, allora, tacere alcune informazioni, pur correndo il rischio di essere rimproverati in quanto incapaci di vedere la realtà. La menzogna intacca la relazione interpersonale di fiducia, che secondo Klein è più importante della relazione con la realtà, perché sbagliarsi è meno ignominioso di mentire.

Infine, Klein considera le strategie che riguardano la concorrenza tra punti di vista diversi sulla realtà e caratterizzano una vera e propria occupazione di un campo concettuale (Begriffsbesetzung). Si tratta di elaborare le categorie per esprimere una realtà oggetto di dibattito.

Parole fluide

Un esempio recente può essere il nome migrante, impiegato ormai anche da chi avversa i flussi migratori. Il campo concettuale è occupato saldamente da una chiave di lettura, del cui uso il dibattito non può fare a meno. Migrante ha sostituito espressioni oggi condannate, come extracomunitario o clandestino. Alcuni ritengono che tale voce sia stata messa in circolazione in seguito a una decisione di qualche organizzazione internazionale (ed è congettura raramente affermata, forse per via della spirale del silenzio).

Sono possibili varie riflessioni sull’uso di questa parola. A ben vedere, migrante non rientra nel quadro cognitivo (cognitive framework, dicono gli esperti) in cui sono collocati emigrare, immigrare e i loro derivati (emigrazione, emigrante, immigrato eccetera). Del pari, il fenomeno chiamato migratorio, che si svolge per flussi, non è accostabile ai denotati di emigrazione e immigrazione. È vero che la radice è comune a tutte le parole finora citate: vi è codificata la valenza generica di movimento. Tuttavia, questa è sviluppata ulteriormente là dove ci sono prefissi: in emigrare troviamo e-, che segnala uscita; nel campo lessicale che ruota attorno a immigrare c’è in-, che indica entrata, collocazione in uno spazio.

A differenza delle forme con prefisso, migrante mette in primo piano il movimento e lascia sullo sfondo l’inizio e la conclusione: è dunque un muoversi disancorato dalle coordinate spaziali e anche temporali, poiché non è previsto un luogo di partenza e il punto di arrivo è sempre provvisorio. Migrante denota chi non ha patria, dunque non emigra, e neppure mira a collocarsi e integrarsi in un’altra comunità umana, dunque non immigra. Solo il presente può servire a cogliere questo carattere; è arduo immaginarsi un migrante che sia migrato: il movimento non ha meta.

Forse è esagerato, ma è possibile considerare migrante come la parola chiave di un’ideologia nuova, che riguarda tutti e ritiene che tradizione, cultura, identità siano fluide. Il provvisorio è visto come la categoria sensata per l’esistenza: nulla è; e tutto è fluire. Forse questa parola, messa in circolazione da chi ha potere nel dibattito pubblico, può illustrare in modo adeguato il potere che le parole esercitano, senza che ne siamo consapevoli, sul nostro modo di vedere la realtà.

Manipolazione e propaganda

Tale potere delle parole è ben noto a coloro che, per mestiere, danno forma alle opinioni pubbliche. Un libro importante, uscito quasi un secolo fa, esordisce così: «The conscious and intelligent manipulation of the organized habits and opinions of the masses is an important element in democratic society. Those who manipulate this unseen mechanism of society constitute an invisible government which is the true ruling power of our country» (E. Bernays, Propaganda, Horace Liveright, 1928). L’autore era il nipote di Sigmund Freud. Visse e lavorò negli Stati Uniti d’America. La sua impresa fu decisiva per sviluppare le arti della persuasione in politica e negli affari.

La manipolazione delle abitudini e delle opinioni è invisibile, scrive Bernays. Ma se è invisibile, non è facile scoprirla. Riguarda tutta la comunicazione rivolta al pubblico o ne tocca solo parte? Fino a che punto vi è un “governo occulto” di abitudini e opinioni? Come abbiamo visto, non di rado le affermazioni ripetute sono banale ripresa di parole d’altri. Così va il mondo, da sempre. Ma non basta: anche i consumatori hanno grande potere sui “manipolatori”, che rischiano di trovarsi “manipolati”.

Secondo Roger Scruton, una neolingua si aggira per l’Europa e per il mondo occidentale, ed è simile allo spettro del comunismo. A suo avviso, scopo della lingua è descrivere la realtà, mentre la neolingua si propone di determinare che cosa e come sia la realtà («Newspeak occurs whenever the primary purpose of language – which is to describe reality – is replaced by the rival purpose of asserting power over it»). È vero che le ideologie sono brutte bestie, e ci sono da che mondo è mondo.

Il criterio della libertà 

Tuttavia, come si dice in Piemonte, esageruma nen. Anche Scruton è un tantino ideologico. A ben vedere, la “descrizione della realtà” è fatta da qualcuno secondo un punto di vista. Ognuno ha una pretesa ragionevole di aver qualcosa da dire sulla realtà. La realtà quotidiana è conosciuta in modi diversi, a seconda della prospettiva scelta. Fondamentale è, piuttosto, che si riconosca la freedom rule – la libertà di mettere in discussione ogni punto di vista, anche quelli più radicati nel vasto pubblico, anche quelli diffusi dalle fonti ritenute universalmente autorevoli. La regola della libertà è alla base dell’argomentazione come attività verbale, sociale e razionale orientata a convincere un individuo capace di far uso della ragione.

Nell’agone argomentativo, reggono le ipotesi più solide e ogni mossa ragionevole è accolta e tenuta in conto. Non così, sembra, nel dibattito (anzi, nel dibbattito) che oggi è ridotto, per lo più, a scambio di opinioni, spesso prive di fondatezza, ma assai forti perché sono legate alle nostre abitudini o alle nostre fissazioni. Spesso, pretendiamo che certe nostre opinioni siano valide anche se la realtà costringe a smentirle; in tal caso, guardiamo altrove. Avviene ovunque e da sempre. La diffusione di nuove espressioni alla moda, del resto, è spesso un contributo alla confusione.

Un’analisi critica degli stereotipi linguistici, guidata dalla ragionevole regola della libertà, può rappresentare un contraltare efficace all’ideologia woke. Tuttavia, la freedom rule non è di moda, non ha prestigio.


L’articolo è tratto dall’ultimo numero di Vita e Pensiero, il bimestrale culturale dell’università Cattolica del Sacro Cuore

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