Domenica

Non mi piace come ricordano Pasolini. Queste articolesse (lesse, bollite, scotte e scondite) a cinquant’anni dalla morte. Questo becchettare di avvoltoi sul cadavere. Questo martirologio che ne asseconda la sindrome da San Sebastiano.

Preferirei un discorso alla Roland Barthes. Una cosa così.

Pasolini è uno dei tre miti della letteratura italiana assieme a D’Annunzio e Pavese. Si entra nel mito trasformando la propria vita in opera artistica (D’Annunzio) oppure con una morte clamorosa (Pavese). Pasolini fece l’en plein e la sua sopravvivenza è diventata un romanzo noir.

Non funziona sempre, però. Tondelli (il caro Pier Vittorio che sapeva a memoria le canzoni dello Zecchino d’oro) e Bellezza (l’amato Dario, il più grande madrigalista della letteratura italiana) vantano vissuti scostumati, se non maledetti, e sconvolgenti morti per Aids, eppure il loro mito non è decollato.

Mi chiederete: ma cosa fai, parli male di Pasolini? No, anzi. Mi piace ricordare teneramente la sua versione fine anni Cinquanta: povero, i vestiti lisi, magro come un gatto del Colosseo, scriveva poesie (Non è di maggio questa impura aria) e leggeva romanzoni russi ai suoi alunni in una scuola media a Ciampino, dopo accanite partite di pallone. Cose da maestrino dalla penna rossa, da libro Cuore riscritto in epoca neorealista. Perché i ragazzi di vita pasoliniani erano deamicisiani di fondo: compreso Pino Pelosi, il suo assassino, nel ruolo di Franti.

Lunedì

Ripenso alla vita di Pasolini come romanzo noir. Il suo è il grande cold case della letteratura italiana, il delitto insoluto. Erano – eravamo? – tutti colpevoli, come in certi gialli di Agatha Christie. Ma il primo e principale colpevole era lui, e ci teneva a esserlo.

Sa dirmi dove si trovava il 2 novembre 1975 quando ammazzarono Pasolini? Io ero in viaggio con mio padre sulla Reggio Calabria-Salerno. Sentimmo la notizia alla radio. Era tutto chiarissimo e misteriosissimo allo stesso tempo.

Giunti al casello di Napoli, verso le otto di mattina, vedemmo strilloni con mazzette del Mattino che urlavano «Edizione straordinaria: Il poeta Pasolini assassinato a Ostia! Tutti i particolari in cronaca». Comprai una copia e la sfogliai dalla prima all’ultima pagina. Non c’era nemmeno una riga sul delitto. Gli strilloni mi avevano cojonato: mi avevano venduto un giornale vecchio. Nessun quotidiano avrebbe potuto stampare la notizia in tempo.

Per un attimo, però, ebbi l’illusione che alla radio avevano preso una cantonata, che Il Mattino taroccato che tenevo in mano aveva scritto la verità, che Pasolini non l’avevano ammazzato.

Martedì

Sabato sera ho guardato in tv la Tosca all’Opera di Roma, ricostruita in maniera filologicamente impeccabile nella versione della prima mondiale del 14 gennaio 1900. Mi ha folgorato il sorriso (splendido, contento, furbetto) di Eleonora Buratto verso il direttore d’orchestra alla veemente richiesta di bis del pubblico dopo Vissi d’arte.

«Se ne cade ’o teatro», diceva Eduardo in questi casi.

Mi è tornata in mente, per contrasto, un’altra Tosca, lontana e assolutamente infedele: quella del Maggio Fiorentino 1986, regia del grande Jonathan Miller, direzione del non meno grande Zubin Mehta. Miller aveva ambientato l’opera di Puccini nella Roma occupata dai nazisti nel 1941, con l’infame Scarpia in stile Gestapo.

Ricordo le polemiche feroci dell’epoca, specie da parte della Democrazia cristiana fiorentina. Fui attaccato anche io perché, in difesa della legittimità della visione di Miller (un genio), avevo rispolverato la storia di Alfredo Epaminonda Troya, detto don Ildefonso: il monaco ventinovenne che nel 1944 suonava il pianoforte – alternando canzoni classiche napoletane all’Incompiuta di Schubert – per coprire le urla disperate dei prigionieri torturati dalla Banda Carità nella Villa Triste fiorentina, sulla via Bolognese.

La scena del monaco pianista nella casa degli orrori è puro Salò di Pasolini.

Mercoledì

Mi rassereno sbrigando un po’ di posta.

Scrive Sabrina Comastri: «Leggo la lista dei cantautori imprescindibili per il dottor Manconi e, ovviamente, anche per lei».

Altro che rasserenarmi. La lettrice parte col piede sbagliato. La lista dei cantautori imprescindibili è di Manconi. Io l’ho fieramente contestata assieme a Italo Beccaria. Per chi non la conoscesse, eccola: 1) De André; 2) De Gregori; 3) Paoli; 4) Fossati; 5) Endrigo; 6) Jannacci; 7) Conte; 8) Battisti; 9) Battiato; 10) Guccini; 11) Tenco; 12) Daniele; 13) Giurato; 14) Ferretti; 15) Gaetano.

Però poi Sabrina si riprende alla grande: «Mi scusi se glielo dico ma sono rimasta ALLIBITA nel non leggere il nome di un gigante quale è stato GIORGIO GABER».

Ora se ne cade ’o teatro. La lettrice dà il colpo di grazia alla Manconi’s List. Allibisco anche io per non essermi accorto di questa imperdonabile assenza e canticchio con la coda tra le gambe il Gaber più bello: Non arrossire quando ti guardo…

Sabrina continua: «Personalmente darei un riconoscimento anche a Riccardo Cocciante per le bellissime canzoni che ci ha regalato e per un musical meraviglioso. E Lucio Dalla ce lo dimentichiamo?».

Poi conclude: «Visto che abito in un luogo dove fatico ad acquistare i giornali quotidianamente, non mi dispiacerebbe ricevere un suo commento per iscritto. Ovviamente se avrà voglia di farlo. Con simpatia».

Vorrei sdebitarmi con lei, gentile Sabrina, con un raccontino molto gaberiano. Il cantautore (e cantattore) raccontava spesso la storia di un suo amico che teneva il più strambo dei diari. Annotava cose così: «Brescia – spese 850 lire al bar del Corso; colore delle pareti discutibile, ottimo il chinotto; cameriera carina; da tornarci».

Le confesso che il diario dell’amico di Gaber è il modello a cui aspirerebbe questa rubrica. E, già che siamo in tema, aggiungo che un altro modello per questa rubrica, irraggiungibile, è The Diary of Samuel Pepys.

Un esempio: «Mercoledì 1° giugno 1664. Mi sono alzato, dopo essere rimasto a letto a lungo, e sono andato a letto molto tardi dopo aver finito i miei conti. Una volta sveglio, il signor Holyard è venuto da me e, con mio grande dispiacere, dopo avermi assicurato che non avrei potuto riavere la pietra [i calcoli renali], mi ha detto che teme davvero che io l’abbia di nuovo e mi ha portato qualcosa per dissolverla, il che mi ha reso molto turbato e ho pregato Dio di darmi sollievo».

Giovedì

Giancarlo Tramutoli mi ha mandato la sua cinquina dei cantautori: «1. Jannacci per la follia (Silvano) o lo struggimento (Si vede). 2. Conte per l’immaginazione (Gli impermeabili) o frasi come “Solo il nipote capisce lo zio” o “Facciamo un po’ di letteratura con la miseria della mia bravura”. 3. De André, unico per il timbro della voce. 4. De Gregori per i testi surreali (Atlantide) o commoventi (Santa Lucia). 5. Battiato per la mistica (Oceano di silenzio) o per “Ne abbiamo avute d’occasioni, perdendole”.

Fanno classifica a sé tutti e cinque i dischi bianchi di Panella-Battisti. Ancora oggi, insuperati».

Caro Giancarlo, vogliamo riaprire la querelle Panella/Mogol, dualismo che ha spaccato più generazioni?

Ieri

Cercando la recensione a Sotto le ciglia chissà di Fabrizio De André (Mondadori), libro bellissimo, mi è ricapitato fra le mani il pezzo su Alberto Ongaro che non trovavo più. Ne parleremo la prossima volta.

Intanto, qualche anticipazione.

Da Ongaro. La sensualissima Nina nella Taverna del doge Loredan che evoca al protagonista: «Terre che non avevo mai visto e di cui avevo soltanto sentito parlare, caffè e noci di cocco brasiliane e croccanti e torroncini e anche, non mi vergogno a dirlo, la tigre della poesia di William Blake».

Dai diari di De André. Siccome non veniva bene nelle interviste e ne soffriva, Faber si allenava auto-intervistandosi: «Qual è il desiderio che vorresti realizzare? Sicuramente, in qualsiasi luogo, in qualsiasi momento, rincontrare mio padre».

E poi questa filastrocca d’amore coniugale.

«Dori, che Dio ti benedica per le consolazioni durante la vita.

Dori, che Dio ti benedica negli occhi nei sogni e nella fica».

Un Martini, per favore. Doppio.


Per scrivere ad Antonio D’Orrico: lettori@editorialedomani.it

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