Sull’uso degli asset russi per garantire gli aiuti europei all’Ucraina, nel momento più delicato della trattativa con Vladimir Putin, Giorgia Meloni resta scettica. Lo dice nell’aula della Camera, all’inizio delle sue comunicazioni in vista del Consiglio europeo del 18 e 19 dicembre.

Su questo lei non si vincola a un voto e lo teorizza: va a Bruxelles tenendosi le mani libere. E non ritiene che il parlamento possa mettere bocca, neanche i suoi della maggioranza: «Decisioni di questa portata giuridica finanziaria e istituzionale, come anche quella dell'eventuale utilizzo degli asset congelati, non possono che essere prese a livello dei leader: sarà questo ad assicurare la continuità del sostegno finanziario per il prossimo biennio, individuando la soluzione complessivamente più sostenibile per gli Stati membri nel breve e nel lungo termine».

C’è anche, ma non lo dice, il piccolo dettaglio che nel suo governo c’è chi è duramente contrario: come Matteo Salvini. Che le siede accanto, la ascolta controllando la mimica facciale mentre la premier ribadisce l’appoggio incondizionato all’Ucraina, il contrario di quello che pensa lui. Dunque sugli asset russi non si può chiedere troppo.

Del resto l’alleato in questo caso copre lo scetticismo della premier: da Budapest l’amico Viktor Orbán già avverte che se «i leader» decideranno per l’uso degli asset russi, ritirerà tutti gli investimenti dal Belgio, dove ne è custodito il core business. Fin qui l’Italia ha detto sì al regolamento, ma non ha ancora avallato «alcuna decisione sul loro utilizzo». Lo ha fatto solo, spiega la premier, «perché non vi siano ancora una volta dubbi sulla linea coerente di sostegno che il governo ha sempre mantenuto nei confronti dell'Ucraina». È pessimista: «Trovare una soluzione sostenibile sarà tutt'altro che semplice».

«Usa non sono competitor»

Un discorso compatto, dura 50 minuti. L’avvio è dedicato a chiarire che la posizione dell’Italia nei confronti di Donald Trump resta la stessa: con la Ue, ma sbilanciata verso gli Usa. Quello fra Usa e Ue è uno «stretto legame», «non sono competitor, anche se hanno angoli di visuale non sovrapponibili, dati soprattutto dalla differente posizione geografica».

E non rompere con gli Usa è uno dei cardini verso il «difficile cammino della pace», insieme alla «necessità di non ignorare i rischi se la Russia ne uscisse rafforzata e il mantenimento della pressione sulla Russia ovvero la nostra capacità di costruire deterrenza». La tregua è difficile, eppure la Russia è in «difficoltà», assicura la premier italiana: «Oltre la cortina fumogena della propaganda russa, la realtà sul campo è che Mosca si è impantanata in una durissima guerra di posizione, tanto che, dalla fine del 2022 ad oggi, è riuscita a conquistare appena l’1,45 per cento del territorio ucraino, peraltro a costo di enormi sacrifici in termini di uomini e mezzi». È questo che «può costringere Mosca a un accordo».

Meloni ricorda la sua partecipazione al vertice dei “Volenterosi” a Berlino, ma ribadisce che in ogni caso «l’Italia non intende mandare soldati» neanche in un contingente creato ad hoc per garantire il rispetto della tregua, che sarà costituito «su base volontaria». Nonostante questa posizione indecisa, o decisa a sfilarsi, l’Italia «sta in Europa non da comprimaria, ma da protagonista»

Sull’imam «sinistra ipocrita»

Molti i passaggi in cui Meloni avverte le opposizioni. A partire da quelli in cui potrebbe, forse dovrebbe, cercare l’unità del parlamento. L’aula applaude in piedi la solidarietà alle vittime dell’attentato a Sidney, ma neanche qui la premier rinuncia alla polemica contro la sinistra. «È tempo di non ammettere più distinguo o reticenze nella condanna di ogni forma di antisemitismo. Perché, da lungo tempo, si assiste a una inaccettabile sottovalutazione dell’antisemitismo di stampo islamista e di quello connesso alla volontà di cancellazione dello Stato di Israele».

Di qui alla vicenda dell’imam di Torino è brevissimo: «Alla politica e alle istituzioni spetterebbe anche il compito di preservare la Repubblica dai rischi per la propria sicurezza, inclusi quelli derivanti dalle predicazioni violente di autoproclamati imam che, come nel caso di Shahim, fanno addirittura apologia del pogrom del 7 ottobre. Un impegno che dovrebbe valere per tutte le istituzioni, magistratura compresa». L’affondo successivo: «Credo che a nessuno sfugga la sfacciata ipocrisia di chi riesce, nelle stesse ore, a chiedere la censura delle case editrici di libri non graditi e a invocare la libertà di espressione a difesa di chi inneggia ai terroristi di Hamas e alla strage del 7 ottobre».

«Anche Abu Mazen amico dei genocidi?»

Il Piano di pace di Trump «ha avuto il grande merito di porre fine al conflitto a Gaza» ma si tratta «di una tregua fragile» e il percorso passa per il disarmo di Hamas che apra «la strada alla stabilizzazione a lungo termine della Striscia, fino a realizzare la prospettiva dei due Stati».

Da qui parte un altro affondo alle opposizioni. Parte dalla recente visita del presidente dell’Anp a Roma: «Vorrei chiedere a chi ha vergognosamente sostenuto, e continua a sostenere, che il governo fosse complice in genocidio, se si reputa che anche il presidente dell’Autorità nazionale palestinese lo sia, viste la considerazione e l’amicizia che dimostra verso questo governo».

I centri in Albania funzioneranno

Nessun passo indietro sui centri di Albania, che consentiranno di «ridurre ulteriormente i flussi irregolari e a esercitare deterrenza alla tratta di esseri umani». Ribadisce che «funzioneranno», «piaccia o no alla sinistra di ogni ordine e grado». Ne è sicura ora che «stiamo risolvendo intervenendo direttamente sulla normativa europea», dunque «un quadro giuridico europeo più solido ci consentirà di mettere al riparo progetti nazionali di grande importanza come i centri in Albania da pronunce ideologiche di una certa magistratura polarizzata che ne hanno bloccato l’attuazione, ostacolando l'azione del governo contro l'immigrazione di massa».

La fine del green deal non basta

La cancellazione del termine del 2035 per la produzione dei motori diesel e benzina nell’Unione, lo dice chiaro, non le basta: gli «sforzi negoziali» dell'Italia ora punteranno a «garantire una piena attuazione della neutralità tecnologica. Senza appesantimenti burocratici eccessivi e senza limiti sproporzionati per i biocarburanti, che devono poter rappresentare una concreta prospettiva industriale anche oltre il 2035, e non soltanto un piccolo correttivo al precedente impianto normativo».

Per farlo «lavoreremo insieme ai governi maggiormente allineati con le nostre posizioni», dice alludendo alla Germania, «affinché  queste possano affermarsi con maggiore forza e il settore possa recuperare una proiezione industriale di medio termine anziché condannarsi alla desertificazione industriale».

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