«Errore» è la parola ricorrente per commentare la sentenza della Corte suprema (Dobbs v. Jackson del 24 giugno 2022) che ha negato l’esistenza di un diritto all’aborto, annullando i propri precedenti e rinviando la palla agli stati membri, liberi ora di vietarlo o di permetterlo.

Parlare di «un errore» pare appropriato: per l’idea radicata che l’aborto fosse una conquista ormai raggiunta e non più seriamente discutibile; per l’abitudine diffusa e corretta di pensare gli Usa come la «patria della libertà»; per la tendenza tipica del «costituzionalismo dei bisogni», che Stefano Rodotà indicava come il tratto caratterizzante della nostra cultura giuridica, a riconoscere sempre “nuovi diritti”; per la conseguente “assuefazione” collettiva a ritenere che lo sviluppo delle libertà fosse “senza fine”; per la reazione istintiva e allarmata ogni qual volta assistiamo a una regressione nella tutela dei diritti.

La domanda è perché sia accaduto tutto ciò e quali ne siano gli effetti. Quella decisione non è stata presa a caso. Hanno influito, certo, le ultime nomine presidenziali, che hanno spostato la maggioranza interna a favore dei giudici “repubblicani” contrari all’aborto. Quel che è accaduto, però, non è solo un ennesimo “colpo di mano” fatto da chi comanda per piegare i giudici ai propri desiderata. Quell’errore dipende soprattutto dalle caratteristiche della costituzione americana, che la rendono davvero un’“eccezione”, specie rispetto alla nostra costituzione e al costituzionalismo europeo. Partire da qui può aiutare a orientarsi nel dibattito che, inevitabilmente, si è aperto sulla nostra legge sull’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg).

Le motivazioni

Con la sentenza Dobbs siamo di fronte a «una sentenza che annulla una sentenza». Nel 1973 era stata la Corte suprema (non il parlamento) a riconoscere il diritto all’aborto della donna, negando l’esistenza di un diritto alla vita del concepito (Roe v. Wade). Il fondamento di quella “storica” pronuncia era stato rinvenuto nella libertà di autodeterminazione individuale in materia sessuale e riproduttiva e, quindi, nella sfera di vita privata. Poi i giudici l’avevano rafforzata richiamando il XIV emendamento alla costituzione, sul principio del giusto procedimento da seguire quando si limitano i diritti (sentenza Casey del 1992). Alle spalle vi era un nuovo contesto: il Sessantotto, i movimenti per la liberazione individuale e per i diritti della donna, la stagione dei diritti civili, in gran parte riconosciuti dai giudici.

Ora la Corte suprema ribalta i suoi precedenti non ritenendoli vincolanti, secondo il principio anglosassone che, di regola, impone ai giudici di attenersi alle decisioni già prese. Roe e Casey sono state ritenute «un errore» per più motivi: erano senza radici nella “tradizione” e nella “storia americana”; parlavano di un “diritto di aborto” che non c’è in costituzione ma che era sempre stato vietato e punito; non tenevano conto affatto dell’esigenza di tutelare il diritto del concepito alla vita. Perciò la Corte impone di restituire lo scettro agli americani, conferendogli il diritto di scegliere, in ogni stato membro, attraverso i propri rappresentanti, come disciplinare l’aborto.

La costituzione

Tutto ciò è coerente con la Costituzione americana del 1787, che si occupa soprattutto della divisione dei poteri, mentre in materia di diritti dice assai poco. Parla solo di libertà civili (vita, libertà e proprietà) e non prevede affatto i “diritti sociali” presupposto necessario per l’eguaglianza dei cittadini. Poi, coerentemente all’origine confederale degli Usa, affida la tutela dei diritti agli stati membri e non alla federazione. È stato merito della Corte suprema se alcuni diritti sono stati garantiti a livello federale e imposti agli stati, come il diritto all’eguaglianza scolastica per i neri o il diritto all’aborto per le donne. Senza un ancoraggio nel testo della costituzione federale (o in leggi federali), i diritti negli Usa sono per definizione “precari”, affidati alle volubili maggioranze interne alla Corte suprema (ritenuta una “terza camera”, divisa al suo interno come i partiti).

In Italia

La situazione in Italia è diversa. La nostra costituzione è “lunga”, disciplina minuziosamente i diritti della persona, li garantisce nei confronti di tutti i poteri, compresa la stessa Corte costituzionale. Impone lo «stato sociale» come fine, così mitigando la libertà individuale con le prestazioni pubbliche da assicurare a chi va liberato «dal bisogno».

In materia di aborto il precipitato della Costituzione è stata proprio la legge 194 del 1978 sull’Ivg. Non è una legge qualsiasi: è il frutto di un processo di decisione politica largo e molto democratico. Nata grazie alla spinta del referendum radicale del 1975, fu approvata perché il parlamento volle farsi carico di abrogare i reati che punivano l’aborto come chiedevano i promotori, disciplinando ragionevolmente tutti i diritti coinvolti.

Poi è stata confermata nei due referendum del 1981 (i No respinsero sia la proposta radicale di liberalizzare l’aborto, sia quella cattolica di ritornare al divieto penale). Rappresenta un mix riuscito di democrazia diretta e rappresentativa. La Corte costituzionale ne ha disegnato il contenuto confermandone più volte la validità.

La storica sentenza 27 del 1975 ha indicato i nodi della disciplina, riconoscendo che dalla costituzione derivano sia il diritto alla vita del concepito – all’articolo 2 – sia la libertà della donna di ricorrere all’Ivg – agli articoli 31 e 32 – ma stabilendo, nei casi limite, la «non equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell'embrione che persona deve ancora diventare».

Un compromesso

La legge 194 è un “compromesso” accettabile perché supera gli opposti estremismi di chi pretende una piena libertà di aborto quale “diritto” della donna (com’era negli Usa prima della sentenza Dobbs) e di chi ritiene assoluto il valore della vita del concepito (negando l’Ivg). In linea di massima ha anche funzionato.

Le statistiche indicano che in sede applicativa la legge ha dato una buona prova (basta il dato sulla riduzione del numero di Ivg dal 1979 al 2021 superiore ai due terzi). Non mancano le criticità. La più rilevante deriva dal ricorso al diritto all’astensione di medici e personale sanitario per motivi di obiezione di coscienza (presente in tutte le legislazioni). Oggi più del 67 per cento dei ginecologi lo esercita per motivi diversi (religiosi, deontologici, professionali, difensivi eccetera). Il rischio è che una pratica così diffusa svuoti la legge, creando intollerabili diseguaglianze territoriali – tra regioni del nord e del sud – e tra le donne, penalizzando le più giovani o le straniere. Il problema riguarda il bilanciamento tra l’obiezione di coscienza senza limiti e l’effettività dei diritti del concepito e della donna gestante, lasciato irrisolto dalla legge, ma da affrontare con urgenza.

Nonostante i chiaro-scuri, la 194 è un compromesso fondato nella costituzione e garantito da una giurisprudenza consolidata. Nessuna forza politica, anche dopo Dobbs, sembra disposta a rivederla. Non solo per ragioni tattiche: forse tra i partiti è diffusa l’idea che, in materia di Ivg, la Costituzione c’è e conta molto, per cui non tutto, come negli Usa, rientra nella disponibilità della politica o nella discrezionalità del giudice.

L’errore della Corte suprema è una mera questione americana, non esportabile nel contesto delle democrazie europee e italiana. Anche in materia di Ivg i diritti del concepito e delle donne contano e vanno bilanciati con equilibrio come prescrive la legge 194, perché la costituzione li prevede e li garantisce direttamente, e la stragrande maggioranza degli italiani non è disposta a rinunciarvi, affidandoli alla libertà interpretativa dei governi e dei giudici. In questo il costituzionalismo italiano ha qualcosa da insegnare anche alla patria della libertà.

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