Bernardo Zannoni, autore de I miei stupidi intenti (Sellerio 2021), con cui è diventato il più giovane vincitore del premio Campiello, è tornato in libreria. Il secondo romanzo è 25 (Sellerio 2023) e racconta di Gero, 25enne anni che abita da solo in una piccola città di periferia passando il tempo in una sorta di limbo.

«Non sapeva cosa fare, non aveva un posto dove essere al sicuro, né una strada da percorrere, non aveva odore, oramai era un uomo», lei descrive così Gerolamo. Mi spiega la faccenda dell’odore?

È un ragionamento nato nel periodo in cui mi sono sentito avulso dal mondo, slegato da ciò che avevo attorno, e riflettendo in termini animali, per il bosco ci sono passato con Archy, mi sono detto che dovevo esser simile a un animale senza odore: irriconoscibile, invisibile ai sensi.

Cosa succede a tenersi tutto dentro, paure e ansie, alla maniera di Gero?

Che si può scoppiare all’improvviso, come una pentola a pressione. Molti miei coetanei sono esplosi di punto in bianco, le paure sono detonate dal nulla.

Gero non fa le cose, a lui capitano e poi è costretto a reagire suo malgrado. Mi ha ricordato una palla da flipper: rimbalza dappertutto, spinto da forze esterne, e poi un flipper nel libro c’è. Era intenzionale?

In realtà, no. Mi piace pensare a Gero come a una macchina fotografica che ritrae la propria generazione. Ma questa idea della palla da flipper mi piace.

Non ci aveva pensato?

Forse sì, però poi l’ho scordato. Invece è una lettura azzeccata. Sa, a volte, rileggendo un pezzo di un mio romanzo noto dei particolari cui io stesso non avevo pensato.

Altri esempi?

All’inizio del romanzo, Gero ha un cappotto da uomo, che era appartenuto al nonno e che lui strappa. Lo fa come se non accettasse quella pelle da adulto. Alla fine della storia però, dopo la sua esplosione, il cappotto lo mette. Ecco, è un’allegoria che ho scritto d’istinto: all’inizio non è pronto a diventar adulto, alla fine i vestiti da grande sente di poterli usare.

Secondo me, quando scriviamo siamo più intelligenti di quando viviamo.

Sono assolutamente d’accordo.

Ha detto che Gero se l’è figurato come una macchina fotografica. È per questo che lo ha scritto fotografo?

Anche ma è soprattutto perché volevo facesse uno di quei lavori che c’è e non c’è, uno di quei lavori legati alla sfera dell’arte per cui o sei un freelance, e le cose sono piuttosto difficili, o stai spesso facendo un favore a un amico, e di soldi non ne guadagni; qualcosa che tanto appartiene alla nostra generazione. E poi è stato un mio hobby: facevo street photography a Sarzana.

Le piaceva?

Rischiavo di beccare legnate ed era divertente: giravo la città e, senza chiedere il permesso, scattavo. A volte quando chi volevo fotografare mi dava le spalle urlavo e quando si girava facevo la foto, allora capitava che m’inseguissero, insultandomi.

Gero si domanda se gli ignavi siano esistiti nelle generazioni precedenti alla nostra, dei millennials, o se sia un tratto tipico. Crede che la nostra generazione sia d’ignavi?

Per certi versi sì, a 25 anni ero convinto che molti dei miei coetanei, la gente che avevo attorno, fossero degli ignavi.

Perché?

Mi guardavo attorno, e mi sembrava che fossimo tutti strozzati da un’angoscia paralizzante. Un’angoscia che nasceva dal dover vivere senza riuscire a farlo, dalla mancanza di direzioni da prendere, e per cui nessuno faceva più niente.

Lei come si sentiva?

Spezzato, irreale, incapace di abitare il mondo. Mi trovavo in una stanza piena di gente e mi sentivo asfissiare, dovevo fuggire.

E fuggiva?

Sì. Non potevo neanche andare al ristorante.

Cosa le capitava?

Entravo in un ristorante, magari la sala era piena e c’era il brusio degli astanti. Ecco il brusio mi annullava: mi sentivo meno del brusio, che mi frammentava. Così ordinavo, cercando di calmarmi, arrivava il piatto ma io stavo tanto male che ero costretto ad andarmene. Pagavo, sotto gli occhi confusi dei camerieri, ringraziavo tutti, sentendomi in colpa, e fuggivo.

Come l’ha superata?

Non sono più andato al ristorante (ride, ndr).

Sul serio?

Per un periodo, sì. Poi ho iniziato a fare piccoli lavoretti, ricoprendo, così, dei ruoli che mi davano un peso nel mondo.

Cos’ha fatto?

Perlopiù il cameriere.

Come il cameriere? Mi scusi, ma lei dai ristoranti fuggiva.

Tant’è che soffrivo. Quello che mi ha aiutato di più è la scrittura: I miei stupidi intenti mi ha salvato. Mi ha legato alla realtà comune.

Ricorda com’è cominciata? L’angoscia, intendo.

Non credo abbia avuto un inizio specifico, penso di essere predisposto, un suo convitato fisso: le paure esplose a venticinque anni serpeggiavano già dentro.

E poi, appunto, tutto è divampato a 25 anni.

Tra i 24 e i 25. Sentivo una pressione addosso allucinante, una vocina nella mia testa che mi diceva che di tempo non ne avevo più molto, che dovevo capire cosa volessi fare e diventare.

Ricorda altri episodi simili a quelli che nei ristoranti?

Uno in particolare. Mi scrisse una ragazza tramite social, mi chiese di vederci per un caffè, io accettai. Al bar, due giorni dopo, non riuscivo a sostenere la conversazione. Non perché la ragazza fosse noiosa, anzi era simpatica. Non ero proprio capace d’interagire con un’altra persona. Inventai una scusa, dissi che avevo un impegno e dovevo andar via, e così feci.
Mi sentii anche in colpa e le proposi di rivederci, giusto per educazione, e lei, gentile, mi rispose che sì avremmo potuto però non subito, ché aveva guidato per 40 minuti e non era un viaggio da tutti i giorni – era di un paese vicino La Spezia. Le chiesi se a Sarzana fosse venuta solo per me, se avesse guidato tanto per vedermi, e lei mi rispose di sì. Ad ogni modo, dovetti fuggire. Tornato a casa, dormii per cinque ore filate.

Un attacco d’ansia.

Sì, ne avevo tanti all’epoca, oggi di meno.

Quando le venivano?

Quando dovevo avere un contatto con la realtà, quando mi veniva richiesto di esistere nel mondo.

Torniamo al romanzo. Amon, un amico di Gero, parla di punto di rottura.

È il momento in cui, dopo aver annaspato nella confusione, riusciamo ad accettarci: sono fatto così, mi sta bene. Il frangente in cui smettiamo di lottare contro noi stessi.

Deve succedere qualcosa affinché questo punto di rottura possa avvenire?

Non è necessario. Per Gero lo è, ed è il tentativo di suicidio di Tommi, un suo amico. La pentola a pressione però può scoppiare anche perché pian piano, nel tempo: dolori e paure si sono ammonticchiati, e l’ambiente diventa saturo.

Quand’è scoppiata la sua pentola a pressione?

Tra il 2018 e il 2019, ha a che fare con la morte di mia nonna e la rottura con una ragazza.

Fu lei, la ragazza, a lasciarla?

No, fui io. Lei per me provava dei sentimenti molto forti, ma io non ero capace di tuffarmici dentro, e di lasciarmi andare: era, quello, il periodo in cui iniziai a sentirmi impalpabile, vuoto. Allontanando la ragazza mi sentivo sempre più frammentato. Ecco, stava esplodendo la pentola.

«Fai felice il tuo tempo perché anche questo è aspettare», scrive lei. Come lo fa lei, felice il suo tempo?

Aspettando (ride, ndr). Sa, spesso vorrei essere un sasso. Un sasso nel letto di un fiume che pian piano l’acqua erode fino a farlo diventare un granello di sabbia: i miei ultimi giorni li vorrei trascorrere incastrato in un costume per ascoltare qualche chiacchiera, per poi essere rimesso nel mare ed essere eroso del tutto.

Tosta.

Troppo pesante?

Mi dica cosa fa praticamente.

Brucio soldi: abbellisco casa, compro quadri di dubbio gusto, dischi di ottimo gusto.

Cos’altro?

Di recente ho comprato dei coltelli giapponesi pure se alla cucina neanche mi ci avvicino, se tocco una padella quella esplode.

Per concludere, le faccio la domanda che faccio a tutti. Immagini di avere ottant’anni, che sia una domenica mattina: dove si trova, con chi, che fa?

Se inseguirò i miei sogni, sarò riuscito a comprare un piccolo maniero, in una zona isolata dell’Italia, in mezzo ai boschi. Un posto circondato da un fossato zeppo di coccodrilli, una muraglia di filo spinato con delle torrette di guardia, un campo minato. Sarò lì a inventare cose, ha presente Tesla in The Prestige?

O magari sarà diventato un granello di sabbia.

Sarebbe meraviglioso.


25 (Sellerio 2023, pp. 180, euro 16) è l’ultimo romanzo di Bernardo Zannoni

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