Cosa resterà di questo Barbienheimer? Cosa resterà di quest’estate di incassi stratosferici come non accadeva da anni, quinquenni, forse addirittura decenni? Cosa resterà di un cinema che, altro dato ormai nostalgicamente novecentesco, ha riattivato il dibattito, ha fatto sentire escluso dalla conversazione chi i film in questione non li aveva visti, ha riportato orde di giovani (in uno dei due casi, con indosso una T-shirt rosa) a riempire le sale? Gli analisti s’interrogano e s’allarmano. Parecchi tra i grandi blockbuster attesi per la stagione appena avviata a sono stati rimandati causa scioperi (su tutti: Dune - Parte due di Denis Villeneuve, con gli strafighi di nuova generazione Timothée Chalamet e Zendaya, più le new entry parimenti übercool Austin Butler e Florence Pugh). E i titoli che verranno, o che sono appena arrivati in sala, non promettono di sbancare proprio un bel niente.

È partito malissimo, anche da noi, The Creator di Gareth Edwards, che curiosamente s’interroga su uno dei temi cruciali sul tavolo della trattativa sindacale a Hollywood, cioè il ruolo dell’Intelligenza Artificiale nel futuro non così remoto. E le altre grosse produzioni imminenti (L’esorcista - Il credente, The Marvels, Hunger Games - La ballata dell’usignolo e del serpente, Trolls 3, più il Napoleon di Ridley Scott) non sembrano destinate a generare grandi incassi o grande buzz. Si spera – lo sperano moltissimo gli esercenti – in Killers of the Flower Moon, la “nascita di una nazione” by Martin Scorsese da rubricare sotto il genere Grande Evento: come i colossi estivi (Oppenheimer soprattutto, vista la durata monstre: nel caso di Marty, 3 ore e 26 minuti) dovrebbe giustificare l’uscita di casa, il parcheggio, il prezzo del biglietto e dell’hamburger, eccetera. E in più c’è il bankabilissimo Leonardo DiCaprio. Esce il 19 ottobre, staremo a vedere.

Ecco, l’estate Barbienheimer, più di tutto, ha confermato, se mai ce ne fosse stato bisogno, che il cinema non è più dato per scontato, ma che quando c’è il prodotto (scusate l’orribile parola oggi molto in voga) la gente in sala ci va, o quantomeno va in quelle poche sale non squallide rimaste (anche questo è un tema decisivo: la celebratissima – a parole – esperienza della sala, come ho scritto anche qui più e più volte, è spesso scadentissima). L’uscita di casa va giustificata, appagata, in qualche modo glorificata. Abbiamo capito che non basta ordinare “andate al cinema!” (né forse, e lo si è visto sempre quest’estate, mettere in saldo i biglietti per incentivare le produzioni italiane ed europee: la gente se n’è fregata dei prodotti nazionali ed è corsa a vedere i film di Greta Gerwig e Christopher Nolan, a prezzo pienissimo).

La cosa che noto in questo “back to school”, anche cine-televisivamente inteso, è che forse la gente ha poca voglia di guardare quel che esce in sala, in tv, sulle piattaforme un po’ in generale. Viviamo, mi domando, un’epoca del riflusso, dell’onda contraria, del togliere tutto dopo anni di horror vacui in cui ogni anfratto possibile è stato riempito all’inverosimile? Ero, nei giorni scorsi, al Premio Solinas, il festival (bellissimo) che lancia gli sceneggiatori di domani e li mette a confronto, spesso in modalità di vero e proprio tutoraggio, con gli sceneggiatori senior, quelli che hanno cambiato (e, in molti casi, innovato) il nostro panorama audiovisivo negli ultimi anni. E alcuni di loro – i senior, intendo – si chiedevano: “Sì, va bene, c’è molta più richiesta, ci sono molti più player sul mercato, molte più possibilità di produzione e distribuzione: ma tutti questi film e queste serie che scriviamo, per chi le facciamo? Chi le guarda veramente?”. Ed è una domanda legittima, dopo mesi (anni) di prodotti anche di qualità spesso disertati dal pubblico, o che un pubblico – per mille ragioni: piattaforme a cui nessuno o quasi si è mai iscritto, invisibilità causata dalle altre centododici uscite in contemporanea, eccetera – non l’hanno proprio mai trovato.

Sarà l’eccedenza di titoli ad aver provocato in molti, ne sento e vedo sempre di più attorno a me, la reazione contraria alla FOMO (Fear of Missing Out) che ha caratterizzato il tempo recente (e forse, di conseguenza, quel sovrappiù di offerta, appunto). Più o meno dall’inizio di quest’anno girano articoli, forum e meme che ironizzano proprio su questo: al centro c’è il cosiddetto ROMO, cioè il Relief of Missing Out, e il sollievo si prova anche solo a leggerla, quella sigla. Siamo autorizzati, ci viene detto, a disinteressarci di tutto ciò che ci viene proposto ogni settimana, ogni giorno, ogni minuto. Ci è permesso di non guardare tutto, di non essere aggiornati sempre su tutto, di non sentirci obbligati ad essere sempre in pari con qualsiasi serie di qualsiasi piattaforma. Tanto poi, quando esce il Barbie di turno, ce ne accorgiamo e andiamo a vederlo subito. Che liberazione.

Lo vedo anche su me stesso, che faccio questo di mestiere, che vado ai festival e alle anteprime per la stampa, che conosco a memoria il calendario delle uscite cine-televisive settimanali e sono informatissimo su tutte le uscite future: se anch’io da un pezzo resto inevitabilmente indietro, mi dico sempre, figuriamoci cosa succede al pubblico normale, detto per capirci; gente che, nella sovrabbondanza di informazioni prima ancora che di uscite, non sa nemmeno che il tal giorno è in arrivo la tal serie (di cui però i giornali hanno scritto come del solito evento attesissimo). Di recente ho iniziato parecchie serie, di quelle “del momento”, e le ho piantate lì tutte (vado a memoria: The Morning Show, The Super Models, Vita da Carlo 2; tutta roba che, per un motivo o per l’altro, mi diverte o m’intrattiene con piacere).

È accaduto per pigrizia, per il sovrappiù di (altra) roba di cui sopra, per distrazione, perché arriva sempre qualcos’altro e mi dimentico di continuare quello che avevo in ballo. Nonostante l’hype, non ho ancora visto la seconda stagione di The Bear, uscita quest’estate; e dire che la prima m’era piaciuta moltissimo, come del resto è piaciuta a tutta la gente che piace. Mi son messo a vedere una strepitosa serie inglese dell’anno scorso – This Is Going to Hurt, da noi è su Disney+ – di cui solo in pochissimi hanno parlato, e che non è mai entrata nella cosiddetta conversazione. Ho visto una splendida docuserie sulla splendida Liv Ullmann che da noi credo non arriverà mai. Ed è stato, anche quello, una liberazione, uno spazio sicuro in cui rifugiarsi, senza dover rendere conto a nessuno dell’essere in pari con questo o quel titolo, senza timore (anzi, con la gioia) di essere escluso dall’attualità. (Per non parlare delle session di film vecchissimi a cui periodicamente mi dedico: attività che mi aliena ancor di più dal tempo corrente, facendomi sentire ancora più libero.)

Noto, dicevo, questa tendenza un po’ fra tutti, sicuramente fra tanti che conosco, anche addetti ai lavori. Una tendenza che diventa quasi una forma di boicottaggio: non si leggono più, o quasi, quei libri appena usciti di cui tutti (ma tutti chi, oramai) parlano; si rimanda, come osservavo poc’anzi, la visione di film e serie appena usciti; ci si crogiola nella ROMO con una fierezza autocompiaciuta e snob che non si provava da secoli. Anzi, i pochi che son sempre aggiornatissimi su tutto quello che esce, quelli costantemente in pari con l’ultimo episodio dell’ultima serie americana, li si guarda quasi con pietà, certamente con sospetto: non avete una vita? O anche solo: non vi provoca un’ansia terribile, tutto questo terrore di restare fuori dalla strettissima contemporaneità?

Tutto questo mentre, dicevo all’inizio, il futuro del cinema e delle piattaforme è più che mai incerto. Lo sciopero della Writers Guild of America, vale a dire il sindacato degli sceneggiatori e autori tv, ha raggiunto al momento se non una pace almeno una tregua, non si è ancora capito bene se a reale vantaggio degli scrittori o, come prima, degli Studios; lo sciopero della Screen Actors Guild, cioè degli attori, è invece ancora in corso, e questo stallo blocca le grosse produzioni future (“piccoli” titoli come il nuovo, e ultimo, Tarantino, il musical Wicked, i sequel di Beetlejuice e del Gladiatore, e tantissimi altri). Il rientro, forse solo parziale, della protesta della WGA ha fatto ripartire il lavoro di scrittura delle stagioni che verranno, con precedenza, da parte dei grossi Studi, ai titoli di punta. Netflix dà la priorità alla stagione conclusiva di Stranger Things e alla seconda di Mercoledì, HBO alla seconda stagione di The Last of Us e alle terze di Euphoria e The White Lotus. In poche parole, agli unici titoli (tranne quelli appena chiusi, vedi Succession) che generano interesse, dibattito, costume socioculturale. Segno che, in un mercato così affollato, forse solo i pesci grossi sono destinati a sopravvivere. Sarà triste, ma il futuro, dopo un’epoca che ci ha illusi che non ci fosse mai abbastanza roba, potrebbe essere proprio questo. Almeno fino all’arrivo di Barbie 2, si capisce.

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