Se non credete alle storie di possessione interrompete tranquillamente la lettura. Se invece non vi fidate troppo del materialismo, forse le prossime righe vi offriranno qualche spunto di riflessione. Pochi giorni fa sono stato a Parigi, invitato dall’Istituto italiano di cultura per una serata di letture. Per me Parigi ha sempre avuto un tratto lugubre che smentisce il luogo comune della “Ville lumière”. Piuttosto si potrebbe pensare che la città venga illuminata all’eccesso - viva in una sorta di nevrosi della luce - proprio perché è buia, tenebrosa, oscura.

A dispetto del suo presunto vitalismo godereccio, fin dalle mie prime incursioni per me è stata una meta cimiteriale, pullulante di tombe da riverire. Così negli anni sono tornato sistematicamente a omaggiare Oscar Wilde e Jim Morrison, Éric Rohmer e Édouard Manet, Amedeo Modigliani e Jeanne Hébuterne, a seconda dell’età e della disposizione d’animo. I cimiteri parigini mi sono più familiari delle grandi attrazioni, il Père-Lachaise meglio di Notre-Dame, Montparnasse della Torre Eiffel, Montmartre del Louvre e così via.

Appena arrivato all’Istituto italiano di cultura mi è stato chiaro fin da subito il vero motivo del viaggio: certo, ero lì per una serata di letture, ma dentro di me ho sentito il bisogno impellente di una visita alla tomba di Maupassant. Ero finalmente pronto. Sì, perché lo scrittore francese è responsabile della mia vocazione letteraria in un modo molto maupassantiano.

Il grezzo Maupassant

Quando diventai grande abbastanza per gettare uno sguardo retrospettivo sulla mia adolescenza, mi accorsi che non esisteva autore che avessi riletto più di Maupassant. Il grezzo Maupassant. Maupassant il sempliciotto. Sbaglierebbe chi cercasse di studiarlo. In Maupassant non c’è niente oltre la pagina: nessun trucco. Al di là della guerra, delle differenze di classe, della Storia, che pure ha saputo rendere in poche pennellate, Maupassant riesce sempre a scollinare. Dall’altra parte c’è l’uomo nudo. L’esatto contrario della letteratura-documento che veniva propugnata dalla sua epoca.

E più che fantastici, i suoi sono racconti horror. Orrore verso se stessi, chiaro. La cosa buffa è che tra di noi l’inizio fu stentato. Appena adolescente lessi La notte, uno dei suoi più noti contes fantastiques. Su due piedi, con la voglia di avventura che è tipica della giovinezza, si trattò di un mezzo fiasco. Mi sembrava che La notte stentasse narrativamente, e che si trattasse al massimo di un bozzetto di vita parigina virato al nero.

In effetti la mia sensibilità di ragazzo non era lontana dal vero. Il racconto tratta di una sostituzione, la notte fisica viene a poco a poco fagocitata dalla notte psichica dell’io narrante, come su di una passerella in cui sfilino capi nero su nero. Nulla più. Che cosa c’era dunque di entusiasmante? Non certo il finale onirico né la trattazione del personaggio, un semplice flâneur come ne avevo già conosciuti, e di migliori, nelle pagine di Baudelaire. Neanche la definizione di racconto fantastico, così come l’aveva postulata Todorov in un celebre saggio che conoscevo, mi pareva calzante per quell’esile raccontino.

Non si trattava di una sospensione tra una spiegazione razionale o irrazionale degli eventi, tutto si riduceva a una confessione logorroica di un personaggio che aspirava così tanto alla pazzia da raggiungerla nel giro di qualche paginetta. Perfino la sviolinata iniziale sui pregi della notte contrapposti ai valori conformisti delle ore diurne, mi suonò troppo retorica e scontata.

Le carrette del mercato

Quindi? Maupassant venne salvato dalle carrette del mercato. «Avanzavano lentamente, cariche di carote, di navoni e di cavoli. Davanti a ciascuna luce del marciapiede le carote s’illuminavano in rosso, i navoni s’illuminavano in bianco, i cavoli s’illuminavano in verde; e passavano una dietro l’altra, quelle carrette rosso d’un rosso fuoco, bianche d’un bianco argento, verdi d’un verde smeraldo.»

In questo brano c’è tutto Maupassant, o almeno quello che conta. Una sensuale esplosione di colori e la percezione netta del movimento: si ha proprio l’impressione di vederli sfilare, quei carretti della frutta. Accendersi in ragione di una notte che diviene incredibilmente buia, anti-naturalistica (con buona pace di Zola e delle serate di Médan). Non c’è un briciolo di pensiero, ma solo una stupefacente vigoria artistica.

Alberto Savinio lo scrisse senza mezzi termini: «Arrivare: scopo dei racconti di Maupassant». Unico esempio d’opera in cui la frettolosità è un elemento decisivo nella composizione, Maupassant scrisse circa trecento racconti in poco più di dieci anni - dall’esordio con Boule de suif nel 1880 fino al 1892.

Incalzato dal deterioramento inesorabile dei nervi, di cui era perfettamente consapevole, Maupassant non cincischia, non allunga il brodo, non si perde in giri di parole. Maupassant tira via, ed è questo che fa della sua scrittura uno stile. A ogni riga sembra ribadire un’evidenza che è lo spauracchio di molti scrittori: si è capaci o non si è capaci di scrivere. E le sue pagine risultano vive proprio perché non godono della revisione accanita, oggigiorno si direbbe dell’editing a oltranza, del pippone da scuola di scrittura creativa. L’imperfezione di molti suoi passaggi convince più di tanta prosa dei nostri giorni, ordinata e anestetizzata.

Ricordo di aver rinfacciato a Maupassant la mancanza di cultura. In qualche modo, non ero troppo dissimile a Edmond de Goncourt che nel suo Journal annotava con stizza impotente: «Maupassant non ha mai messo nei suoi libri una frase che possa essere citata». Avevo l’età in cui si è attratti dal riferimento dotto, dal rimando intelligente, dai libri che richiamano, o vorrebbero richiamare, altri libri. Avevo trovato l’Autore, ma non sapevo ancora vedere la paradossale qualità della sua scrittura.

Tuttavia - come un sentore di qualcosa d’imminente e gigantesco che sarebbe dovuto presto accadere - tenevo sempre con me i suoi racconti (un’edizione degli Oscar Mondadori che conservo come una reliquia e il cui segnalibro è diventato da decenni il mio foglio rosa per la patente di guida).

La notte fatale

Il mio presentimento non era sbagliato e la notte fatale arrivò. Il liceo che frequentavo venne occupato, e io invece di dormire a scuola me ne andai a zonzo per la città. Allora non lo sapevo, ma mi comportai come un provetto flâneur. Giravo con la bicicletta e ogni tanto mi fermavo a leggere un racconto di Maupassant. Leggevo quando incontravo un lampione: dentro il portone di un palazzo, seduto sulla scalinata di una chiesa, sdraiato sulla panchina di un parco.

Presto mi resi conto che non potevo smettere di leggere quei racconti. Più precisamente, quei racconti si sviluppavano su un piano inclinato. Ogni frase dava l’impressione di scivolare giù, verso il finale, ed era sferrata come il cazzotto decisivo, quello che ti manda al tappeto.

Poi arrivò La chioma. È la storia di un uomo che impazzisce perché rinviene in un mobile antiquario la capigliatura di una donna del passato, della quale - attraverso il suo scalpo biondo cenere, quindi in chiave feticistica - s’innamora perdutamente. Ero sulle spallette del fiume, davanti alla facciata bianca di Palazzo Lanfranchi, ora Archivio di stato e casa di Byron durante la sua tappa pisana del Gran Tour. Pisa, immersa nel silenzio della notte, era il mio inconscio di pietra.

Già dalle prime righe mi colse una vertigine che non era uno sbandamento bensì un’assoluta chiarezza, una lucidità superiore. Non mi limitavo a fruire il testo, ma ne comprendevo le scelte narrative, le soluzioni stilistiche, le ragioni profonde. Un istante prima della possessione ricordo distintamente di aver pensato: «Lo scriverei così». Ma già un secondo dopo: «L’ho scritto così».

Reincarnazione letteraria

Leggevo quel racconto come se ne fossi stato l’autore. Ero l’autore che rilegge se stesso. Ero diventato Maupassant o, forse con più precisione, Maupassant era diventato me.

È un tipo di reincarnazione che non riguarda un tipo specifico di religione, bensì quella grande chiesa orfica denominata letteratura. In questo caso non si trattava solo di una ricorrenza di temi e stili e approcci, ma di una vera e propria osmosi carnale e spirituale, di una comunanza ultraterrena tra autori. Nel saggio Ciò che si trova solo in Baudelaire di Roberto Calasso (un altro che presto si servirà di qualcuno per tornare, ne sono sicuro), si legge che «Per un certo periodo Baudelaire era diventato Poe (…) così come Manet era diventato Velázquez. Questa è la fisiologia dell’arte: una serie di immersioni provvisorie o totali in altri esseri, che sono parti del nostro essere».

Quando spuntò l’alba una calma soprannaturale si era impadronita di me. Avevo trovato lavoro: per quanto ignorassi (e ignori tutt’ora, in un certo senso) se nell’eccellenza o nella mediocrità, Maupassant mi aveva assunto.

- Vuoi che ti lasci solo? - mi domanda Diego Marani, il direttore dell’Istituto italiano di cultura, che gentilmente si è offerto di accompagnarmi dentro il cimitero di Montparnasse.

La tomba davanti alla quale sono rimasto allibito è sormontata da un frontone in pietra grezza con su scritto: Guy de Maupassant. Sotto, una balaustra di ferro dipinta di bianco delimita un rettangolo di terra viva senza lapide, dove sono cresciuti cespugli di mandarino sempreverde punteggiati da alcune roselline. Una coccinella vola da una foglia.

- Sono così scosso? - farfuglio.

Diego Marani mi sorride con tenerezza. - Come se il morto fossi tu.

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