Domenica scorsa

La lettera che segue è stata un colpo al cuore.

Scrive Aldo De Rosa: «I suoi consigli di lettura sono sempre preziosi, ora ci propone Allen, Follett e Lemaitre. Di quest’ultimo in passato ho molto apprezzato la trilogia Irene, Alex e Camille e anche Lavoro a mano armata (tutti da Mondadori).

Negli ultimi tempi lei ha parlato anche, più o meno di sfuggita, di La ragazza dei cocktail, l’ho letto anni addietro (segnalato dal Joker!) apprezzandolo in particolare per la scelta della narrazione in prima persona e per il finale inquietante; James Cain era un grande.

Ha segnalato anche scrittori sudamericani che non conoscevo. Ho provveduto: di Fuentes ho letto L’ombelico della luna, bella galleria di personaggi, struggente il racconto della visita alla vedova Teodula Montezuma. Di Cortazar ho letto Ottaedro, racconti molto incisivi e particolari. Anche le quasi mille pagine di McMurtry (Lonesome Dove) sono scorse velocemente, bei personaggi, bella scrittura. E poi anch’io ho recuperato Sangue marcio, che non avevo letto a suo tempo, Manzini non delude mai.

Mi è piaciuto che abbia ricordato Robert Redford, citando I tre giorni del condor (pare che quasi tutti se lo siano dimenticato), gran bel film, bellissima Faye Dunaway. La vicenda tra i due mi ha riportato alla memoria un altro vecchio film in cui il protagonista maschile era Steve McQueen, ma c’era sempre Faye Dunaway che emanava un fascino senza eguali, Il caso Thomas Crown».

Il colpo al cuore è arrivato qui, quando il lettore conclude così la lettera: «Per il resto mi aspettavo che anche lei ricordasse Alberto Ongaro, nel centenario della nascita: ne ho sempre apprezzato, anche nelle opere minori, la capacità di catturare il lettore, già nelle prime pagine, calandolo nell’ambientazione del racconto, sembra di trovarcisi dentro».

Ha ragione, caro Aldo, non me ne sono accorto che era il centenario della nascita di Ongaro. Sono mortificato. È stato lo scrittore che è stato (un grandissimo), è stato l’inviato speciale che è stato (nel leggendario Europeo di Tommaso Giglio). E poi siamo stati molto amici.

Sono andato in archivio come uno che va a fare penitenza, chiedere perdono. Ho trovato una mail di Sergio Pent, l’unico collega, come giornalista letterario, che riconosco. Diceva: «Due righe per dirle grazie per il bellissimo omaggio dedicato al grande Alberto Ongaro, signore della letteratura e signore in senso assoluto, con cui ho avuto rapporti di amicizia letteraria per più di vent’anni anche se l’ho incontrato di persona solo una volta al Lido quattro anni fa».

A quale pezzo si riferiva così caramente Sergio Pent? Non riesco a trovarlo.

Lunedì

Posta. Scrive Gianni Cuperlo, vincitore della prima edizione del premio Churchill per il discorso più bello: «Dirle che mi ha commosso rende assai parzialmente lo spirito. Però grazie della generosità per tre motivi. Il primo è la formula sul “discorso politico più bello” che naturalmente non è il mio. Per anni ho provato a cercarlo leggendo quei simpatici volumetti con I discorsi che hanno fatto la storia e altri titoli improbabili. Alla fine anch’io ho preso la mia decisione e penso che il discorso più bello e potente della storia sia stato pronunciato il 15 luglio 1960 a Los Angeles durante la convention del Partito Democratico che avrebbe candidato alla presidenza degli Stati Uniti John Kennedy. Quella sua orazione laica è passata alla cronaca, poi alla storia, sotto il titolo della “Nuova Frontiera” e la sua formula retorica non era particolarmente sofisticata».

Quel discorso di Kennedy, continua Cuperlo, descriveva un’America che non esisteva, era la profezia di cose che sarebbero venute dopo: Martin Luther King, la contestazione a Berkeley e la protesta contro l’avventura nel Vietnam.

Gli altri due motivi per cui Cuperlo mi ha scritto non li riporto perché sono personali, ma mi hanno fatto molto piacere.

Un po’ commosso anche io, sono andato a rileggermi i discorsi di Winston Churchill, la formidabile arma segreta degli inglesi nella seconda guerra mondiale.

Almeno due highlights vorrei citarli.

4 giugno 1940: «Combatteremo sulle spiagge, combatteremo sulle piste d’atterraggio, combatteremo nei campi e nelle strade, combatteremo sulle colline, noi non ci arrenderemo mai». In inglese, ovviamente, sono parole che suonano in maniera divina: «We shall never surrender».

20 agosto 1940: «Mai così tanti dovettero così tanto a così pochi». E anche qui l’inglese è superiore, sembra scolpito sul marmo: «Never was so much owed by so many to so few»

Martedì

Carlo Pallavicino, detto Pallas, è un ex procuratore di calcio. Tanti anni fa mi mandò un sms per ringraziarmi di avere dato un senso alla sua vita. Si riferiva al mio libro Momenti di gloria, un’antologia di sport e letteratura, uscita ai tempi in cui sport & letteratura era un binomio tabù in Italia e Umberto Eco sprezzantemente bollava Gianni Brera come un Gadda spiegato al popolo.

Pallavicino è alto, biondo ed educato (famiglia della Firenze bene). Lavorò ragazzino al Brivido sportivo, periodico che era una specie di fan magazine della squadra viola. Scrisse una romantica biografia del centravanti Lucarelli, livornese purosangue, hombre vertical, il migliore dei Lucarelli compresi nell’attuale nomenklatura nazionale (e fu anche bomber del Cosenza, e quindi per me sinonimo di eccellenza assoluta).

Adesso Pallavicino ha pubblicato Ci chiamavano Sciacalli (Baldini+Castoldi), l’appellativo che veniva dato ai procuratori dei giocatori di pallone. Penso che l’umorismo non esiste più. Ad appioppargli un uno-due devastante sono stati la satira (negli anni Settanta) e la comicità (anni Ottanta e inizi Novanta, poi si è estinta). Ricordo che il primo a parlare di morte dell’umorismo fu Goffredo Parise, e come sempre aveva visto giusto. Leggendo Pallavicino mi sono un po’ ricreduto: l’umorismo sopravvive.

Ci chiamavano Sciacalli è la storia di un giovane Holden fiorentino e calcistico. Ecco l’incontro con Valdo, fantastica mezz’ala brasiliana di lontane origini italiane. Pallavicino vuole metterlo sotto contratto, ma c’è un problema: «A parte un paio di parole in dialetto e un proverbio bellunese, ardete dal tas e da le femene col cul bas, pronunciato con un incomprensibile accento gaucho, l’italiano di Valdo era inesistente. Più o meno come il mio portoghese. Il dialogo si annunciava intrigante». Guardati dal tasso e dalle donne con il culo basso: questo è Gianni Brera in purezza.

Un libro a parte meriterebbe il rapporto tra Pallas e il grande mister verdeoro Sebastião Lazaroni, passato ad allenare la Fiorentina. Molti dolori e poche gioie. Una sola volta lui e il leggendario mister si ritrovano a festeggiare dopo una partita e lo fanno così: «Dopo le tante domeniche passate insieme cenando a whisky e popcorn, quella volta brindammo ben oltre l’ultimo distillato, con un liquore giallastro alla nocciola, amaro Frangelico, di cui ignoravo l’esistenza. Era abbandonato nel mio mobile bar dai tempi di nonno Ferruccio. Diventò il digestivo preferito di Laza».

Non mancano in Ci chiamavano Sciacalli pagine strazianti (la tragedia di Borgonovo, centravanti insuperabile che soltanto uno stopper insuperabile di nome Sla riuscì a fermare). E, per finire, un racconto da legal thriller alla John Grisham in cui a perdere è l’odioso presidente della Lazio Claudio Lotito. C’è una giustizia al mondo. Ogni tanto. Never surrender.

Mercoledì

Un post sui social del mio amico Diego Nuzzo mi ricorda che domani è il giorno del Nobel per la letteratura. Se lo danno ad Haruki Murakami non scriverò più una virgola in vita mia. Giuro.

Giovedì

Ore 11:14. Ancora niente da Stoccolma. Mi tornano in mente tutte le volte che aspettavo invano la notizia del Nobel a Philip Roth.

Ore 13. Fiuuu. Non ha vinto Murakami. László Krasznahorkai è un ungherese bravo. È anche un premio anti Orbán?

Venerdì

Cerco invano in archivio il pezzo su Ongaro ricordato da Pent. Spero di essere più fortunato nel weekend.

P.S. La raccapricciante classifica di Repubblica sui cantautori mi ha fatto venire un’idea. Ve la dico la prossima settimana.


Per scrivere ad Antonio D’Orrico: lettori@editorialedomani.it

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