La plastica prodotta in modo biologico, ossia direttamente dalle piante è spesso considerata meno dannosa per l’ambiente rispetto alla plastica prodotta da sostanze petrolchimiche, ossia derivate direttamente dal petrolio. Ma gli scienziati avvertono che dovremmo stare attenti a questa conclusione che non è poi così tanto vera.

Quali plastiche?

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Uno studio che ha esaminato i risultati di una ventina di articoli pubblicati su riviste scientifiche ha messo in luce come le bioplastiche, la maggior parte delle quali derivano da amido di mais, possono essere inquinanti quanto le loro cugine convenzionali, soprattutto se arrivano e si depositano in ambienti costieri. 

In queste aree infatti, le componenti chimiche delle bioplastiche non si degradano come si pensava e possono rimanere a lungo con conseguenti gravi danni all’ambiente. Ciò evidenzia come ancora oggi si conosca molto poco circa la loro tossicità ambientale a livello generale.

«Per fare chiarezza va comunque detto che con il termine “bioplastiche” si raggruppa un ampio spettro di plastiche. Copre sia la plastica a base biologica, che è prodotta da piante o altra materia organica non fossile, sia plastica biodegradabile prodotta da combustibili fossili, ossia quella che dovrebbe essere facilmente degradabile nonostante la derivazione dai prodotti petroliferi. Va sottolineato chiaramente che le bioplastiche non sono necessariamente diverse dalle plastiche convenzionali», afferma Martin Wagner, un tossicologo ambientale dell’università norvegese di scienza e tecnologia che non è stato coinvolto nella revisione ma il cui lavoro è stato incluso nell’analisi, il quale continua: «Mentre alcune bioplastiche sono nuovi composti chimici (e possono essere davvero facilmente degradabili), altre sono chimicamente identiche alle plastiche convenzionali, con l’unica differenza che sono prodotte dal carbonio derivato dalle piante piuttosto che dai combustibili fossili». 

Pur riconoscendo che non ci sono molti dati disponibili e che gran parte di essi si concentra su poche bioplastiche (come l’acido polilattico e i poliidrossialcanoati, prodotti principalmente dall’amido di piante come mais, canna da zucchero e soia), gli autori della revisione sono giunti alla conclusione che gli effetti tossici sulla vita marina e degli estuari possono essere di entità simile a quelli della plastica convenzionale.

Alcuni degli studi inclusi nella revisione mostrano, ad esempio, che sia la plastica convenzionale che la plastica a base biologica possono influenzare il modo con cui i mitili si attaccano alle rocce. 

Possono anche influenzare l’attività degli enzimi nel sistema digestivo e nelle branchie delle cozze con risposte negative su tali organismi. Due studi inoltre, hanno dimostrato che i sacchetti di plastica derivati ​​dall’amido di mais riducono il livello di ossigeno disciolto nei substrati marini e portano ad un riscaldamento del substrato. Gli autori di un articolo suggeriscono che la bioplastica abbia avuto anche un effetto sigillante sul sedimento.

Conclusioni queste che non meravigliano i ricercatori della revisione degli studi, perché le ricerche fatte prima della diffusione delle bioplastiche riguardavano soprattutto specifiche condizioni di compostaggio, industriali e di laboratorio, ma non erano mai state fatte su spiagge o sul fondo del mare. Le ricerche eseguite successivamente invece, hanno rilevato che in condizioni marine realistiche, i tassi di degradazione variano enormemente a seconda del tipo di bioplastica. 

Mentre alcuni oggetti si degradano o si disintegrano completamente in pochi mesi, altri possono impiegare anni prima di degradarsi completamente.

Wagner afferma che l’atteggiamento di alcune persone secondo cui tutto ciò che è biologico è migliore non è assolutamente corretto: «Penso che il presupposto di partenza che ciò che è di base biologica è sicuro deve essere messo in discussione, perché non ci sono dati a favore di tale ipotesi. Lo sviluppo della bioplastica si è concentrato su materie prime rinnovabili e sostenibilità, ma ha trascurato i problemi di sicurezza a volte unici dei prodotti». 

Nei suoi lavori sulle bioplastiche, come la plastica a base di amido e bambù, ha dimostrato che esse contengono sostanze chimiche tossiche paragonabili a quelle della plastica a base di petrolio. 

Giove, nuovo record per i satelliti

(NASA, ESA, A. Simon/Goddard Space Flight Center, M.H. Wong/University of California, Berkeley via AP)

Giove, il gigante dei pianeti del sistema solare, ha il nuovo record (per tanto tempo palleggiato con Saturno) nel numero di satelliti naturali che lo circondano. Recentemente infatti sono state scoperte altre 12 lune, così che ora ne annovera 92 e strappa nuovamente il record a Saturno, che ne possiede 83.

Le nuove lune sono state scoperte fra il 2021 e il 2022 grazie ai telescopi delle Hawaii e in Cile e recentemente sono state riconosciute tali dal Centro per i corpi minori dell’Unione Astronomica Internazionale. Si tratta di lune molto piccole, le quali possiedono un diametro compreso fra uno e tre chilometri.

 Scott Sheppard, della Carnegie Institution e che ha al suo attivo la scoperta di ben 70 lune di Giove, comprese le ultime 12 ha detto: «La speranza di noi astronomi è che, in futuro, sia possibile osservarne da vicino almeno una, in modo da determinarne meglio l’origine». Forse sarà possibile con la prossima missione a Giove, la Juice (Jupiter Icy Moon Explorer), che l’Agenzia spaziale europea (Esa) si prepara a lanciare in aprile.

Nel 2024 è prevista una seconda missione diretta a Giove, Europa Clipper, della Nasa. Dei 92 satelliti di Giove i maggiori, ossia i satelliti medicei o galileiani, furono scoperti nel 1610 da Galileo Galilei e furono i primi oggetti individuati in orbita a un corpo del sistema solare che non fosse la Terra o il Sole.

Dalla fine del XIX secolo sono state scoperte decine di satelliti di dimensioni minori che hanno ricevuto i nomi di amanti, conquiste o figlie di Zeus. Tra tutti i satelliti otto sono considerati “satelliti regolari” e possiedono orbite prograde, ossia si muovono nella stessa direzione tenuta da Giove, quasi circolari e poco inclinate rispetto al piano equatoriale del pianeta.

I satelliti medicei presentano una forma sferoidale e per le loro dimensioni e caratteristiche potrebbero rientrare nella categoria dei pianeti nani se orbitassero direttamente attorno al Sole e non attorno a Giove; gli altri quattro satelliti regolari sono invece più modesti e più vicini al pianeta e costituiscono la sorgente delle polveri che vanno a formare il sistema di anelli del pianeta. Gli altri satelliti sono considerati da molti astronomi degli asteroidi, che vennero catturati dalla grande gravità del gigante gassoso.

Gli alberi riducono le vittime del caldo 

ASSOCIATED PRESS

L’inverno in corso, forse, ci ha fatto dimenticare le forti ondate di calore che abbiamo subito durante le scorse estati, le quali sono state drammaticamente percepite soprattutto da chi abita nelle città. Secondo uno studio pubblicato su Lancet, un aiuto importante per limitare le conseguenze dolorose a tali fenomeni starebbe nel piantare più alberi nelle aree urbane. Ciò potrebbe addirittura ridurre di un terzo le morti direttamente legate al caldo e alle ondate di calore.

I modelli climatici dimostrerebbero che un aumento della copertura di alberi al 30 per cento rispetto alle dimensioni di una città, ridurrebbe di 0,4° Celsius la temperatura a livello locale, soprattutto nei mesi estivi. Un valore che sembra piccolo, ma non lo è in termini assoluti. Attualmente, poco meno del 15 per cento degli ambienti urbani in Europa, in media, è coperto da qualche tipo di fogliame.

Dei 6.700 decessi prematuri attribuiti a temperature molto elevate in 93 città europee durante il 2015, un terzo (circa 2.644 decessi) lo si sarebbe potuto evitare, sostengono i ricercatori. Questi hanno stimato i tassi di mortalità per le persone di età superiore ai 20 anni tra giugno e agosto 2015, per un totale di 57 milioni di abitanti.

La differenza di decessi tra quelli reali e quelli calcolati che si sarebbero potuti evitare la si è ottenuta analizzando le temperature medie giornaliere della città con due scenari diversi.

Il primo ha confrontato la temperatura della città con e senza isole di calore urbane. La seconda simulazione ha introdotto una riduzione della temperatura con una copertura arborea aumentata al 30 percento. In media, la temperatura nelle città è stata di 1,5°C più calda durante l’estate 2015 rispetto alla campagna circostante. 

La città con la differenza più alta – 4,1°C – è stata Cluj-Napoca, in Romania. In tutte le città, il 75 per cento della popolazione totale viveva in aree di almeno un grado più calde, mentre il 20 per cento ha sperimentato temperature di almeno due gradi più elevate.

«La ricerca è la prima del suo genere a prevedere il numero di decessi prematuri dovuti a temperature più elevate nelle città, che potrebbero essere prevenute da un’ulteriore copertura arborea», ha affermato l’autrice principale del lavoro, Tamara Iungman, ricercatrice presso l’Istituto di salute globale di Barcellona, la quale ha continuato: «Sappiamo già che le alte temperature negli ambienti urbani sono associate a esiti negativi per la salute, come insufficienza cardiorespiratoria, ricovero ospedaliero e morte prematura e per questo, il nostro obiettivo è informare la politica locale e i responsabili delle decisioni sui vantaggi dell’integrazione strategica delle infrastrutture verdi nella pianificazione urbana al fine di promuovere ambienti urbani più sostenibili, resilienti e sani».

Le città registrano temperature più elevate rispetto alle periferie o alle campagne circostanti a causa del cosiddetto effetto “isola di calore urbano”. Questo calore extra è causato principalmente dalla mancanza di vegetazione, dai gas di scarico dei sistemi di climatizzazione, dall’asfalto scuro e dai materiali da costruzione che assorbono e intrappolano il calore. Il cambiamento climatico ha già amplificato il problema. 

L’anno scorso, l’Europa ha visto la sua estate più calda mai registrata e il secondo anno più caldo. È vero che oggi, il freddo causa ancora più morti in Europa rispetto al caldo, ma i modelli climatici prevedono che le malattie e i decessi legati alle elevate temperature rappresenteranno un onere maggiore per i servizi sanitari entro un decennio.

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