Il compito davanti al procuratore generale americano Merrick Garland era già apparso gravoso quando aveva partecipato alle audizioni al Senato nel febbraio 2021. Pur riconoscendo l’integrità dell’allora giudice capo della Corte d’appello di Washington, già allora era evidente l’ostilità dell’ala trumpiana del partito repubblicano, che ricordava quando venne nominato da Barack Obama per sostituire il giudice della Corte suprema Antonin Scalia. Nonostante il suo assoluto equilibro, l’essere stato scelto dall’odiato ex presidente era una stigma indelebile per questa fetta del partito repubblicano, che però non ha ostacolato il fatto che la nomina è stata validata dal Senato con un confortevole margine di 70 voti a 30.

Le sfide che Garland si proponeva di affrontare di fatto erano riassumibile in due punti: lotta all’estremismo di destra e alle milizie razziste che avevano contribuito in modo significativo all’assalto del 6 gennaio 2021 al Campidoglio e una depoliticizzazione del dipartimento, dopo che per anni il suo predecessore William Barr lo aveva usato per essere l’avvocato personale di Donald Trump.

Il dilemma

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Adesso però le indagini della commissione d’inchiesta sul 6 gennaio gli pongono una questione spinosissima: far partire o no un procedimento penale nei confronti dell’ex presidente Donald Trump, alla luce delle rivelazioni in commissione d’inchiesta? Non ci sono precedenti, anche se con le dimissioni di Richard Nixon ci sarebbe stata la possibilità dopo l’intrusione ordinata nel complesso del Watergate nel 1972, se non fosse intervenuto il suo successore Gerald Ford con un provvedimento di grazia che faceva piazza pulita su eventuali crimini da lui commessi nell’esercizio delle sue funzioni.

Il procuratore generale lo scorso 5 gennaio aveva risposto a chi già allora riteneva fosse eccessivamente cauto, dicendo che avrebbe perseguito «in ogni modo» i responsabili di quell’insurrezione. All’epoca, si pensava, ci si sarebbe limitato a qualche personaggio vicino ai manifestanti, come la deputata Lauren Boebert, avvistata qualche giorno prima degli eventi mentre mostrava i corridoi del Campidoglio a un gruppo di futuri sospettati.

Con la testimonianza di Cassidy Hutchinson, ex collaboratrice del capo di gabinetto trumpiano Mark Meadows, il ruolo di Trump si è fatto più chiaro. Non più un passivo spettatore di un evento spontaneo che era andato fuori dal perimetro e che aveva osservato anche con un certo compiacimento, ma qualcosa di ampiamente pronosticato e partecipato.

Oltre alle testimonianze (tra gli altri oltre a Hutchinson, anche l’avvocato dell’ex presidente Pat Cipollone ha rilasciato nove ore di dichiarazione di fronte ai deputati), c’è anche un tweet del 19 dicembre 2020, quando Trump annunciò che ci sarebbe stata una protesta a Washington contro la «frode elettorale” commentando in modo sibillino: «Venite, sarà selvaggio».

Andare avanti 

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Quindi due scelte si prospettano di fronte a Garland: la prima è anche la più scontata. Andare avanti con l’incriminazione per l’ex presidente e instaurare quindi un precedente, ma c’è un percorso accidentato per questa soluzione.

Non soltanto perché Trump potrebbe annunciare entro l’estate la sua candidatura alle presidenziali del 2024 e gridare allo scandalo per la “caccia alle streghe” di Joe Biden contro un suo avversario politico. C’è anche un fatto contingente, come fatto notare dall’ex senatrice Claire McCaskill in un’intervista alla trasmissione Morning Joe di Msnbc: «Basta soltanto un sostenitore di Trump nella giuria di questo processo per far saltare un possibile verdetto di colpevolezza».

Qui un precedente c’è e riguardava il generale Lee: dopo la guerra civile nel 1866 si decise di non processarlo per alto tradimento perché c’era il forte rischio che ne uscisse pulito. Del resto, l’ipotesi contraria sarebbe ugualmente dirompente: il mancato processo nei confronti di un presidente che ha attivamente perseguito un’attività eversiva volta a ribaltare l’esito delle elezioni sigillerebbe quanto affermato da Richard Nixon in una famosa intervista con il giornalista britannico David Frost nel 1977: «Se lo fa un presidente, un atto non può essere illegale per definizione».

Amministrazione tradita

E questo di sicuro renderebbe ancora più probabile che Donald Trump, qualora vinca le elezioni, forzi ancora più la mano con comportamenti illegali, tipo la dichiarazione di legge marziale in caso di proteste di piazza e persegua una politica durissima e disumana nei confronti dei migranti provenienti dal confine con il Messico.

In questo secondo caso però ci sarebbe comunque un risvolto politico immediato: per i progressisti l’inazione di Garland sarebbe la prova finale che l’amministrazione ha tradito le attese e che quindi i democratici non siano più affidabili, portando quindi a un astensionismo forte nelle elezioni di metà mandato, con conseguenze potenzialmente anche più grandi per la tenuta del partito.

Garland quindi, come procuratore generale, dopo una vita da giudice conosciuto per il suo equilibrio e la sua imparzialità, dovrà prendere una decisione che sarà politicamente molto caratterizzata e da cui dipendono i destini dell’amministrazione. In ogni caso, non potranno essere evitate delle conseguenze negative.

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