Si ripropone un copione ormai noto: cattedre vacanti, soprattutto nelle secondarie di primo e secondo grado, e supplenze che arrivano in ritardo. Nessun intoppo organizzativo, sono le crepe di un sistema educativo che fatica a garantire stabilità e qualità e riflette le difficoltà croniche nel reclutamento. Le cause di queste criticità e le conseguenze sull’insegnamento
Ogni anno, a settembre, si ripropone un copione ormai noto: le scuole riaprono, ma molte cattedre, specialmente nelle secondarie di primo e secondo grado, restano vacanti. Le supplenze, spesso assegnate a docenti non di ruolo estratti da graduatorie provinciali come lavoratori stagionali, arrivano persino a dicembre.
Nel sistema scolastico italiano, per l'anno scolastico 2024/2025, il numero di supplenti (docenti precari con contratto a tempo determinato) ha raggiunto un record storico di 250.000 unità un incremento del 72% rispetto ai 132.000 del 2017/2018 (su un totale di circa 900.000 unità, di cui circa 200.000 docenti di sostegno), con un incremento del 72% rispetto ai 132.000 del 2017/2018. La composizione anagrafica del corpo docente è altrettanto squilibrata: oltre metà degli insegnanti italiani ha più di 50 anni e l’11,1% supera i 60, facendo dell’Italia uno dei paesi con la docenza più anziana. Inoltre, la presenza di circa 62.000 precari nella fascia 45–54 anni evidenzia un sistema incapace di offrire stabilità anche a chi ha già alle spalle anni di servizio.
Frustrazione e disorientamento per tutti
Questo scenario, ben lontano da un semplice intoppo organizzativo, rivela le crepe di un sistema educativo che fatica a garantire stabilità e qualità e riflette le difficoltà croniche nel reclutamento e nelle assunzioni stabili. Di questi, una quota significativa riguarda le scuole secondarie, come evidenziato dalle procedure di nomina ancora in corso a settembre 2025.
A pagarne il prezzo sono gli studenti e le loro famiglie, costretti a fronteggiare lezioni scoperte e una discontinuità didattica che genera frustrazione e disorientamento, senza sapere a chi rivolgere le proprie rimostranze. Ma gli stessi docenti precari si ritrovano anno dopo anno in questo frullatore di assegnazioni, di cambi di scuole e alunni e di logoramento non indifferente prima ancora di essere stabilizzati, il ruolo può arrivare anche dopo lustri.
Mi propongo di indagare e di spiegare nel modo più semplice possibile le cause di questa criticità, tanto complessa e intricata da risultare spesso incomprensibile persino agli stessi insegnanti, cercando di rispondere alle domande di chi si interroga sul perché a ogni avvio d’anno scolastico le classi si ritrovino senza tutti i docenti in classe.
Affronterò la questione attraverso due prospettive, perché le due questioni si sovrappongono. La prima è meramente tecnica: il percorso che porta un docente dall’aula universitaria alla cattedra scolastica è un labirinto di graduatorie, supplenze, concorsi e corsi di abilitazione. Un meccanismo opaco e spesso incomprensibile non solo agli addetti ai lavori, ma agli stessi aspiranti insegnanti, costretti a vivere in un perenne limbo tra titoli acquisiti, punteggi calcolati con criteri farraginosi e attese infinite di nomina, sia che abbiano vinto un concorso sia che non lo abbiano vinto. Una complessità che conduce ogni anno a risolvere rebus irrisolvibili per ogni assegnazione (chi c’è prima, chi c’è dopo, se accetta, se altri ricorrono, se già non ha preso un altro incarico…) per cui le procedure diventano elefantiache e accade quel che accade.
La seconda è qualitativa: cosa comporta il sistema di cui sopra? Non basta portare un docente in classe, occorre chiedersi che docente arriva in cattedra. La scuola italiana, da decenni, ha oscillato fra due estremi opposti: da un lato, percorsi di reclutamento che si limitano a verificare saperi nozionistici, incapaci di valutare le competenze didattiche; dall’altro, procedure emergenziali di nomina o immissione in ruolo - e i numeri di sopra ne sono la vetrina immediata - che spalancano la porta anche a supplenti neolaureati privi di qualsiasi formazione pedagogica.
In entrambi i casi, il risultato è il medesimo: la qualità dell’offerta educativa si deteriora, mentre le innumerevoli pastoie burocratiche - concepite nelle intenzioni per assicurare trasparenza e rigore - finiscono per produrre l’effetto opposto. Così, i futuri docenti e gli stessi studenti si ritrovano vittime inconsapevoli di una macchina amministrativa inceppata, che sottrae energie alla scuola invece di rafforzarla.
La parentesi felice del sistema FIT
Questi due problemi - il tecnico e il qualitativo - avevano trovato una risposta con l’introduzione del sistema FIT (Formazione iniziale e tirocinio), introdotto con la contestata legge 105/2015, meglio nota Buona Scuola, approvato nel 2017 sotto il governo Gentiloni. Ne avete sentito parlare poco, lo so, perché insieme al decreto che riformava il percorso educativo da 0 a 6 anni fu la parte meno criticata della legge, quella maggiormente preparata da un confronto orizzontale con insegnanti, esperti e mondo accademico e politico e con la sapiente regia tra gli altri dell’allora parlamentare Manuela Ghizzoni, del compianto Luciano Modica e con il contributo di Giunio Luzzatto, scomparso il 21 settembre.
Il FIT cercava di risolvere i problemi di cui abbiamo parlato creando un sistema di professionalizzazione post lauream per diventare docenti, un percorso triennale che non si limitava a selezionare e portare in cattedra i docenti necessari ogni anno, ma soprattutto formava i futuri insegnanti, garantendo loro un sostegno economico lungo l’intero iter.
La vera novità stava nella struttura del percorso: il concorso era collocato all’inizio della specializzazione, sul modello delle scuole di specializzazione mediche, e i posti messi a bando erano definiti in base ai fabbisogni reali delle singole province. In questo modo, chi entrava nel FIT sapeva di avere alla fine del triennio una cattedra certa, senza più l’incubo di un precariato indefinito e le classi non erano ostaggio di casualità ma di certa programmazione. Già durante il percorso i futuri docenti iniziavano a svolgere supplenze nella scuola di assegnazione, potendo integrare la borsa di studio con un primo contatto concreto con la professione.
Vale la pena sottolinearlo: i docenti in formazione venivano pagati, mentre oggi l’onere della preparazione e dell’acquisizione dei crediti per accedere al concorso grava interamente sulle spalle dei candidati. Le scuole, a loro volta, avrebbero finalmente avuto la possibilità di programmare con certezza il proprio organico, senza dover attingere ogni anno alle graduatorie. Niente precarietà ventennale, niente organici “ballerini”.
Il FIT era concepito sul modello dei dottorati di ricerca e delle specializzazioni mediche: un percorso professionalizzante che integrava il sapere disciplinare con il sapere didattico e con il tirocinio guidato, ossia quella capacità di trasmettere conoscenze, organizzare il lavoro d’aula, gestire una classe e educare che rappresenta l’essenza stessa dell’insegnare. Elemento tutt’altro che marginale, il FIT avrebbe favorito per la prima volta una collaborazione strutturale tra scuola e università, attraverso i progetti di ricerca-azione, oggetto della formazione di ogni singolo tirocinante, intrecciando pratica didattica e ricerca educativa, in linea con i sistemi formativi più avanzati in Europa.
Quel sistema, secondo le due prospettive prima citate, rispondeva dunque a due esigenze centrali: sul piano tecnico, garantiva un iter chiaro, progressivo e libero dall’incertezza delle supplenze infinite, garantiva i docenti, le scuole e gli studenti con cattedra stabili e di ruolo; sul piano qualitativo, assicurava che chi entrava in cattedra fosse preparato non solo dal punto di vista disciplinare, ma anche pedagogico e metodologico. Era, in sostanza, un modello europeo di formazione iniziale che superava la logica emergenziale e restituiva centralità alla professionalità docente.
L’alleanza contro la riforma della Buona Scuola
Perché, allora, fu così rapidamente smantellato? Le critiche al FIT provenivano da fronti diversi, che raramente trovano convergenza, ma che in questo caso si unirono in una sorta di alleanza implicita e silenziosa contro la riforma. Da un lato, i futuri neo-docenti, abituati ad accedere subito alle supplenze, percepirono, sbagliando, il percorso triennale come un ostacolo: un ritardo nell’ingresso in classe, vissuto in un contesto di precarietà diffusa come una sottrazione di opportunità anziché come un investimento sulla propria professionalità e sulla certezza della stabilità.
Dall’altro lato, i cosiddetti accademici disciplinaristi temevano di veder ridimensionata la centralità del sapere specialistico a vantaggio del sapere pedagogico. In realtà il FIT non intaccava il valore dei percorsi universitari, ma li completava, potenziandoli con una solida componente metodologica. Tuttavia, in un sistema accademico frammentato e spesso geloso delle proprie prerogative, la percezione di un “nuovo attore” formativo, le scuole, suscitò diffidenze e resistenze.
Un terzo fronte critico - benché silenzioso - fu quello sindacale. Ufficialmente, la perplessità era che il FIT rappresentasse un appesantimento burocratico e gravoso. Ma il non detto era un altro: eliminando le graduatorie tradizionali, la riforma minava alla base uno dei terreni storici su cui si fonda il potere di mediazione sindacale, ossia l’assistenza sulle liste e i punteggi. In realtà, la rappresentanza avrebbe potuto benissimo riallineare la sua attività sulle questioni cruciali inevase della professione docente - contratto, condizioni di lavoro, riconoscimento economico - anziché difendere un meccanismo di reclutamento obsoleto, un terreno praticabile di confronto tra rappresentanze e governo che allora mancò del tutto. Inoltre, il FIT alo stato costava. Un tesoretto che poteva essere indirizzato ad altro da governi meno interessati a risolvere strutturalmente i problemi della scuola e a farci cassa con facili consensi.
Il coraggio che manca ai governi
Con il governo successivo e il ministro Bussetti, indicato dalla Lega, il FIT venne smantellato. È tornato il vecchio meccanismo: graduatorie interminabili, concorsi monstre episodici e funestati da ricorsi e intoppi, sanatorie e supplenze. L’emergenza è diventata la regola. Ogni settembre - ottobre, novembre, alcuni a dicembre - gli studenti vedono buona parte delle migliaia di precari entrare in classe senza una formazione robusta e coerente alle spalle e senza certezze davanti, e la scuola continua a navigare a vista.
La fase successiva, con il ministro Bianchi durante il governo Draghi, non ha avuto il coraggio e la volontà di invertire la rotta. L’introduzione di percorsi universitari basati su crediti formativi da acquisire per accedere ai concorsi alimenta un mercato dei crediti, con università ed enti accreditati privati che offrono crediti a pagamento senza adeguati controlli di qualità. Il rischio è duplice: mantenere l’opacità del reclutamento e compromettere la qualità dei docenti futuri.
Il paradosso italiano si coglie meglio guardando oltre confine. In Francia, l’accesso alla docenza avviene tramite concours nazionali che prevedono prove disciplinari e di didattica, seguiti da un anno di tirocinio retribuito. In Germania, il percorso si articola in due fasi: formazione universitaria specifica (Lehramt) e biennio di tirocinio pratico (Referendariat) con valutazione finale. Nei Paesi nordici, come la Finlandia, che lega le ragioni della sua eccellenza proprio alla formazione iniziale e alla selezione dei docenti, l’accesso è altamente selettivo già all’ingresso universitario, con una forte centralità delle scienze dell’educazione e una stretta connessione tra ricerca e pratica didattica, tra università e scuole.
Il principio comune è che la docenza è una professione ad alta specializzazione, che richiede una formazione professionalizzante post-laurea, strutturata e valutata. L’Italia, al contrario, continua a oscillare tra graduatorie, concorsi a singhiozzo ed emergenze. Chiudendo gli occhi di fronte al mercimonio dei crediti. Il bacino elettorale della scuola, come molti sanno, è un mostro che va governato se va bene, lasciarlo sonnecchiare nella dequalificazione rende. Eppure, forze politiche e programmi adeguati potrebbero riprendere quella felice alleanza di progetto e coinvolgimento sul terreno della qualità, non della demagogia e della retorica.
Anomalia italiana
I dati internazionali confermano la specificità - e l’anomalia - italiana. Secondo Education at a Glance 2024, l’investimento pubblico in istruzione in Italia si attesta al 4% del Pil, ben al di sotto della media Ocse del 4,9%. Le retribuzioni sono tra le più basse: a inizio carriera parliamo di circa 1.300 euro nette, a fine carriera, un docente in Italia percepisce circa 2.000 euro netti al mese, contro i 3.000 euro della Francia e oltre i 5.000 euro della Germania.
È vero che chiunque potrebbe replicare che non è solo il quanto, ma il come si spende a fare la differenza, quando vuole tradurre ciò sul concetto di “razionalizzazione”, cioè, taglio, come sempre accade sulla scuola. È dunque sempre necessario esplicitare come si spende sottolineando come investimenti necessari e costosi siano ineludibili, ma si ripagano da soli con i ritorni che ne derivano. Il FIT costava ad esempio, formare i docenti e retribuirli costava, risorse che sono state prontamente dirottate su altro, ma era un investimento utile, necessario e i cui vantaggi sarebbero stati ben maggiori dei costi.
I numeri e le considerazioni espresse sopra mostrano chiaramente come la scuola italiana continui a essere trattata come un settore amministrativo e non come una infrastruttura strategica del paese. Su cui è più facile fare retorica ideologica che agire per la soluzione dei problemi. La qualità dei docenti resta un tema secondario, sacrificato su altari economici, burocratici e corporativi. Eppure, senza insegnanti preparati e stabili, nessuna riforma scolastica potrà mai produrre gli effetti sperati.
Occorrerebbe tornare a un modello simile al FIT, o che persegua gli stessi obiettivi: un percorso unitario, professionalizzante, che integri selezione e formazione con una progressione chiara e trasparente, con concorso all’ingresso del percorso formativo post lauream (su numeri certi di fabbisogni provinciali eliminando le graduatorie). Solo così si può spezzare la spirale di precarietà che da decenni logora la scuola e restituire agli studenti ciò che meritano: insegnanti motivati, competenti e stabili.
Fino a quando questo nodo non sarà sciolto, ogni settembre un genitore mi dirà: «Anche quest’anno siamo a ottobre e mio figlia/o non ha tutti i docenti in cattedra».
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